PALLIATIVI E PALLIATIVI

Lei era una di quelle scomode.

Parliamo di quindici anni fa, quando gli studenti “scomodi” erano quelli che ti mettevano in difficoltà perché studiavano, erano colti, ne sapevano una più del diavolo, e il diavolo eri tu.

E lei era così: cazzuta.

Cazzuta al punto che i suoi docenti non sempre la sopportavano, perché parlava troppo, e diceva cose giuste, e se qualcuno le diceva sbagliate, lei era lì a gridarglielo in faccia. Ricordo che pensai sorridendo “farà un lavoro tosto, e importante, un lavoro di quelli che in pochi sanno fare”.

E così l’ho riconosciuta subito, come se quel giorno io l’avessi vista oggi.

L’ ho riconosciuta pure se non potevo vedere i ricci, raccolti nella cuffia chirurgica verde, né il naso, né la bocca, coperti dalla mascherina. Gli occhi, però, erano uguali, proprio come quando lo Scrittore dice “due cavalli bizzarri”, due purosangue che non stanno mai fermi.

Anche lei mi riconosce subito.
Mi chiama “prof”, io mi alzo dalla poltrona della sala da aspetto, e le vado incontro, mentre i due cavalli mi fissano inquieti e interrogativi.

“E’ questo che hai scelto di fare?”
“Sì, ho viaggiato un bel po’ ma alla fine eccomi qui, una bella struttura, aperta solo quattro anni fa, guarda, è bellissima. Qui posso accudirli bene”
“Fino alla fine” dico io, sorridendo amara.
“Fino alla fine senza che soffrano” aggiunge lei.

“Eh, il dolore, Laura, che grande civiltà riuscire a tenerlo lontano il più possibile, che grande conquista ottenere che si percorra tutta la strada, fino in fondo, senza impazzire di sofferenza”
“Si crea un legame” sussurra, guardando altrove.
“Non voglio saperlo”.

Sento tutto, dietro questa calma apparente,  in questo posto bellissimo, all’avanguardia, non sembra neanche di stare dove stiamo, sono mio malgrado capace di avvertire e non vorrei.

“Praticamente vivo qui dentro”
“Ci credo”
“E’ il lavoro più bello del mondo”
“Perché sei una cazzuta guerriera”
“Mah… “.

Ci sono tanti tipi di dolore.
I dolori dell’anima puoi provare a lenirli in qualche modo, e se non ci riesci la scienza ti aiuta anestetizzandoti, cosicché passi il tempo, e tu elabori, finché pian piano torni a cavartela da solo. E poi ci sono i dolori del corpo, quelli che tante volte nessuno ti crede che ce li hai. E che qualche dottore bastardo dice che te li devi tenere. Perché? Perché non c’è un dolorometro che li possa misurare. O semplicemente perché ci sono i medici- sadici, convinti che l’uomo “ha dda soffrì”, convinti che il paziente deve essere paziente e basta.

Ma ci sono anche altri medici, convinti che la vita vada vissuta davvero, fino all’ultimo istante. E che sia un gesto di civiltà garantire una dignità a questo dolore. Una dignità che non va negata nemmeno agli animali.

All’improvviso mi viene da ridere: penso alla mia amica Giovanna, che per sostenere sua madre sofferente s’è dovuta arrabbattare a procurarsi qualcosa di molto speciale, visto che il suo medico si rifiutava di darle analgesici. Se conosceste Giovanna, così pavida, così elegante e timida, capireste quanto debba essere stato difficile trovare quel “qualcosa”. E assumersi la responsabilità di somministrarlo. E poi tornare a prenderlo, e andare avanti così fino alla fine, fino alla fine, aiutandosi anche lei, con quel qualcosa, perché dai, che male c’è? dove altro la puoi prendere, la forza?

E rido, Perché ancora adesso Giovanna, dopo l’ultimo viaggio, sta davvero bene.
Prima era sempre triste, ora invece la vedi serena.
A volte la senti perfino canticchiare.
Quando cammina, non sembra più che abbia ingoiato un ombrello.
Ha il passo morbido, leggero leggero!

 

SHIT!

Abbiamo tutti una certa pratica di stronzi, perché di stronzi è pieno il mondo. Chi non ne ha intorno? Tutti! E al contempo siamo tutti lo stronzo di qualcun altro. A questo non ci avevate pensato, eh, confessatelo. Epperò ci sono quelli veri, e quelli per modo di dire, dunque l’argomento è complesso.

Io sono laureata in stronzologia.

Lo stronzo nutre nei miei confronti un particolare tipo di attrattiva e di attaccamento.

Diciamo pure che io attiro gli stronzi come una calamita attira il ferro.
La mia faccia ingenua gli piace parecchio. La mia espressione costantemente difensiva mi fa apparire fragile, vulnerabile, manipolabile, anche se in realtà non lo sono. E lo stronzo è miope,  si ferma sempre alle apparenze.
Diciamo pure, per onestà, che io lo stronzo NON lo evito, anzi lo sfido, me lo vado a cercare, e su questo ci sarebbe molto da dire.

