LA PAROLA E’ DONNA

INTERVISTA DI ROBERTO CIUFFINI A LUISA NARDECCHIA

Questa intervista è stata realizzata dal giornalista Roberto Ciuffini in Piazza Duomo all’Aquila, in occasione della presentazione al pubblico del numero di Leggendaria dedicato alle donne-scrittrici aquilane, dal titolo “TERRE MUTATE”, nel maggio 2010. L’intervista fu realizzata da Roberto Ciuffini per incarico di un giornale on-line sul quale non è più ora reperibile. Viene riportata qui fedelmente.

ROBERTO: Come ha scritto il direttore di Leggendaria Anna Maria Crispino, le donne sono state protagoniste quotidiane della ripresa della vita dopo il terremoto. E anche ora, a distanza di un anno, continuano ad esserlo (basti pensare all’alto numero di donne presenti nei comitati). Parafrasando Nuto Revelli, sono state e continuano ad essere “l’anello forte”. Perché, secondo te? E’ una questione biologica, di genere o cosa?
LUISA: La ripresa della vita “normale” è stata prevalentemente realizzata dalle donne, è vero. Ma non insisterei troppo su questo aspetto, anche se a lui ho dedicato uno dei brani più amati del dopo-terremoto. Si corre infatti il rischio di generalizzare e di relegare le donne ai lati spiccioli dell’esistenza, alla quotidianità. Il grande valore che io intravedo nel mondo femminile è l’energia, la vitalità. Il vero “anello forte” è la parola, che è anche coscienza. E la parola è donna: spesso davanti al disastro gli uomini hanno bisogno di silenzio, di raccogliersi e di guardarsi intorno. Le donne invece devono immediatamente dare un nome alle cose per capirle, e lo fanno parlandone, confrontandosi. Ma è chiaro che si va incontro a grossolane generalizzazioni.
ROBERTO: Tu personalmente dove e quando hai trovato la forza e il senso per scrivere?
LUISA: La scrittura è sempre stata, per me, un momento importante di coscienza e di realizzazione personale. Ho sempre scritto nella mia vita, anche se soprattutto pubblicazioni scientifiche e saggi. La scrittura narrativa mi deriva dal mio essere stata una grande lettrice: e spesso a un grande lettore succede che vivere una situazione si traduca in un dejà-vu di immagini lette in mille altre forme, su mille altri libri. Quello che si scrive rimanda sempre a cose che già risuonano dentro di noi, cose assimilate nel tempo, che riemergono in altre forme, in altri contesti. Dopo il terremoto la scrittura si è posta come “medicina doloris”, per me e per chi mi leggeva. Riuscivo a dare voce a tanto magma emotivo collettivo. Poi sono passata alla scrittura come documentazione e impegno civile. Sicuramente la scrittura narrativa è la forma di espressione più affine al mio modo di essere: la forza e il senso derivano dal bisogno impellente di farlo.
ROBERTO: Le testimonianze raccolte in questo numero di Leggendarie vogliono essere anche una risposta a tanta cattiva letteratura e a tanta disinformazione prodotte in questi mesi sull’Aquila?
LUISA: La scrittura letteraria è un modo di informare diverso da quello giornalistico: viaggia su onde anomale, e non ha lo stesso pubblico. I lettori di giornali spesso snobbano questo modo di raccontare le cose, lo considerano romanzato, infarcito di roba inutile. E invece un racconto letterario “taglia” le cose nella loro essenza, ha un modo diverso di dirle, ha ritmo, ha musica, veicola il messaggio attraverso altri recettori che il puro raziocinio. Il grande miracolo della scrittura letteraria è di non proporsi mai nulla: non convince, non scandalizza, non spiega, non documenta. Ma al tempo fa molto di più: ti cambia prospettiva, ti fa diventare “altro” da te. Quella di Leggendaria perciò è una scelta precisa, capace di coprire un aspetto dell’informazione sul terremoto certamente diverso da quelli finora usati. Tra i due estremi del documentario di parte e del personalismo autoreferenziale dei blog, la scrittura narrativa scelta da Leggendaria può fornire la tessera decisiva del puzzle.
ROBERTO: Secondo te non c’è l rischio che, come abitanti di questa città, finiremo per percepirci come comunità solo in nome della tragedia che ci ha colpiti?
LUISA: Magari fosse. Magari ci potessimo sentire”comunità” in nome della tragedia. E invece corriamo il grande rischio della dissoluzione: lo spopolamento da un lato, la lotta intestina per la gestione della ricostruzione dall’altro. In buona sostanza, c’è chi se ne va, e c’è chi resta a litigare sul come restare. Se riusciremo a superare questi due grandi pericoli, la nostra comunità si salverà e avrà un futuro. Ma per farlo è necessario un grande senso civico, una grande umiltà, una grande praticità, e secondo me c’è bisogno anche di grandi leader delle parti, leader che si pongano come punti di riferimento e che siano capaci di anteporre a tutto il bene della comunità.

