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LA PUGLIETTA – IL SEQUEL

A sei anni dall’uscita della prima “Puglietta”, il sequel.

“La Puglietta”, per chi non lo sapesse,  è quella parte della nostra Piazza dove al mattino batte il sole.

A una cert’ora, infatti, Piazza Duomo si fa di due colori: scura la metà che sta dal lato della Villa, chiara e assolata quella che dà sul lato opposto. Ecco, quella lì, proprio quella a solatìo, è la Puglietta. E’ quella parte calda della piazza che i nostri vecchi chiamavano “Puglietta” ironizzando sulla transumanza, e sul nostro passato pastorale.

Un bel calduccio c’era alla Puglietta, come quello che cercavano i pastori che accompagnavano le greggi al Tavoliere, scappando dal freddo dell’inverno montanaro.

Mentre la piazza, al centro, era il regno delle donne e del mercato, la Puglietta era il regno degli uomini, l’androceo dei vecchi, un piccolo senato. Le femmine si davano da fare a commerciare, a contrattare, a sistemare le granaglie al centro della piazza; e i maschi che le avevano portate lì dalla campagna, quando il sole usciva, andavano a stagliarsi contro il muro.

Quel muro piano piano iniziava a riscaldarsi, e loro gli stavano da presso, contenti dell’appoggio, in fila: sembravano piccioni lungo una grondaia. Ciarlavano e guardavano i passanti. La Puglietta diventò pian piano il circoletto spensierato di anziani e pensionati di ogni tipo.

La piazza è bella adesso, nuova, radiosa. Non ti ricordi più della Puglietta, né del passato antico pastorale. La rivuoi viva, quella piazza, allegra, moderna, vissuta finalmente dalla gente.

Ma quando arrivi, ogni tanto, tu guarda la Puglietta. Ricordati dei vecchi. Hanno pagato un prezzo caro, loro, una seconda guerra. Ogni tanto ricordati di quelli che, appena giunti al mare, piano piano, mese a mese, sono volati via, chiedendo scusa del disturbo dato ai figli. Nemmeno la consolazione di vedersi scritto sopra “6 aprile”. Ma fu quello il giorno, lo sappiamo.

Chi aveva i mezzi, o gli strumenti per sopravvivere al disastro, adesso è un reduce, sopravvissuto ad una guerra, come se non bastasse quella vera, combattuta da bambini.

Mia madre è intrappolata dentro l’incubo che è stato. A una cert’ora, tutti i pomeriggi, quando la luce piano piano si trasforma, lei con la testa rivive tutto da principio: prima la tenda, poi la finanza, poi la casa provvisoria, e poi la casa nuova, che non riconosce.

Poi, verso sera, entra in un altro sogno. Vuole con sé la borsa, l’ombrello, il cappotto e il cappello. E sta seduta, in ansia, come se aspettasse il treno. Da cinque anni in qua, tutte le sere, fino al giorno dopo. Una tortura.

E’ Dino a portare questo peso grande. Io vado, sto un po’ con lei, l’abbraccio, scavalcando quella borsa stretta sulle gambe. Mi faccio largo sotto a quel cappello, la bacio, cerco di raggiungerla. Le dico piano piano: “sì, madre, aspetta, aspetta… non andare”.