Anyway, la prima regola, caro il mio lettore, è questa: fidati di quello che lo stronzo ti dice all’inizio, perché è prassi comune che egli si dichiari. Appena lo conosci, lui dice “Guarda che io sono stronzo”. Non lo fa per te, lo fa per sé, sa benissimo che potrà sempre dirti che te l’aveva detto sin dall’inizio. Ma tu – che stronzo non sei – fatichi parecchio a credergli, proprio per il fatto che te lo dice. La prendi come una battuta, un motto di spirito: invece ti sta dicendo la verità. È uno stronzo! Poi le cose vanno avanti: collega amico o parente che sia, quando lo stronzo dopo un po’ inizierà a fare lo stronzo sul serio, non lo dirà mai più! Lo sarà e basta.

Ma sarà… che cosa? Beh lo sappiamo tutti, lo stronzo non ha altro Dio al di fuori del suo io: esiste solo lui. È incapace di ascolto, incapace di qualsiasi tipo di scambio, prende tanto, dà poco o nulla, si ama fino al disgusto. Non fa differenza che tu ci sia, tu sei assolutamente sostituibile, non c’è nulla di tuo che sia singolare e speciale per lui. Ama ciò che prende, non chi glielo dà. E di ciò che prende fa un leit motive, la sua unica compagna di vita, i nomi cambiano, si dimenticano, quello che importa è che la costante “k” sia davvero costante: energia, denaro, amore, lavoro, sesso, qualsiasi cosa, ma è una cosa. Non è mai una persona.

Incapace di uscire da sé, chiuso nel suo piccolo grande mondo, lo stronzo non saprà mai che cos’è il perdersi in un universo completamente diverso dal suo, non saprà mai che cos’è un viaggio in un pianeta inesplorato, rischioso, un viaggio da cui potrebbe anche non tornare mai più. Come il pesciolino nella boccia, non vede altro che il suo piccolo mare. Eppure, pateticamente, si dichiara un grande marinaio, ha un’immagine di sé GRANDIOSA, da cui tu vieni letteralmente risucchiata, solo perché ti piacciono le storie, le narrazioni, le fantasie.

Finché un giorno, dai e dai, il velo si squarcia, vedi l’omino del Mago di Oz, vedi lo scenario di cartone del Truman Show, e scendi dalla giostra.

Non devi restarci male: il tempo che hai investito, l’energia che ci hai messo, per te sono Vita, e nulla andrà sprecato, ti hanno reso migliore.

In Oriente si pensa che le sofferenze rendano belli. Pensa quanto sei bell@. Sì, sei una meraviglia, ogni frattura oro colato, un kintsugi.

Perciò, caro lettore, ogni giorno della tua vita, ringrazia di avere incontrato l@ stronz@ di turno, e prega Dio che non ci sia giorno in cui non ne incontri un@: potrai apprezzare chi sa vederti e sceglie di perdersi, e di dimenticarsi.

Ci sono pesci convinti di nuotare nel mare, e invece nuotano nello scarico dove alla fine tutti li buttano. Tirando subito l’acqua.

CARO COMMISSARIO…

Comunemente si dice che gli Esami di Stato
sono un incubo per gli studenti.

Ma un poco lo sono anche per i docenti.
Nonostante l’età e l’esperienza,
o forse proprio per questo,
i docenti che hanno preparato la classe sono lì,
col cuore che batte.

Nell’immaginario collettivo, l’Esame di Stato è qualcosa che ti segna per sempre, una sorta di rito tribale in cui i ministri sono i commissari “interni” ed “esterni”, e tutti pensano che gli “interni” siano preoccupati per gli studenti deboli, che sono arrivati fin lì per grazia ricevuta.

Ebbene, non è così.

Il Commissario Interno non è agitato per quelli meno bravi, perché i meno bravi sono gli specialisti del “rush” finale. Sono quelli che con sapienza hanno esercitato la loro intelligenza nei cinque lunghi anni di liceo per sviluppare un’unica abilità: raggiungere il massimo risultato col minimo sforzo. Si presenteranno al colloquio carichi, pimpanti, e conteranno sui Commissari Esterni per riscattarsi: in loro cercheranno una nuova identità, alla faccia degli interni, che non potranno che rosicare. La brillante performance del colloquio sarà la loro migliore interpretazione, e saranno bravi, bravi come li avevi sempre sognati.  Sapranno esporre la tecnica del labor limae, ma qualcuno di loro dirà “labor LAIM”, senza che nessuno se ne accorga, così manifestando una certa pratica di cocktail, piuttosto che della lingua Latina. O parleranno di Marziale, e della figura del cliens, chiamandolo però “CLAIENS”, così dimostrando che un host ha più valore di un libro di latino. Però si dirà: “via, bisogna capire, si tratta di nativi digitali… bisogna valutare la performance!”

