CRONACHE COSTIERE

Premessa al lettore: questo testo fu scritto il 1 maggio 2009, all’indomani del terremoto del 6 aprile. Fotografa la condizione di chi lasciò la città per recarsi ospite negli alberghi della costa. In particolare, riproduce la difficile situazione di conflittualità che venne a crearsi allorché gli aquilani che scelsero di restare in città, nelle tendopoli, iniziarono più o meno velatamente a rimproverare i concittadini che avevano scelto di farsi ospitare negli alberghi. Chi scrive cerca di conciliare le due posizioni, mettendo in evidenza il comune stato di precarietà.
Il testo ebbe una certa risonanza nell’immediato: uscito su un giornale on-line sul quale non è più reperibile, ottene centinaia di commenti, fu stampato, fotocopiato, esposto, letto a teatro. Anche questo testo, come altri miei, perse il nome dell’autrice, e divenne voce della gente. E di questo fui felice.

Montesilvano. Francavilla. Roseto. Pineto. Tortoreto. Alba. Metteteci quello che volete.
Esco dall’albergo, settimo piano di una torre gemella.
La notte è andata maluccio come sempre, ogni porta che sbatte un sussulto, ogni treno che passa il cuore che salta. Ma esco.
Mi sento sporca, in disordine, ho la testa confusa, non ho voglia di dire buongiorno in ascensore.
Sette piani di nulla.
Non mi preoccupo, la gente che è lì è uguale a me, non serve parlare, non diciamo nulla, zombie sfollati, solo zombie sfollati.
Abbiamo le stesse facce, lo stesso sguardo. Qualcuno telefona ai parenti. Bisbiglia… “Come va?..
Sì, noi tutto bene.. Ha rifatto stanotte? No, qui non si è sentito, tutto tranquillo. Sì sì, in albergo, serviti e riveriti… Non vi preoccupate.”
Serviti e riveriti, sì. Si sa che l’ospite è come il pesce… (Oddio, no… il
frigorifero… la corrente è staccata… cosa ci sarà nel mio frigorifero? Quando potrò tornare ad aprire un frigorifero?)

Parto dalla costa, dal mare ai monti dove lei si innalzava, antica e maestosa.
L’Aquila sembra Danzica, Sarajevo… (immagini televisive del passato… che guerra era… che anni erano, che succedeva, CHI ERO).
Vado verso quella che era la casa dove abitavo.
Passo per Via Strinella, gli occhi fissi per non vedere le case tagliate, i posti di blocco, le tendopoli. Le tendopoli… le tendopoli… le tendopoli…
Il moncone del nostro Torrione sembra una matita spuntata.
E’ piegata. In ginocchio.
Non ha più lo sguardo minaccioso di madre severa.
Non voglio vedere. Voglio vedere il mare.

Il mare oggi è nero. Mare nero… (Lucio Battisti, l’adolescenza, i portici, le vasche, le colonne).
Flash back. Quando mio cugino tornava all’Aquila da Modena, in tiro come ‘Ntoni Malavoglia di ritorno ad Acitrezza, passeggiavamo insieme, felici, sotto i portici. Ogni tanto ci fermavamo a salutare qualche amico. In genere era appoggiato alla colonna, fermo come Belacqua, e sempre il dialogo era lo stesso:
“Oè!…”
“Oè…”…
“Mbé?… “
“Mbè?….”
“Quanno sci rrevenuto?” …
“Ieri” …
“Ah… E quanno te nne revà?”…
“Domani”…
“Ah. … … So’ contento”.
Che non sapevi mai se era contento che eri tornato, o che te riandavi.
Forse più la seconda.
Perché l’aquilano resta all’Aquila, sempre.
E chi se ne va dall’Aquila, tradisce…

L’albergo è bello, un quattro stelle, è un peccato che stiamo qui a lavarci i calzini nella doccia. Gli albergatori, poverini, non capiscono. Ci prendono per turisti. I primi giorni ci mettevano il cibo nei piatti dicendo “Se non vi piace c’è sempre la tenda”.
Altro che serviti e riveriti…
Ma vada per questa camera di decompressione, pur di vivere altre notti come quelle (NOTTI DI TERRORE, NOTTI IN MACCHINA, NOTTI IN STRADA, NOTTI IN TENDA….)

Tenda, boy scout, adolescenza, anni Settanta, i panini a Specchio, papà che mi faceva assaggiare il vino frizzante con la gassosa.
La piscina, le gare, Bultrini, Marino Bon che mi guarda dall’alto del muro del campetto di cemento e mi dice “Vieni-su-che-ti-voglio-insegnare-io”
(Non voglio dimenticare niente, niente…)
La grotta con le aquile, Roio, la tana dei lupi nella pineta, i tramezzini di Scataglini, i panini de Ju paninaro col tonno e i sottaceti. NON VOGLIO DIMENTICARE IL FREDDO. Al meteo della RAI, sempre “L’Aquila non pervenuta”, quanto ci faceva arrabbiare…

Il mare è diverso. E’ caldo e accogliente.
Sembra minaccioso, ma in realtà ti rassicura.. va.. viene… ONDE… ONDE.. onde…
Lei ti respingeva. Come una madre severa ti guardava dall’alto, sempre.
E lui, Il Grande Sasso, te lo vedevi svettare a ogni angolo come un carabiniere al posto di blocco. Un cerchio di montagne e gli aquilani che cercano varchi d’uscita da sempre, ma solo per finta. In realtà il chiuso gli sta bene.
Lo straniero si crede più di te, ma lui non sa scalare, non conosce il passo della salita.
NON CONOSCE LA FATICA.
NON CONOSCE IL SILENZIO.
Non conosce la stasi del falco.