ERAVAMO IN SERIE B

Le foto in bianco e nero hanno ancora il loro fascino. Anzi, adesso che le passi in digitale, puoi perfino ingrandire col touch, o zoomare sui particolari.
In questa foto, per esempio, puoi farlo con i baffi alla Tom Selleck di Franco, o col sorriso di Annamaria, con i capelli rossi di Patrizia, con quelli lunghissimi di Antonella, con il caschetto di Stefania alla Buddy Lawrence. O con le mie trecce.
Questa foto me l’ha mandata alcuni anni fa Rita, la Capitana, quella vicina a me nella foto.
Il CUS L’Aquila – Pallavolo femminile – stava in Serie B. E qualcosa merita di essere raccontato.
Per esempio, che ci allenavamo nella palestra dell’ITIS, attuale sede della Direzione del GSSI, una palestra dalle volte altissime, o almeno io così me la ricordo. Il doping non esisteva, non esisteva neanche la cura maniacale dell’alimentazione e del corpo. Si faceva a mala pena riscaldamento, poi si cominciava subito con la palla. Niente palestra. E nelle squadre c’era posto per tutti. Io, più dotata nelle questioni intellettuali, non ero proprio fortissima, ma avevo il merito di essere  affidabile. Dove non arrivavo, mi coprivano le compagne più forti. Funzionava così. Erano tempi in cui non importava tanto il talento dei singoli, importava la squadra, e la squadra noi ce l’avevamo. Quelle fortissime all’attacco, quelle fortissime in difesa, quelle fortissime a fare supporto. E arrivammo in serie B.
Lo sport non era come adesso. Le partite che giocavamo in casa erano una festa, con un tifo sfegatato di ragazzi e ammiratori che ci mettevano l’anima. Adulti non ce n’erano, genitori  men che meno. Le trasferte le viaggiavamo con un pulmino tutto scassato. Accadevano cose oggi impensabili, tipo che una volta andammo in un paesino della provincia noto per avere “il coltello facile”, e si giocava con un certo nervosismo. Vincemmo, ma quando ripartimmo ci presero il pulmino a sassate. Cose da non credere.
E mi ricordo di un altro paesino in cui la palestra era stretta stretta, sul punto di battuta c’erano degli scalini, e su questi scalini si appollaiavano i ragazzi del posto, amici e parenti delle nostre avversarie, In pratica, al momento di battere il servizio, il loro naso era pressoché vicino al nostro sedere! Cose oggi impensabili.
E delle canzonacce che cantavamo sul pullman al rientro dalle trasferte… ne vogliamo parlare? Cari miei, quante risate. Una volta giocammo a San Giovanni Rotondo… ma questa è meglio che non ve la racconti, le mie compagne stanno già ridendo.
Quelle compagne me le ricordo tutte, e quando ci incontriamo è sempre una festa: baci e abbracci che non si sa.  Non sono una nostalgica dei bei tempi andati. Non si stava bene a quell’epoca, oggi sicuramente ci sono grandi conquiste dal punto di vista del rispetto e della sportività. Si era più spartani, più ruspanti, ma c’era posto per tutti, nonostante i livelli fossero alti .
Oggi i nostri ragazzi vivono in una competizione sfrenata: spesso lo sport è peggio della scuola, perché la scuola ha perso completamente la sua funzione di riscatto sociale. Ai ragazzi oggi non importano tanto i risultati scolastici, interessano molto di più quelli sportivi, perché nello sport metti in gioco il tuo prestigio, la tua credibilità, quella che i ragazzi chiamano “popolarità”.
Oggi succede che i ragazzini competono tra di loro, invece che con gli avversari, perdendo di vista l’aspetto ludico, il senso di appartenenza, e la squadra. E questo succede anche a livelli bassissimi.
Noi, invece, eravamo in serie B.

TRATTASI DI IGNORANZA!

Tutti indignati dopo il primo episodio della fiction della RAI su L’Aquila!

Due miei alunni hanno fatto parte del cast, e da tempo mi parlavano con gioia ed entusiasmo di questa fiction, fieri e orgogliosi di aver fatto una cosa così bella. E così mi sono chiesta come possano sentirsi questi due ragazzi sedicenni, oggi, davanti alle polemiche dei loro concittadini aquilani che hanno letteralmente “linciato” l’intera serie.

Ragazzi, aspettate… linciati … ma da chi?

Dagli aquilani che si aspettavano un altro docu-film, stile Guzzanti?
Non so quali fossero le aspettative legate all’uscita di questa fiction, non so come giustificare questa grande delusione, ma sono pronta a giurarlo: i lapidatori del telefilm sono esattamente gli stessi.

Gli stessi di che?

Fidatevi, gli stessi. Quelli che si sentono “rappresentativi”, ma che in realtà rappresentano solo se stessi. Quelli di cui tutti gli altri hanno piene le tasche.

Voi ragazzi dovete sapere che l’aquilano medio, normalmente, tace. E guarda  tutti questi grandi parlatori (per spiegarmi meglio, uso il termine che ben conoscete, “opinionisti”), e li guarda da lontano. Fa le spallucce, è rassegnato a tenerseli, come ci si tiene il freddo: sa che non se ne andranno mai, e ha imparato a conviverci, li conosce bene, li sopporta, accetta il vizietto. Li lascia parlare, tollerando il loro presenzialismo, la loro lengua affilata. Ma – contrariamente a ciò che accade nei social – l’aquilano medio mantiene silenziosamente la propria opinione, perché sa che i chiacchiaruni stanno lì per vivere il loro momento di gloria. E’ uso antico: mia nonna, grande interprete di aquilanità, quando vedeva comparire a parlare sempre gli stessi faccioni, diceva: ….Ma vatt’a rrepóne. Magnifico latinismo. Sapeva anche che dopo tutta quell’ammuina, restava tutto uguale. Debito alla cultura borbonica.

Ecco. Perciò, rilassatevi.

Gli opinionisti – e voi lo sapete bene – hanno un’opinione su tutto, anche su cose di cui non capiscono niente: non puoi guardarti una fiction, aspettandoti un reality. Una fiction è una storia, ci sono delle licenze – diciamo così – poetiche, utili all’economia della narrazione. Ci sono modifiche, integrazioni, anche storture della storia, se necessario. Le fiction, lo dice il nome stesso, lasciano ampio spazio all’immaginazione: alla base di tutto – voi lo sapete bene – vi è il patto narrativo, un accordo tra narratore e narratario, che prevede anche la deformazione della realtà. Si chiama “rapporto tra realtà e invenzione”. Manzoni, per esempio, ha studiato per anni la storia di Milano del Ripamonti, prima di scrivere il romanzo. Ciononostante, ha poi apportato delle modifiche alla storia, fatti salvi dei puntelli che erano salvi anche nel primo episodio della nostra fiction. Ma se andate al cinema, firmate un patto. Se leggete un libro, firmate un patto. Se non firmate, non vi godete lo spettacolo. E’ come guardare Ben Hur solo per cercare di individuare il legionario con l’orologio. Tutti presi dal plot ! Tutti a fare i grandi critici letterari sulla sceneggiatura! Tutti a dire Io c’ero! Ma chissenefrega che tu c’eri. C’ero pure io. Tutti c’eravamo.