Ecco perché il Commissario Interno non si preoccupa per questi. E’ impensierito, invece, per tutti coloro che in cinque anni ce l’hanno sempre messa tutta, i “bravi”, o per quelli che proprio bravi non sono, ma che lentamente si sono emancipati da una condizione di minorità, riducendo il gap sociale.

Questi arriveranno all’Esame esausti, sfiniti al punto da rischiare un corto circuito che li porterà forse a non brillare, o forse a dire una cavolata, così, per un improvviso upload involontario, una maligna interferenza della memoria. Arriveranno alle prove senza cartuccera, senza auricolari stile “Club degli imperatori”: e soli, perché sono sempre stati soli.

Ecco perché ti chiederai se “gli esterni” si fideranno di te e di quello che dirai quando tenterai di difendere la ragazza bravissima che però all’improvviso balbetta, o il ragazzo che è partito da meno di zero… ma oggi (toh!) non si ricorda quando è nato Manzoni, o sbaglia una formula, o gli scappa di bocca una cavolata.

Nessuna pietà neanche per te, ragazzino problematico e introverso. O per te, bravo ragazzo con la camicia delle grandi occasioni, che non segui la moda, che riesci ad attribuire ancora tanto valore alla scuola perché per te è motivo di riscatto. Magari sei italiano di prima generazione, hai un cognome pieno di h e di xyz, ma non sai neanche più dire buongiorno nella lingua di tua madre, perché tua madre con orgoglio ha voluto che tu la dimenticassi, affinché fossi più italiano dei ragazzi italiani che la lingua italiana non la conoscono bene quanto te. Tu con la tua bella scrittura. Con i tuoi quaderni ordinati e puliti a fronte di quelli zozzi e spiegazzati degli altri che ti danno del retorico e dello sdolcinato. Tu, ragazzo italiano di prima generazione che sai dare un valore al tuo nuovo Paese, e a uno Stato a cui guardi con gratitudine e che per te rappresenta un valore conquistato, per nulla scontato come lo è per tutti gli altri ragazzi.

L’esame è l’esame! Deve insegnare che così è la vita! gli diranno, incastrati nel ruolo.
La vita è uno schifo
, penseranno di contro loro, sconfitti prima ancora di iniziare la partita. E lasceranno il campo a quelli furbi e brillanti, perché la lezione appresa sarà: non c’è partita.

Ecco. Ecco perché sei agitato per questi esami, caro commissario interno.

A volte, però, accade che Dio getta i dadi.

Accade che sette persone finiscano insieme a lavorare con fiducia. E che ognuno ci metta dentro tutto il bello che ha. Accade che si crei un clima di collaborazione, interamente concentrato su tutti quei ragazzi, i più bravi e i meno bravi, i furbetti e gli onesti.
Accade che sette persone, sinergicamente, siano capaci di creare, di ascoltare e di vedere, di valorizzare. Accade che si sorrida. Che ci sia un clima di fiducia. Che non si umili nessuno. E che davvero pochi vadano via con la convinzione di essere stati trattati ingiustamente.

A volte accade, insomma, che si faccia un buon lavoro.

BRAVI TUTTI.

 

Grazie a Dino, a Francesco, a Marco e Nives (in rigoroso ordine alfabetico!)

Grandissimi.

LA VISITA FISCALE

Diciamocelo: non è un bel mestiere quello del medico fiscale. E’ l’aggettivo “fiscale” che rovina la parola “medico”. Lo associ ad Equitalia, a un esattore delle tasse, a un mestiere che più che con i malati ha a che fare con i truffatori. L’ombra dei “furbetti” cagionevoli di salute si spalma anche sui malati veri, ma in fondo il medico fiscale sa, sente, annusa, e dopo anni e anni di esperienza capisce appena ti entra dentro casa se ci marci o no. Continue reading “LA VISITA FISCALE”

ALLE POCHE CON CUI PARLO

Un tempo, le donne brutte le chiamavano “cozze” o “racchie”.
Era un giudizio maschilista e superficiale, sul quale poi il progresso e la civiltà hanno trionfato: e così oggi le donne sono tutte belle, in un modo o nell’altro. Le “racchie” non esistono più.

NO.
NON E’ VERO.
La racchia esiste eccome, ed è sempre più racchia, anzi è molto più racchia di prima.

La racchia oggi è quella che non si è cercata uno spazio tutto suo, un’intenzione, un campo in cui svilupparsi in positivo, col sorriso: ciò che ha raggiunto a questa bella età, è uno status compensatorio di una qualche originaria mancanza. Perciò essa appare ricca, finemente addobbata, elegante in ogni particolare. E tuttavia racchia, poveretta, perché non sa che la Bellezza risiede nel complesso, sale dal dentro e si esprime in energia.