Madonna Fore, il Vasto, la scampagnata di Ferragosto, Toni Sopra, Toni Sotto, La Standa, Il Cinema Olimpia.
Le Cancelle. Sposta le Cancelle, rimetti le Cancelle.
VOGLIO RICORDARMI TUTTO QUELLO CHE GIA’ NON RICORDAVO PIU’ E CHE ORA COL TERREMOTO RICORDO DI NUOVO.
Il primo amore, i sogni, la fuga all’università, tutti gli aquilani veri tentano la fuga all’università, ma anche quella è finta, serve a tornare per scelta, serve a dire “io potevo anche andarmene ma sono qui”.

Eravamo riusciti a ricreare quello che cercavamo altrove: la vita il fermento i pub il movimento lo scambio. Avevamo studiato tutti fuori, negli anni Ottanta, Roma Perugia Bologna Milano: ognuno aveva riportato a casa un pezzettino di metropoli, e ora lei era proprio bella, proprio come l’avevamo sognata per i nostri figli. Ora lei era perfetta. Perfetta.

“Come te rammetti?” (Chi fuor li maggior tui?)
Avvocati, figli di avvocati, nipoti di avvocati, dinastie di avvocati.
E così notai, dottori, medici, imprenditori. Dinastie di costruttori.
Sotto i portici loro non passavano .. sfilavano!
Ma càla da ‘ss’arbiru de cici!!!…” (di ceci).
Pasta e ceci, Le Tre Marie, la pecora alla cottora, il salame “appiccato” in cantina, la iattarola alla porta. Mio nonno nella vigna, spietrata sasso a sasso per quanto lì la terra è cattiva..
Mirycae.

Inizio a scendere, manca poco a vedere il mare.
Il pino marittimo svetta, scompigliato dal vento.
Qui la terra è fina come la farina, pianti un seme e lui cresce: olio, vite, perfino le palme.
Lei invece era dura, dovevi strapparle la terra per coltivare.
Terziario, università, casa dello studente, casa dello studente, terremoto.
Maria Grazia, Ezio, Susanna.
TRECENTO (giovani e forti e sono morti). Cantilene dell’infanzia.

“Dovete tornare dal mare prima o poi! dovete tornare, che fate ancora lì?”
Dignità, non piangete, siamo aquilani. SIAMO IN MISCHIA, l’aquilano mette la testa dove gli altri non metterebbero neanche l’unghia del piede. NON DOBBIAMO PERDERE UFFICI, CENTRI DI COMANDO, NON DOBBIAMO MOLLARE O LA MADRE MUORE. Non vogliamo fare quelli del Sud che aspettano aiuto, diamoci da fare, siamo aquilani.
Ad reprimendam audaciam aquilanorum“,è scritto.
Ma io non ne ho più, di audacia. Lasciatemi piangere in pace.
Voglio solo andare in centro, vedere la casa dove sono cresciuta…

Posti di blocco, presìdi militari, stranieri che mi impediscono di passare, non capisco la loro lingua, non hanno la nostra voce, che ci fanno qui, perché la mia città è presidiata, perché????

Faccio il giro. Torrione… Colle Sapone, contrada Camerini. Mi sembra ancora di vedere Libero che torna a casa… Libero, il crupié, la mascotte cittadina… Macchina del tempo.. Radio L’Aquila, Stefano Vespa e le cronache del Rugby, Andrea Fusco, Giampo Spada, Toni Lo Cascio. Via Accursio, Via Bominaco…. niente. Solo la devastazione.

Siamo in hotel, serviti e riveriti.
Gli amici di fuori mi telefonano, stanno in tendopoli, vogliono vedermi e io non ci sono, perché io sono al mare a scrivere le cronache costiere. Si stupiscono.
Tornano tutti, anche quelli che sono partiti scrollandosi la polvere dai sandali.
Volevano fare i notai, i giudici, gli avvocati, i medici, i costruttori.
E senza dinastia hanno dovuto andarsene, ora parlano straniero, ma l’aquilanità gli resta attaccata addosso, e tornano.
Stefania da Roma, Chiara da Barcellona, Laura da Washington, Massimo da Manerbio. Perfino gli aquilani adottivi, quelli che ci sono passati e l’hanno amata, tornano. Non possono fare altro che tornare, vedere, toccare, cercare con gli occhi i loro pezzi di porto sepolto.

Ma sì ragazzi, tocca a voi ora. Noi, lasciateci andare.
Non ce la facciamo, tocca a voi, la madre ha bisogno, restate.
Restate almeno fino all’inverno, sarà un inverno freddo e allora voi partirete, tornerete a casa perché una casa ce l’avete. Invece noi saremo qui, come sempre. Presidio alla fortezza Bastiani. Restate voi, per ora.
Lasciateci ancora un po’ qui, davanti al mare.
A piangere i trecento morti, e i muri, e i sassi delle strade.
Lasciateci appoggiati alla colonna, le mani in tasca, l’aria spagnola… Quanno sci rrevenutu? – Ieri… – Ah… E quanno tenne revà? – Domani… – Ah. So’ contento…
Sì. So’ contento.
Proprio contento.

(Montesilvano, 1 maggio 2009)

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