Che poi…. lo volete sapere? La bicicletta è stato un bell’espediente narrativo per girare la zona rossa, per far entrare gli spettatori nei vicoli, nelle case disastrate, per farli sobbalzare sulle loro poltrone, davanti a quelle scene, raggiungibili solo a piedi.

E della questione della lingua? Ne vogliamo parlare? L’accento sarà stato umbro-marchigiano da parte di qualche attore, ma un debito alle physique du role glielo vogliamo concedere, al regista? E poi, diamine, è come se i milanesi si fossero lamentati del fatto che Manzoni ha “sciacquato i panni in Arno”, e che Renzo non parla in perfetto milanese, tutt’al più ci pensa. E poi, sinceramente, una strizzatina d’occhio al terremoto in Umbria e nelle Marche andava pure data, per simpatia. Ed è giusto così: fidelizzi uno spettatore come fidelizzi un lettore. La verità è che se qualcuno ha avuto il tempo di pensare ai dialetti, e alle biciclette, è perché non è voluto entrare nella storia. Forse per fragilità, forse per paura, forse per aquilanità, è rimasto affacciato al balcone a guardare e a criticare, in linea col DNA: chi sta alla colonna e chi fa lo struscio. E’ roba endemica.

Perciò… trattasi di pura ignoranza! ragazzi, via, non prendetevela. Se non s’intendono di narrazione, questi aquilani criticoni, almeno però dovrebbero intendersi di economia: dovrebbero essere contenti, che ancora si parla dell’Aquila, e felici, al vederla in televisione. Felici, del fatto che qualcuno verrà a fare turismo da noi, non a fotografare le case dei morti, bensì i magnifici restauri.

Sarò sincera: a me la fiction ha emozionato moltissimo, forse troppo. E vorrei prestare i miei occhi a tutti quelli che hanno criticato, ai quali dico: avete altre cinque puntate per cambiarvi gli occhi, firmare quel patto narrativo, e lasciarvi andare. Ritrattate. Non siete voi gli attori, capite? Gli attori sono quei ragazzi. Per una volta nella vita, cedete il passo, lasciate il palcoscenico, fatevi da parte. Vogliamo essere felici del fatto che alcuni di questi ragazzi erano i nostri? Felici che la città che vediamo in televisione sia proprio la nostra, la stessa che poteva essere morta, e che invece abbiamo tenuto in vita col nostro sangue?
Interpretando il pensiero di un italiano qualsiasi, aggiungo infine: ma è possibile che agli aquilani non gli sta mai bene niente?

Perciò io dico GRAZIE RISI. E grazie a Nicolò e Valentina e a tutti gli altri attori, soprattutto quelli aquilani. Siete stati meravigliosi, siete bellissimi. Fregatevene di tutte queste polemiche e state sereni, perché l’aquilano è così: è invidioso. L’Aquilano non ci vuole nessuno, all’Aquila. E’ portatore sano di un DNA altamente selezionato, resistente ai terremoti fino all’ottavo grado. Quanno sci rrevenuto? ieri. E quanno te nne revà? Domà. Ah, so’ contento.
Questa è L’Aquila.

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Per i miei 24 ragazzi-lettori, quella citazione fu la chiave del mio primo racconto dopo il sisma, Cronache Costiere, datato 1 maggio 2009. Ed ora è anche l’ultima, esattamente dieci anni dopo. Leggetevela. E non siate chiacchiaruni pure voi, studiate, leggete, aprite gli orizzonti, levatevi la casacca per le cose stupide, tenetela per le cose serie. Questo è il mio augurio. E non preoccupatevi per me, non mi tocca punto quel che si dirà di me. Perché “le persone danneggiate sono pericolose: sanno di poter sopravvivere”.

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PS: Se non volete guardare la fiction e volete la reality, in allegato metto due documentazioni bellissime, cose che hanno fatto VERAMENTE i nostri ragazzi dopo il terremoto. Una si chiama Container  è un bel report sul post-sisma, unico nel suo genere. L’altra è L’Aquila 2019, e ci sono dentro i sogni dei nostri ragazzi di dieci anni fa, tutto il loro lavoro, le loro grandi VERE speranze. Se volete il reality, leggetevi quello.

E adesso andate a studiare.
Non fatevi fregare.
Non date retta alla parola “domani”.
Domani è oggi.

 

IL GRANDE SAM

terremoto l’aquila ricostruzione

Al “doc” Samuele Di Giovanni, “IL” dottore.
_________________________

Quando c’erano macerie, io vedevo i palazzi.
Ora ci sono i palazzi, e vedo le macerie.