Non stupirti, Donna Bella, se a causa del suo passato mortificante oggi la racchia vorrà vendicarsi su di te. Lo farà nei soli modi brutti che conosce, poveretta. Cercherà di farti scontare la tua Bellezza, ma le è ben chiaro che non ci riuscirà mai, perciò cercherà di renderti la vita difficile. Questo le darà un gran senso di potenza, e momentaneo refrigerio. Un tempo Essa stava sotto al tavolo ad aspettare le briciole? Oggi balzerà sulla sedia, tenace come un pit-bull. E adesso che tu, Donna Bella, hai già concluso la partita, e sei altrove, in altri mondi, in altre dimensioni dell’esistere, dimensioni estranee alle competizioni (in cui in verità non sei mai entrata), come Natura vuole, ebbene, Essa vorrà inchiodarti a giocare. Adesso, a partita finita? Sì. E te la ritroverai a capotavola, a dare le carte. Ha impiegato una vita per arrivare a questo momento, senza mollare mai, mezzo secolo, una vita intera finalizzata ad essere protagonista dell’ultima scena sul grande palcoscenico: “Il pranzo è servito” è la sua grande battuta, e la dice talmente bene che sembra stia elargendo al popolo il segreto di Fatima, priva della grazia che solo sa dare l’empatia con l’universo mondo, il lavoro su se stessi, e il sorriso. Di cui essa è incapace.
Tu, Donna Bella, una delle rare con cui parlo, dimmi: quante ne hai incontrate in tutto questo tempo della vita? Tantissime. E resteranno tutte esattamente com’erano: brutte. E racchie. La loro aura color cacca offuscherà ogni addobbo, ogni orpello, ogni posizione raggiunta, ogni fama, ogni scarpa firmata, che addosso a loro apparirà fatta della stessa cacca. Ti odieranno solo perché con gli occhi parlanti della Bellezza tu dirai: “Tana.”

Cara vecchia ragazza, amica mia, una delle rare con cui parlo, che mai nulla avesti da dimostrare a nessuno, ragazza che amasti e trasudasti gioia nelle cose, a fronte del livore delle racchie, per quanto esse faranno di tutto, tu resterai come sei sempre stata: bella di una bellezza intoccabile. Gli anni passeranno, la giovinezza se ne andrà, il volto sarà coperto di rughe, le mani di vene, i capelli si faranno sottili …. ma … mio Dio, quanto sarai bella! Quanto più fosti bella in giovinezza, tanto più mostrerai la Bellezza del Tempo: non servirà apparire giovane, poiché tu lo sei stata davvero. Il tuo corpo racconterà di avere amato e concesso alla Vita più di quanto il loro ha concesso alla palestra e al dietologo. La tua pelle avrà vissuto, le tue mani amato, la tua schiena avrà portato pesi su pesi.
Ma nel compiere il semplice gesto di metterti un cappello per coprirti dal freddo in inverno; o nel gesto di legarti un foulard alla vita in estate, sulla spiaggia, con grazia sapiente; o di aprire un ombrello; o di ravviarti una ciocca di capelli in quel modo naturale che tu conosci, ebbene, non potrai che sorprendere i passanti belli con la tua bellezza fuori dal Tempo.

Gli Uomini come te Belli, gli unici che ti interessano, e le Donne come te Belle, le uniche con cui hai parlato, festeggeranno ogni giorno la gioia e lo stupore di vivere che hai saputo regalare al mondo.

L’ARIA CHE TIRA

“Sono largo, contengo moltitudini” (Walt Whitman)

Fabrizio (chiamiamolo così) sta al quinto anno, ma è ancora minorenne, 17 anni. È un sognatore, uno di quelli che quando entri in classe già gli daresti un sacco di schiaffi, a prescindere, perché sta sempre sotto al banco, invece che sopra.

Tuttavia non mi dispiace una classe dove non siano tutti allineati e compunti, mi piace che i ragazzi crescano gomito a gomito con le loro reciproche, infinite differenze. Per apprezzarle e salvaguardarle, poi, anche da grandi.

Oggi però è accaduta una di quelle piccole storie che non mi sono mai piaciute, in cui mi sento di obiettare in coscienza: ed ecco perché sono qui, e sono triste.

Fabrizio si mette contro un sacco di coetanei per via della sua impopolare popolarità: è un rapper, ha un certo numero di followers. Si candida alle elezioni scolastiche, ma fa il furbetto in campagna elettorale: posta un video senza sonoro, con la sua faccia in primo piano come un pesce in un acquario e sotto ci scrive “silenzio elettorale”, violandolo. E cosi lo trombano, con pubblico ludibrio e depennamento immediato dalle liste.

E lui che fa? Prima vuole morire. Poi incanala la delusione nell’ ironia, e ci scrive su un rap dal titolo “Depennatemi”. E gli passa.

Poi arriva l’autogestione. E lui fa una genialata delle sue: dà manforte a un amichetto del primo anno che scrive su facebook: “Se raggiungo cento like sotto la mia foto, mi faccio tagliare i capelli durante l’autogestione”.

I like naturalmente arrivano triplicati, e lui, l’Idiota (in senso Dostoevskijano, naturalmente), organizza lo spettacolo.

L’esibizione viene acclamata da tutta la popolazione scolastica sui social: tagliarsi i capelli in pubblico o per scommessa in questo caso non ha certo la valenza simbolica paolina (att., 18,18), o biblica (GdC 13-18), o francescana (Proc 12,4: FF 3088), forse non ha neanche la valenza che mettono in rilievo gli psicologi (cfr. Marie Rose More, Gli adolescenti si raccontano. Genitori in ascolto dei propri figli, Cap. “Ragazzi, attenti ai capelli!“). Forse in questo caso è stata solo una faccenda demenziale, non saprei, dettata da manie di protagonismo tutte adolescenziali, oppure ha a che vedere con una sorta di “battesimo” dei rapper. Non lo so.

Quello che so è che il ragazzino piccolo se li fa tagliare da Fabrizio, suo amico e adeguato MC (maestro di cerimonia, nella cultura giovanile sulla quale è necessaria una doverosa documentazione): pare che il piccolino ne abbia parlato anche con i genitori, mettendo la cosa in modo da ottenere un silenzio-assenso del tipo “contento tu“, come sovente accade ai genitori che vedono l’autogestione come un carnevale che dura sette giorni di infinita pazienza.

La cosa accade, è una cosa stupida, ma come tutte le cose stupide fa audiens. A molti piace, a qualcuno non piace per niente.

A chi? Ad altri ragazzi spettatori, che denunciano il fatto subito dopo. Inizia a circolare in maniera violenta e aggressiva la versione di Barney: atto di bullismo del grande sul piccolo, coercizione di volontà, plagio, violenza, gesto da naziskin. Girano parole grosse, ma piacciono tanto, perché riempiono la bocca e ti fanno sentire protagonista di un film.

Il film finisce in tragedia: si chiedono provvedimenti disciplinari esemplari, e inizia il gioco al rialzo, anche tanti altri vanno puniti, per esempio i ragazzi che dovevano vigilare e che invece se ne sono andati al bar, tornando a scuola solo per il contrappello, proprio come fanno i furbetti del cartellino. E chi li denuncia? Altri ragazzi, che chiedono pene severe, in un’atmosfera che sempre di più ricorda la fattoria degli animali e la caccia alle streghe, o il signore delle mosche e la guerra dei bottoni.

Sono cose che non si fanno, e non so quale sia la più grave. E vanno bacchettate, tutte. Così è stato, tutti i ragazzi imputati hanno capito di avere sbagliato, e hanno chiesto umilmente scusa. Saggio sarebbe stato non assecondare mai questo clima, e punire tutti come si farebbe con i figli: a letto senza cena, nota a registro, voto di condotta al minimo sindacale.

E invece no: si chiede la testa di qualcuno, a imperitura memoria. E la testa è quella di Fabrizio, il rompiscatole.

Punirlo, sì, anche perché sia di monito agli altri e perché il fatto non succeda mai più nelle prossime puntate. Punirne uno per educarne mille. Sacrificare una vita serena sull’altare del funzionamento di una macchina che non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno.

La scuola è un microcosmo, ma è un microcosmo che non può essere paragonato in toto a quello sociale: non è un riformatorio, è un ambiente protetto, ci sono regole volte alla rieducazione, alla formazione, votate all’inserimento e non all’esclusione. Quell’uno, quel solo, ha un valore. La sua vita, ha un valore.

Come si sentono adesso quei ragazzini? E come si sentono i furbetti del cartellino, sapendo che loro reato è stato considerato una ragazzata rispetto a quello del parrucchiere? e come mi sento io dopo una giornata in cui avrei dovuto forse esporre con più incisività il mio punto di vista? come mi sento sapendo che la spirale di violenza non si spezza, ma si alimenta? Sì sì, lo so, adesso tutti direte che sono la solita buonista, ormai si usa la parola buonista ogni volta che si assiste a una difesa d’ufficio. Ma questo a voi sembra buonismo, a me quello sembra giustizialismo, non giustizia. A scuola si è aperta una caccia al bullo che fa finire nella rete anche il famoso Idiota (sempre in senso dostoevskjiano), e finiscono sul rogo un sacco di ragazzini border che, a questo punto, buttati giù dal bordo, ma nella parte sbagliata, non avranno più nulla da perdere, e gli toccherà fare i bulli per davvero.

E mi addolora l’aria divertita con cui tutti quanti hanno aspettato lo spettacolo, per poi denunciare alle autorità competenti. Mi ferisce che nessuno abbia pensato ad evitare il fatto, per evitare la punizione. A prevenire, piuttosto che a curare. Ora abbiamo dovuto punirli per forza, perché a scuola c’è la certezza della pena. Solo a scuola, con i ragazzini minorenni.