Ovunque io vada, l’occhio si ferma negli angoli dove s’annicchiano mucchietti di fiori marci, davanti a gigantografie con facce di ragazzi, davanti a una bandiera greca ormai sfilacciata da dieci anni di piogge e di vento.

Però stamattina c’era il sole, un sole buono, e me ne stavo per tornare a casa tutta contenta. Poi Teo mi tira da una parte, su un prato dove pascolano due cagnetti al guinzaglio.

L’uomo che li porta lo conosco, è Samuele. Ma non so se lui conosce me, perché Sam è un professionista molto noto in città, e quelli molto noti non sempre ti si ricordano.
Invece no, Sam è un grande, mi si ricorda: come tutti i grandi non se la tira, sembra uno qualunque, normale direi, normale nel parlare e nel vestire. E così ci sediamo su una panchina della Villa Comunale, e scambiamo due chiacchiere, e come sempre si finisce a parlare del terremoto.
Non resisto, e glielo chiedo: dov’eri quella notte? se eri qui quella notte, raccontami, dai

E lui racconta.
Non c’ero, sono corso qui da loro nel giro di cinque minuti. Proprio qui, in questo punto, ho incontrato mia figlia senza scarpe col pigiama strappato, ha detto solo “mamma è morta”. L’ho lasciata su questa stessa panchina dove stiamo seduti, è incredibile, proprio su questa panchina… Corro lì, vedo il palazzo imploso, mi metto le mani ai capelli, di 22 persone che abitavano lì mi dissero che ne mancavano 14. La polvere non si posa, brancolo un po’ sul cumulo di macerie, non so che fare, provo a scavare, e a un certo punto da lì sotto sento prima un guaito, poi un abbaio, l’abbaio di un cane, il mio cane che chiama, è vivo! e se il cane è vivo… c’è nessuno lì sotto? Chiamo i soccorsi… no… Impossibile contattare chiunque, chiamo aiuto, grido aiuto, vedo arrivare due ragazzi, uno di questi è un gigante, è enorme, gli dico “lì sotto, lì sotto”, lui comincia a scavare a mani nude, le mani due pale, una bestia, non si è mai riposato e mannaggia non so neanche come si chiama, so solo che era di Teramo, perché glielo chiesi, un volontario, emmannaggia, ci penso sempre, che non l’ho potuto mai ringraziare… è scomparso subito… è andato a scavare da un’altra parte con le sue enormi pale…

Qui Sam tradisce un piccolo singulto nella voce, una strozzatura, ma si riprende subito, dice è scomparso, scomparso subito dopo che ha tirato fuori mia moglie e i due cani, s’era creato un piccolo varco che li aveva protetti, lei s’è rotta il bacino ma l’ha tirata fuori, l’ha tirata fuori, anche i cani, e poi è scomparso…. scomparso. Guarda!

Mi dice guarda! e mi indica il braccio libero dal guinzaglio: i peli sul braccio sono tutti dritti, a fatica riesco a guardare perché… cavolo, dev’essermi andato qualcosa negli occhi.

Guardiamo il suo braccio, poi ci guardiamo in faccia, increduli nel vedere quell’orripilazione da sola memoria, e poi cominciamo a ridere, a ridere, e guarda il braccio, e guarda la faccia che ride, la faccia che ride e il braccio… e continuiamo a ridere, finché lui non lo abbassa lentamente. quel braccio.

“Siamo diventati come quei vecchi che parlavano sempre della guerra… ” dico io, ridendo e stropicciandomi gli occhi. Si mette a ridere ancora di più, annuendo, il grande Sam, e ridiamo, ridiamo ancora…

In mezzo al cinguettio di tutta quella gente che vuole dimenticare, noi ridiamo e pensiamo silenziosi che dimenticare non solo non è possibile, in fondo non è neanche giusto. E ogni giorno voglio incontrare un grande Sam, che mi racconta la sua storia.

Son quasi dieci anni.
Quando c’erano macerie, io vedevo i palazzi.
Ora ci sono i palazzi, e vedo le macerie.

C’è un andare nel mio restare…  c’è un restare nel mio andare…

CORPI CHE PARLANO

Questa è la presentazione del libro di Massimo Giuliani.
Non è in diretta, la diretta non fu fatta.
Ho solo ritrovato la prova che ho registrato sul telefono.
Mi piace condividerla.

Devo a Massimo tante belle occasioni di incontro e di crescita.

Pensare che ci conosciamo fin da bambini, pensare che la sua tesi di laurea venne a farla da me, con i miei ragazzi, a Sulmona.

E voglio qui rendergli onore perché da quella tesi nacque questo saggio.

E anche perché dopo il terremoto abbiamo fatto altre cose insieme.

Mi ha pubblicato le Cronache costiere nel suo libro, Il primo terremoto di internet.
Mi ha portato fino a Pavia (qui sotto, un po’ di foto).
Immortalo un altro bel momento del Convegno “Dopo la caduta”, più sotto, nell’ultima foto con didascalia.

Grazie, Max.
Come dicevano i latini, “nomina sunt omina”!

Con Carlo Pelliccione, Antonella Cocciante, Laura Benedetti. E Massimo, naturaliter.

LA CITTA’ DEI RAGAZZI

13 febbraio 2017.
Un ragazzo muore suicida gettandosi dal balcone di casa.
Intanto altri ragazzi sfasciano aule universitarie.

E’ cosa brutta, sognare una città dei ragazzi? E’ brutto sognare luoghi sicuri in cui una comunità educante si dedichi alla crescita e alla formazione reciproca in un clima di serenità e fiducia? E’ cosa brutta sognare un modo di fare scuola diverso, specie in zone problematiche, vuoi per problemi geografici, vuoi per emergenze sociali? E’ cosa brutta invocare attenzione, e protezione, per una comunità di apprendimento in cui si apprende… la vita? E’ cosa brutta creare luoghi di aggregazione e confronto, aprire, dialogare, partecipare alla propria autodeterminazione? Creare affezione e appartenenza, invece che desiderio di andarsene? Se è cosa brutta, continuiamo così, facciamoci del male.

Il modo in cui una società considera i ragazzi denota il grado di civiltà della comunità che la abita. L’adolescenza, nel nostro mondo, è davvero un’età critica.

Ai bambini in tenera età, com’è giusto, bisogna concedere tanto, perché non sono autonomi. I ragazzi invece devono imparare la loro autonomia, e non è una condizione facile, né da vivere, né da gestire. La metafora di Alice, che trova il fungo che la rende ora un gigante, ora minuscola, è espressione di questo status e del modo in cui i ragazzi lo vivono.

Gli adolescenti non sempre sanno rapportarsi con gli adulti, parlano in modo strampalato, a volte sono arroganti. Amano, generalmente, mantenere le distanze e non apprezzano chi cerca di tirarseli da una parte o dall’altra, o chi si prende troppa confidenza.

Gli adolescenti non sanno trovare la giusta misura quando si esprimono: o gridano, o stanno chiusi in un silenzio imperscrutabile.

Bisogna cercare di stare lì con la buona volontà ad ascoltarli, e tirar fuori le parole giuste. Il loro cervello, nel momento in cui esprime un concetto, non sempre è dotato di quel ventaglio di possibilità che consente di individuare l’espressione esatta. Chiusi ancora in un mondo magico, per loro ciò che stanno pensando è anche ciò che esce dalla loro bocca quando parlano. Non sanno che “la materia è sorda”, e quando non riescono a esprimersi si considerano incompresi, e chiudono. Quando chiudono, di loro arriviamo a dire che non hanno idee. Pensiamo che non sono in grado di avere un proprio pensiero, e in questo modo non permettiamo loro neanche di avercelo.

L’adolescente lo bacchetti quando grida troppo, perché è arrogante, e lo bacchetti se grida troppo poco, perché non ha carattere.

L’adolescente è un sempre attaccato allo smartphone, è social-dipendente, è malato di branco, fantoccio che si atteggia a fare il troppo buono o il troppo cattivo. E’ l’emblema del sano menefreghismo italiano che gli stranieri attribuiscono allo Stato intero. E’ quello che dice andiamo a comandare seduto su un trattore.

L’adolescente che grida è una testa calda, un rompiscatole. Quello che sta zitto è uno smidollato.

L’adolescente è bravo solo quando è un perfetto replicante. Tutti gli dicono che ormai è grande, ma lui si stacca malvolentieri da pane e nutella e da babbo natale. Abbandonato così, per metà a se stesso, per metà al resto del mondo, lui si cerca. E se si cerca troppo, pratica gesti di ribellione, come assunzione della propria individualità. Se si cerca poco, gli diciamo che in questo modo è passivo, e che non morde la vita.

Noi adulti cerchiamo di capire, sempre diffidenti di questi pericolosi vulcani che ci vivono accanto. Però li accompagniamo ancora fin sotto la scuola, proprio davanti al portone, fermandoci in mezzo alle rototatorie, creando lunghe code di macchine pur di agevolargli l’ingresso: cento metri a piedi sono troppi, per un ragazzo a cui stiamo chiedendo di imparare a gestirsi da solo. Intanto, ci lamentiamo del traffico.

Loro ci guardano, e stanno zitti. Noi parliamo, e poi facciamo il contrario di quello che diciamo. Chiediamo, ma poi non diamo. E quando loro trovano dei piccoli rifugi a questo corto circuito, nessuno di questi rifugi ci piace. I loro rifugi devono essere i nostri. Abbiamo tolto tutti i riti di iniziazione che in ogni società sanciscono il passaggio da un’età all’altra, tutti gli esami, tutte le cose serie, spianando quello che non andava spianato, e creando ostacoli dove non andavano messi.

Agli adolescenti va permesso di esprimersi come sanno fare: poi sta a noi capire e spiegare. Insegnare il giusto codice. E a chi compete la comprensione di una lingua diversa dalla nostra? Il mediatore culturale tra l’adolescente e la società è spesso l’insegnante.