Che imparino le buone maniere con la giusta punizione. Ecco. Facciamoli, volare, gli stracci, se è l’unico modo per salvare quanti Fabrizio ci sono nelle nostre scuola d’Italia. Facciamoli volare, perché ci stiamo male in tanti. Perché lavoriamo con i ragazzi e non ci piace questo clima conflitti e di ostilità. Perché non possiamo sempre tacere. Perché tanti di noi non si vendono per trenta denari di bonus. E perché un oppositore corretto e leale ti rende migliore, mentre cento servi sciocchi ti confermano nell’errore.

Le orecchie d’asino non si mettono più dai tempi di Franti, e tanta gente ha dato la propria vita, in un passato non così lontano, perché a scuola tutti potessero avere diritto a una riabilitazione. Ma l’aria che tira non è per niente bella, per noi insegnanti della vecchia guardia

 Fareste bene a mandarci in pensione, noi che abbiamo conosciuto Don Milani e Berlinguer. Fareste bene, allora fatelo. Fatelo con un calcio. E poi rimettete bene in vista quel vecchio cartellino che c’era prima dei Decreti Delegati: “Non parlate al conducente”. Per noi, la scuola sarà sempre di chi la abita, non di chi la conduce. Chi comanda, si faccia servo, diceva don Lorenzo Milani. Ah, e diceva anche che obbedire certe volte non era per niente una virtù. Ho detto virtù? Deve essere una di quelle parole che Orwell prevedeva sarebbero scomparse dal vocabolario della Neolingua.

CORPI CHE PARLANO

Questa è la presentazione del libro di Massimo Giuliani.
Non è in diretta, la diretta non fu fatta.
Ho solo ritrovato la prova che ho registrato sul telefono.
Mi piace condividerla.

Devo a Massimo tante belle occasioni di incontro e di crescita.

Pensare che ci conosciamo fin da bambini, pensare che la sua tesi di laurea venne a farla da me, con i miei ragazzi, a Sulmona.

E voglio qui rendergli onore perché da quella tesi nacque questo saggio.

E anche perché dopo il terremoto abbiamo fatto altre cose insieme.

Mi ha pubblicato le Cronache costiere nel suo libro, Il primo terremoto di internet.
Mi ha portato fino a Pavia (qui sotto, un po’ di foto).
Immortalo un altro bel momento del Convegno “Dopo la caduta”, più sotto, nell’ultima foto con didascalia.

Grazie, Max.
Come dicevano i latini, “nomina sunt omina”!

Con Carlo Pelliccione, Antonella Cocciante, Laura Benedetti. E Massimo, naturaliter.

PIÚ CHE IPPOPOTAMI, DINOSAURI

1 Aprile 2017

Ma davvero vi è piaciuto l’uomo degli ippopotami?
Una folla degna di un guru, per una sequela di luoghi comuni: sui sentimenti, sui libri da leggere, sui primi della classe, sui libri di carta e l’odore dell’inchiostro.
Imbarazzante.
Non lui. L’entusiasmo degli astanti.
Risolini compiaciuti di giovani vecchi. Continue reading “PIÚ CHE IPPOPOTAMI, DINOSAURI”

LA CITTA’ DEI RAGAZZI

13 febbraio 2017.
Un ragazzo muore suicida gettandosi dal balcone di casa.
Intanto altri ragazzi sfasciano aule universitarie.

E’ cosa brutta, sognare una città dei ragazzi? E’ brutto sognare luoghi sicuri in cui una comunità educante si dedichi alla crescita e alla formazione reciproca in un clima di serenità e fiducia? E’ cosa brutta sognare un modo di fare scuola diverso, specie in zone problematiche, vuoi per problemi geografici, vuoi per emergenze sociali? E’ cosa brutta invocare attenzione, e protezione, per una comunità di apprendimento in cui si apprende… la vita? E’ cosa brutta creare luoghi di aggregazione e confronto, aprire, dialogare, partecipare alla propria autodeterminazione? Creare affezione e appartenenza, invece che desiderio di andarsene? Se è cosa brutta, continuiamo così, facciamoci del male.

Il modo in cui una società considera i ragazzi denota il grado di civiltà della comunità che la abita. L’adolescenza, nel nostro mondo, è davvero un’età critica.

Ai bambini in tenera età, com’è giusto, bisogna concedere tanto, perché non sono autonomi. I ragazzi invece devono imparare la loro autonomia, e non è una condizione facile, né da vivere, né da gestire. La metafora di Alice, che trova il fungo che la rende ora un gigante, ora minuscola, è espressione di questo status e del modo in cui i ragazzi lo vivono.

Gli adolescenti non sempre sanno rapportarsi con gli adulti, parlano in modo strampalato, a volte sono arroganti. Amano, generalmente, mantenere le distanze e non apprezzano chi cerca di tirarseli da una parte o dall’altra, o chi si prende troppa confidenza.

Gli adolescenti non sanno trovare la giusta misura quando si esprimono: o gridano, o stanno chiusi in un silenzio imperscrutabile.