Parlare quando è momento di parlare, e soprattutto trovare le parole per dirlo, e i modi e i luoghi in cui dirlo. Cittadinanza e costituzione è pratica di vita, dentro un’aula che è microcosmo del macrocosmo sociale: il rispetto degli orari, la lotta al bullismo, evitare di mangiare prima della ricreazione, togliersi il cappello quando si sta in classe, non masticare la gomma mentre si parla, non parlare con le mani in tasca, chiedere di aggiustare una tapparella rotta con i modi e i luoghi a ciò deputati, senza sfasciare anche l’altra tapparella, per ottenerlo. Il rispetto della cosa pubblica, che è cosa di tutti, il desiderio di preservarla per lasciarla migliore di come l’abbiamo trovata.

E chi è il mediatore culturale di tutto questo? Qual è il ponte tra la società, la famiglia, e il ragazzo che cresce? La scuola. Ma se il lavoro dell’insegnante viene declassato a quello di esercitatore e di preparatore atletico per una corsa a ostacoli, spacciando la “professionalità” per un cumulo di saperi da dimostrare attraverso le certificazioni, abbiamo perso.

La stessa diffidenza che una società riserva agli adolescenti, insomma, è riservata agli insegnanti. Che non sono e non devono essere dei livellatori, dei misuratori, ma soprattutto degli educatori, in senso etimologico: e-ducere, tirare fuori.

Ovunque ci si lamenta della mancanza di una nuova classe dirigente. Ci si lamenta di essere visti da tutti gli stranieri come un popolo di geni-mammoni, che spesso e volentieri diventano utili idioti. O che, davanti a tutto questo, decidono di andarsene via, in società uguali o magari peggiori della nostra, ma che loro si illuderanno di sentire come “altra” rispetto a quella che non li ha visti.

Una società che non si cura degli adolescenti, è peggio di quella che si cura di loro dandogli il Prozac.

Almeno il Prozac puoi smettere di prenderlo, e riprenderti il carattere. Ma quando il cervello te l’hanno spappolato, annacquato, quando te l’hanno relegato alla mancanza di senso critico, che cosa si può più fare? Quando ti hanno insegnato che ogni tuo pensiero è inutile, e che esprimersi è inutile, che chiedere aiuto, o giustizia, o solidarietà è inutile, perché tanto le cose si sa come vanno, allora tutto sarà inutile.

Vale per tutte le tragedie che potevano essere evitate.
Vale per tutti i genitori che nella scuola più non credono, e che nel loro isolamento finiscono a sparare alle mosche con il bazuka.
E vale anche per noi.

Noi.
E’ cosa brutta, sognare una città dei ragazzi? E’ brutto sognare luoghi sicuri in cui una comunità educante si dedichi alla crescita e alla formazione reciproca in un clima di serenità e fiducia? E’ cosa brutta sognare un modo di fare scuola diverso, specie in zone problematiche, vuoi per problemi geografici, vuoi per emergenze sociali? E’ cosa brutta invocare attenzione, e protezione, per una comunità di apprendimento in cui si apprende… la vita? E’ cosa brutta creare luoghi di aggregazione e confronto, aprire, dialogare, partecipare alla propria autodeterminazione? Creare affezione e appartenenza, invece che desiderio di andarsene? Se è cosa brutta, continuiamo così, facciamoci del male.

Quelli di loro che diventeranno grandi, ma grandi davvero, saranno quei pochissimi a cui la famiglia e la scuola congiuntamente avranno detto: “stai tranquillo, tu te ne andrai, da questa città, da questo Paese. Tu non parti da dove partono gli altri, per te non sarà cosi“.

Già. Per te.

GUARDANDO NORCIA

Ho scritto questa cosa guardando Norcia. E sembravano tempi lontani, che mai più sarebbero tornati. Pochi giorni dopo, invece, è accaduto di nuovo….

Ho scritto questa cosa guardando Norcia. E sembravano tempi lontani, che mai più sarebbero tornati. Pochi giorni dopo, invece, è accaduto di nuovo…. Continue reading “GUARDANDO NORCIA”

MODELLO GIUDITTA

Senza polemica. Ditemi solo se sbaglio e se ricordo male.

Nel 2009 all’Aquila non fu mai realizzato il progetto governativo di costruire una “new town”. L’idea di costruire “L’Aquila 2” (stile Milano 2) per la quale erano già pronti i progetti in qualche cassetto (a meno che non sia una leggenda metropolitana, come quella dei 50.00 sacchi pronti), insomma l’idea di costruire una città completamente nuova che sostituisse quella vecchia, sul lato ovest di quella attuale, non ebbe alcun seguito. Continue reading “MODELLO GIUDITTA”

LE NARRAZIONI DI PLUTO JU CANE

Pluto era un grosso meticcio simil-pastore tedesco, col pelo arruffato e focato, vecchio, ma con guizzi di accesa gioventù all’occorrenza. Una di quelle creature che stanno sulla terra come fiori ostinati, incapaci di perdere colori e profumo col passare degli anni. Era dentro tutte le fotografie, esibito in mille narrazioni  diverse. Continue reading “LE NARRAZIONI DI PLUTO JU CANE”

HO IMPARATO

Questo testo è stato scritto per la ricorrenza del 6 aprile 2015, per il sito dei miei amici di “Città della Gioia” Onlus, Pasquale e Gabriella Salvio e per gli altri amici di Napoli che con noi furono solidali. Lo furono di persona, raccogliendo fondi per la mia scuola per le strade di Napoli. Persone così, ti danno la forza e la gioia di vivere. Grazie Continue reading “HO IMPARATO”

SVUOTACANTINE

 
T’illudi
quando cigola e s’apre
la saracinesca pesante.