Bisogna cercare di stare lì con la buona volontà ad ascoltarli, e tirar fuori le parole giuste. Il loro cervello, nel momento in cui esprime un concetto, non sempre è dotato di quel ventaglio di possibilità che consente di individuare l’espressione esatta. Chiusi ancora in un mondo magico, per loro ciò che stanno pensando è anche ciò che esce dalla loro bocca quando parlano. Non sanno che “la materia è sorda”, e quando non riescono a esprimersi si considerano incompresi, e chiudono. Quando chiudono, di loro arriviamo a dire che non hanno idee. Pensiamo che non sono in grado di avere un proprio pensiero, e in questo modo non permettiamo loro neanche di avercelo.

L’adolescente lo bacchetti quando grida troppo, perché è arrogante, e lo bacchetti se grida troppo poco, perché non ha carattere.

L’adolescente è un sempre attaccato allo smartphone, è social-dipendente, è malato di branco, fantoccio che si atteggia a fare il troppo buono o il troppo cattivo. E’ l’emblema del sano menefreghismo italiano che gli stranieri attribuiscono allo Stato intero. E’ quello che dice andiamo a comandare seduto su un trattore.

L’adolescente che grida è una testa calda, un rompiscatole. Quello che sta zitto è uno smidollato.

L’adolescente è bravo solo quando è un perfetto replicante. Tutti gli dicono che ormai è grande, ma lui si stacca malvolentieri da pane e nutella e da babbo natale. Abbandonato così, per metà a se stesso, per metà al resto del mondo, lui si cerca. E se si cerca troppo, pratica gesti di ribellione, come assunzione della propria individualità. Se si cerca poco, gli diciamo che in questo modo è passivo, e che non morde la vita.

Noi adulti cerchiamo di capire, sempre diffidenti di questi pericolosi vulcani che ci vivono accanto. Però li accompagniamo ancora fin sotto la scuola, proprio davanti al portone, fermandoci in mezzo alle rototatorie, creando lunghe code di macchine pur di agevolargli l’ingresso: cento metri a piedi sono troppi, per un ragazzo a cui stiamo chiedendo di imparare a gestirsi da solo. Intanto, ci lamentiamo del traffico.

Loro ci guardano, e stanno zitti. Noi parliamo, e poi facciamo il contrario di quello che diciamo. Chiediamo, ma poi non diamo. E quando loro trovano dei piccoli rifugi a questo corto circuito, nessuno di questi rifugi ci piace. I loro rifugi devono essere i nostri. Abbiamo tolto tutti i riti di iniziazione che in ogni società sanciscono il passaggio da un’età all’altra, tutti gli esami, tutte le cose serie, spianando quello che non andava spianato, e creando ostacoli dove non andavano messi.

Agli adolescenti va permesso di esprimersi come sanno fare: poi sta a noi capire e spiegare. Insegnare il giusto codice. E a chi compete la comprensione di una lingua diversa dalla nostra? Il mediatore culturale tra l’adolescente e la società è spesso l’insegnante.

Parlare quando è momento di parlare, e soprattutto trovare le parole per dirlo, e i modi e i luoghi in cui dirlo. Cittadinanza e costituzione è pratica di vita, dentro un’aula che è microcosmo del macrocosmo sociale: il rispetto degli orari, la lotta al bullismo, evitare di mangiare prima della ricreazione, togliersi il cappello quando si sta in classe, non masticare la gomma mentre si parla, non parlare con le mani in tasca, chiedere di aggiustare una tapparella rotta con i modi e i luoghi a ciò deputati, senza sfasciare anche l’altra tapparella, per ottenerlo. Il rispetto della cosa pubblica, che è cosa di tutti, il desiderio di preservarla per lasciarla migliore di come l’abbiamo trovata.

E chi è il mediatore culturale di tutto questo? Qual è il ponte tra la società, la famiglia, e il ragazzo che cresce? La scuola. Ma se il lavoro dell’insegnante viene declassato a quello di esercitatore e di preparatore atletico per una corsa a ostacoli, spacciando la “professionalità” per un cumulo di saperi da dimostrare attraverso le certificazioni, abbiamo perso.

La stessa diffidenza che una società riserva agli adolescenti, insomma, è riservata agli insegnanti. Che non sono e non devono essere dei livellatori, dei misuratori, ma soprattutto degli educatori, in senso etimologico: e-ducere, tirare fuori.

Ovunque ci si lamenta della mancanza di una nuova classe dirigente. Ci si lamenta di essere visti da tutti gli stranieri come un popolo di geni-mammoni, che spesso e volentieri diventano utili idioti. O che, davanti a tutto questo, decidono di andarsene via, in società uguali o magari peggiori della nostra, ma che loro si illuderanno di sentire come “altra” rispetto a quella che non li ha visti.

Una società che non si cura degli adolescenti, è peggio di quella che si cura di loro dandogli il Prozac.

Almeno il Prozac puoi smettere di prenderlo, e riprenderti il carattere. Ma quando il cervello te l’hanno spappolato, annacquato, quando te l’hanno relegato alla mancanza di senso critico, che cosa si può più fare? Quando ti hanno insegnato che ogni tuo pensiero è inutile, e che esprimersi è inutile, che chiedere aiuto, o giustizia, o solidarietà è inutile, perché tanto le cose si sa come vanno, allora tutto sarà inutile.

Vale per tutte le tragedie che potevano essere evitate.
Vale per tutti i genitori che nella scuola più non credono, e che nel loro isolamento finiscono a sparare alle mosche con il bazuka.
E vale anche per noi.

Noi.
E’ cosa brutta, sognare una città dei ragazzi? E’ brutto sognare luoghi sicuri in cui una comunità educante si dedichi alla crescita e alla formazione reciproca in un clima di serenità e fiducia? E’ cosa brutta sognare un modo di fare scuola diverso, specie in zone problematiche, vuoi per problemi geografici, vuoi per emergenze sociali? E’ cosa brutta invocare attenzione, e protezione, per una comunità di apprendimento in cui si apprende… la vita? E’ cosa brutta creare luoghi di aggregazione e confronto, aprire, dialogare, partecipare alla propria autodeterminazione? Creare affezione e appartenenza, invece che desiderio di andarsene? Se è cosa brutta, continuiamo così, facciamoci del male.

Quelli di loro che diventeranno grandi, ma grandi davvero, saranno quei pochissimi a cui la famiglia e la scuola congiuntamente avranno detto: “stai tranquillo, tu te ne andrai, da questa città, da questo Paese. Tu non parti da dove partono gli altri, per te non sarà cosi“.

Già. Per te.

GUARDANDO NORCIA

Ho scritto questa cosa guardando Norcia. E sembravano tempi lontani, che mai più sarebbero tornati. Pochi giorni dopo, invece, è accaduto di nuovo….

Ho scritto questa cosa guardando Norcia. E sembravano tempi lontani, che mai più sarebbero tornati. Pochi giorni dopo, invece, è accaduto di nuovo…. Continue reading “GUARDANDO NORCIA”

ELOGIO DELLA PRUDENZA

Scritto di getto, dopo la lunga serie di guai capitati a giovani massacrati da attentati, presi ostaggi in paesi stranieri eccetera.

Scritto di getto, dopo la lunga serie di guai capitati a giovani massacrati da attentati, presi ostaggi in paesi stranieri eccetera.

Ragazzi, quando morite vi servono di tutto punto.
La gente che la domenica viene a mettervi
un mazzo di fiori sulla pancia e tutte quelle cretinate.
Chi li vuole i fiori, se sei morto?
Nessuno.
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MODELLO GIUDITTA

Senza polemica. Ditemi solo se sbaglio e se ricordo male.

Nel 2009 all’Aquila non fu mai realizzato il progetto governativo di costruire una “new town”. L’idea di costruire “L’Aquila 2” (stile Milano 2) per la quale erano già pronti i progetti in qualche cassetto (a meno che non sia una leggenda metropolitana, come quella dei 50.00 sacchi pronti), insomma l’idea di costruire una città completamente nuova che sostituisse quella vecchia, sul lato ovest di quella attuale, non ebbe alcun seguito. Continue reading “MODELLO GIUDITTA”

LE NARRAZIONI DI PLUTO JU CANE

Pluto era un grosso meticcio simil-pastore tedesco, col pelo arruffato e focato, vecchio, ma con guizzi di accesa gioventù all’occorrenza. Una di quelle creature che stanno sulla terra come fiori ostinati, incapaci di perdere colori e profumo col passare degli anni. Era dentro tutte le fotografie, esibito in mille narrazioni  diverse. Continue reading “LE NARRAZIONI DI PLUTO JU CANE”

“AULULARIA” IN AULA MAGNA


Presento con orgoglio la mia ultima esperienza di lavoro: la lettura recitata dell’Aulularia di Plauto. Il
 “reading” di un testo latino, in questo caso una commedia, consente di sviluppare competenze straordinarie nei giovani allievi. Continue reading ““AULULARIA” IN AULA MAGNA”

RESTA

Torna la vecchia chiesa nuova nelle valle
del fiume scarno
che da solo corre.

Resta lì accanto il gran tendone bianco
e la casetta
di legno con la croce e la campana
di ferro dalla voce
cara.

Una madonna senza mani
rubate dalla terra in una notte sola,
resta.

Racconta che i miracoli
non hanno mai le mani.

Perché le mani pregano, pretendono,
in elemosine si stendono.
Però con una danno,
e con quell’altra prendono.

Quella madonna senza mani dice
che c’è un unico miracolo che resta.

Quello fatto dal cuore
e dalla testa.

Madonna_Sant_Elia

Patty Smith – Pastime Paradise