Ti aspetti le voci,
i pezzi di vita.

L’attesa
è respiro sospeso,
è paura.

Di tutto il prezioso tesoro
riposto quell’anno con cura

si apre
in rivoli d’aria e di luce

il regno dei topi,
dei ragni
nei nidi contorti.

Ti dici di nuovo “che salvo?

Richiudi
e non tocchi.

Ammucchi le carte
senti una musica.

E chiudi gli occhi.

 

cantina
 

Lezioni di piano – colonna sonora

IL PANE QUOTIDIANO

Ferri,
colonne,
gru con i carrelli.

Per tanti,
inutile paesaggio.

Non per noi
che col passaggio
scriviamo su ogni strada
nuova storia.

Tracciamo una memoria
col semplice cammino
e l’emozione.

Riempiamo spazi vuoti
con l’immaginazione.

Di ogni casa,
viviamo la salita.

E’ così
che si ricuce la ferita.

Rammendo
coi miei occhi
ogni ferro, ogni colonna

di casa mia,
e delle case intorno.

Una strada, una piazza
un campanile al giorno,

così, a punto croce

cucio il ritorno.

Sistemo
con lo sguardo muto e attento
ogni mattone nuovo.

E’ il mio cemento.

Tiro il filo, allento…
Perché nulla sia
di plastica,
al tornare.

E i figli possano abitare.

Una città non cresce all’improvviso
come un fungo
nel bosco.

E io, come una gru,
allungo il collo,
costruisco.

Guardo, osservo,
conosco
e riconosco.

Serve ridare a tutto
col semplice passare
anima nuova.

E consumiamo il pane quotidiano

fatto di polvere
e catrame.

E’ pane da tenere stretto in seno:
riempire i nostri occhi
di quel sogno

che noi non rivedremo.

foto duomo notte

Ali Farka Touré e Toumani Diabaté -“Hawa Dolo”

E SE NON TORNO

E se non torno.

Se non ce la faccio.

Chissà se tornerò
dentro la bella
casa vecchia nuova.

Chissà come potrò rifarlo mio,
il rifugio nuovo vecchio sposo.

Ma sempre miei
questi occhi
verranno ad innaffiare
le dolci piante sul balcone
dove ho vissuto
senza più persone.

Le beva il ragno amico
che non potrò portare
dentro quel mondo antico.

Imparai qui
a lasciare aperto solo a chi
vuole venirci accettando i cambi di stagione
e che ci siano tutte le mie voci

le mie persone.

oscar


Muddy Waters – “You Can’t Lose What You Ain’t Never Had”

NIENTE SELFIE CON MARIA

Ha la forza di tre uomini, Maria
lavora
con le mani e con la schiena
anzi no, non lavora, Maria,
non tocca cose
non pulisce lava sposta:
lei lotta.

Quando io
stanca mi piango la schiena,
lei tira da mulo testardo.

Non lavora, Maria, fa di più,
rispetta le cose che tocca,
le ama,
e non è per i soldi
lo senti che è amica sorella,
è così:
Maria confida
nel sapere salvare le cose.

Cinque anni
e che storia da film
quest’esserci amiche.

Se chiamo
lei lascia e mi corre.
“Abbiamo sofferto quei giorni, Luisa,
tu non ti stancare, dà me, dà me,
tu dimmi, io faccio”.

La guardo
e soffro che all’Est
il tempo sia un po’ più veloce che qui.

Ma le cose confidano
che noi le salviamo.

E le salva, Maria,
e son tutte belle
hanno storia
le guarda con occhi lucenti.
Se chiedo perché
lei dice non è
per andarmene via,
è che io ho due figli, in Romania.

L’imbarazzo
è pesare coi soldi quest’ esserle amica,
e lo faccio discreta.

L’imbarazzo
è prenderli essendomi amica,
e lei dice: “Per figli, non mio!”.

La guardo.
E penso col groppo
“Sì. Anch’io”.



Valery June – Working women blues

LA PUGLIETTA


Questa è la cosa più bella che ho scritto per la mia città.
Era il 12 febbraio 2014, dal Progetto CASE di Sant’Elia.

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“La Puglietta” è quella parte della Piazza dove al mattino batte il sole.
A una cert’ora, infatti, Piazza Duomo si fa di due colori: scura la metà che sta dal lato della Villa, chiara e assolata quella che dà sul lato opposto. Ecco, quella lì, proprio quella a solatìo, è la Puglietta. E’ quella parte calda della piazza dove batte il sole, che i nostri vecchi chiamavano “Puglietta” ironizzando sul comune passato pastorale. Quanto in quel nome ci sia la nostra storia transumante, è facile capirlo.

Un bel calduccio c’era, alla Puglietta, come il caldo che sentivano i pastori che portavano d’inverno le greggi al Tavoliere. Gli anziani, proprio come i pastori che dall’Abruzzo scendevano alla Puglia, migravano da un lato all’altro della piazza. Appena il sole usciva a stagliarsi su quei muri, i vecchi lentamente andavano a disporsi lì davanti, usciti non sapevi mai da dove.
Mentre la piazza, al centro, era il regno delle donne e del mercato, la Puglietta era il regno dei maschi, l’androceo dei vecchi, un piccolo senato. E mentre le femmine si davano da fare a commerciare, a contrattare, a sistemare le povere granaglie al centro della piazza, i vecchi, belli e incappottati, quando il sole usciva, spuntavano anche loro, e andavano a stagliarsi contro il muro. Il muro piano piano iniziava a riscaldarsi, e faceva la funzione di un bel termosifone. Così gli anziani gli stavano da presso, faccia alla piazza, e schiena sui palazzi, spalla contro spalla, in lunga fila: sembravano piccioni lungo una grondaia. Ciarlavano, guardavano i passanti, commentavano, cercavano notizie l’un dell’altro. Alla Puglietta i vecchi maschi, a modo loro, spettegolavano del più e del meno.
Secondo un uso medievale e antico, per nominare qualcuno, non usavano il nome, né il cognome. Usavano il paese dei natali, il luogo dell’origine dei padri. Per esempio, invece di “Giovanni”, dicevano “quiju de Marana”. Oppure, invece di dire “Antonio”, dicevano “quiju de Bagno”. Era la frazione a dare identità a quel Giovanni, a quell’Antonio, nomi comuni di persona, che solo dalla terra traevano la giusta identità. E così i campanili, in un modo o nell’altro, se li portavano dovunque, i vecchi, e cercavano per loro il giusto posto, anche sulla piazza, alla Puglietta.

Quando non parlavano de “quiju de Campotosto” o de “quiju de Paganica”, tacevano, i vecchi. Potevano star lì con le spalle incappottate al muro anche tutta la mattina, senza dire niente, contenti dell’appoggio. Poi si faceva ora di pranzo, e piano piano, la migrazione seguiva il flusso opposto, se ne tornavano al loro chissà-dove.
I più colti parlavano di affari, di politica, di sport, di personaggi in vista. Chi era del contado, invece, si accontentava di guardare e commentare quello che capitava intorno. E le dinamiche dei vecchi alla Puglietta erano quelle dei bar, dei circoletti di ricreazione. Ma invece che stare dietro a quattro tavolini, avevano davanti il cuore vivo di tutta la Città.
Rari erano gli anziani che uscivano di sera. Troppo freddo. I più, invece, amavano vedersi di mattina, alla Puglietta. E lì si ricontavano le pecore. Quelle che c’erano, e quelle che già erano partite. I vivi e i morti. E la giornata non era passata, se al mattino non eri stato alla Puglietta.

Ora gli anziani, quelli stessi, non hanno più una Puglia che li scalda. Sparpagliati come sono, hanno pagato il prezzo più pesante della disgregazione. In tanti sono morti sulla costa, in tanti nelle case di riposo, in tanti li vedi, appena il sole esce, migrare dalle CASE ed iniziare a fare il giro, intorno intorno. Ma non ci sono muri che si scaldano, come alla Puglietta, nel Progetto CASE. Il cortile è il regno dei bambini, e i vecchi stanno sempre dietro ai vetri, alla finestra, quasi si scusano di essere presenti, di dare tanta pena, così tanto disturbo. I più in gamba li vedi uscire a mezzogiorno: giornale, spesetta, ritorno. I lottatori non si sono mai arresi, hanno tenuto insieme le famiglie fino all’ultimo respiro. Altri trascinano quei piedi stanchi e vecchi sopra al marciapiedi, fanno un giretto, s’imbucano di nuovo dentro casa.

Mario cammina con fatica. E’ come spento, da quando Maria, due mesi fa, se n’è volata in cielo. I vasi di Maria, dopo due mesi, si sono già seccati, nessuno ha più la forza di curarli.
Una sera mi suonano alla porta. Era Mario, non lo vedevo da prima che Maria se ne volasse via. Mi dice: “Addò abbita Giorgio?”. Io, dopo un breve convenevole di affrante condoglianze, gli chiedo “Giorgio chi?” E lui: “Quiju de Rojo!”. Dice proprio così, “quiju de Roio!” e mi guarda, convinto che io capisca, convinto che io sappia. Convinto che Giorgio io non lo conosca dal cognome, ma dal fatto che è di Roio, la terra, unica certezza per trovarlo ancora.

Allora io sorrido, e poi lo abbraccio forte.
Per un poco, ripenso alla Puglietta.
A come, senza piazza, si torna ai campanili.
A come le giornate vanno in fretta.

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