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DE SENECTUTE – sulla costa

Eravamo ancora sulla costa quando è emerso, chiaro ed immediato, il criterio di selezione adottato per restare in città: solo la fascia “produttiva” aveva questo diritto. I vecchi, improduttivi e passivi, in albergo, al mare. Non c’è polemica in quello che dico: non avrei saputo proporre un’alternativa. Ma, come Maria, fui immediatamente vinta e quasi schiacciata dall’evidenza dell’esilio dei “grandi vecchi”. E la prima reazione fu di incredulità. Solo nei libri di fantascienza una società non concede ai suoi vecchi e di morire nella loro terra. La memoria (io che non ne ho mai avuta granché) mi recitava interi passi del “De senectute”. Ce n’era uno bello, quello in cui Cicerone crea la metafora della nave: la vita sociale è come un viaggio in una nave, vedi alcuni salire sugli alberi, altri andare correndo per le corsie, altri vuotare la sentina. Chi afferma che la vecchiaia deve essere esclusa dalla vita pubblica, è come se dicesse che nella navigazione il pilota non fa nulla. E invece, la barra in mano, seduto quieto a poppa, tiene la rotta. La città distrutta brulica di formiche impazzite, senza la testa dei “grandi vecchi”, che con il solo loro essere presenti, con il semplice stare, fanno il loro lavoro. In tanti hanno scelto di non lasciarsi portare via. “La baracca nell’orto, io da qui non mi muovo”. In tanti, più fragili, più sconvolti dal boato, si sono fatti deportare, rassegnati. Alberghi come ospizi. Passeggiano al mare, e i loro occhi cercano i monti. Quel sole e quell’umido, poi, i nostri vecchi non lo sopportano. So di alcuni che hanno chiesto di avere una stella alpina sul comodino. Come raggiungere questi nostri anziani in esilio? Come far arrivare da qui forte e chiaro che non li abbandoniamo? Dobbiamo dire che resistano, dobbiamo dire di tenere duro. Dire di aspettare, di essere forti… E che cosa aggiungere per quelli che non ce l’hanno fatta, che hanno ceduto prima, in preda al dolore della lontananza e alla paura dell’abbandono. Si sono ammalati, e in tanti, tantissimi, da un giorno all’altro hanno smesso di mangiare, hanno chiuso la bocca. Sono da annoverare tra le vittime del sisma, che invece, ufficialmente, resteranno sempre 300.

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ADOTTA UN BUZZICO

Tempo fa me ne stavo nella c.a.s.a. cercando di far quadrare il cerchio, quando si presentano due giovani sorridenti che gentilmente mi consegnano un bel buzzico color marrone, mi dicono che si tratta della raccolta differenziata dell’organico, mi consegnano un calendario tipo Frate Indovino e mi fanno firmare un documento.
Quando timidamente ho chiesto ai ragazzi: “Scusate, ma ora io questo dove lo metto?” mi hanno guardata stupiti. “Come? Sul balcone!”. “Quale balcone?” dico io. “Ah lei non ha un balcone?” “No! Esattamente come un sacco di gente che abita nelle c.a.s.e.”, mi sento di precisare. “Allora lo metta sotto al lavandino!”. “Ma sotto al lavandino c’è il fantastico secchio della spazzatura miracolo della tecnologia, che quando apri lo sportello si apre anche il coperchio! Lì ci va la spazzatura normale, mica il buzzico dell’organico!”, dico io. “Lo metta a fianco al secchio”. “Ma lì c’è posto solo per un paio di detersivi, non ci entra!”.
I due ragazzi iniziano a indietreggiare, azzardando, poverini, qualche altro tentativo: “… Al bagno?”. “Ma se al bagno non c’è nemmeno posto per il cesto dei panni sporchi, e devo tenerli in lavatrice!”. Improvvisamente grondanti di sudore, i due battono in ritirata, sparando le ultime cartucce: “…. Sul pianerottolo?”… “Sul pianerottolo ci sono gli stendini con i panni, vi ho detto che non c’è il balcone, no? e ci sono anche le dispense con i detersivi, mica vorrete che ce li teniamo dentro, i vapori ci avvelenano! Se ci mettiamo anche il buzzico non si passa piùùùùùùùùùùùùù!…”.
La mia voce accompagna i ragazzi alle spalle, lungo tutte le scale. Resto come una scema là in cima, finché non scompaiono all’orizzonte, come nei finali di Charlie Chaplin.
E così restiamo da soli. Io e il buzzico. Lo hanno lasciato in mezzo alla stanza soggiorno-cucina-camera da letto. La prima cosa che mi viene in mente è di agganciarlo a una corda e calarlo giù dalla finestra e tenerlo appeso lì. Mi rendo conto che non sarà un bello spettacolo per quelli che abitano sotto, ma che ci posso fare… anche io mi godo la vista dell’antenna parabolica del vicino che troneggia davanti alla mia finestra… No.. meglio evitare dai. Siamo fin troppo bravi a non prenderci a coltellate per i posti auto, dobbiamo avere pazienza. Evitiamo ok? C’è stato un terremoto no? Già, penso guardando il buzzico: c’è stato un terremoto e questi mi portano il buzzico. Mi viene in mente un flash: DOV’E’ LA TELECAMERA? Ma sì, ci sarà una telecamera nascosta! Dev’essere così! Hanno pensato di filmare le reazioni dei terremotati, per vedere fin dove arriva la pazienza!! Rido soddisfatta, mi aggiusto i capelli e mi guardo intorno, sentendomi improvvisamente osservata… “Dai, esci, lo so che ci sei!”.
No. Non è una candid. Mi sento tristemente sola. Guardo il calendario di fantastico Frate Indovino che mi hanno lasciato, per vedere se ci sono indicazioni su come gestire il buzzico. Scopro che devo buttare la spazzatura in certi giorni a certe ore. Mi colpisce il fatto che si parla di orari per me impraticabili, tipo dalle 22,00. Quando sono già a letto.
Arriva un altro flash: io che, in pigiama, vestaglia e pantofole scendo giù col buzzico in mano. Scordatevelo. Non se ne parla. Ho una dignità, io. Continuo a leggere, c’è scritto qualcosa sul compostaggio. Il compostaggio? Ma veramente? La pressione mi sale e avrei voglia di farlo a qualcuno, il compostaggio. Scopro con uno sguardo disperato che se butto la spazzatura fuori orario verrò multata. E che, se non conservo bene il buzzico e non lo restituisco a fine comodato, verrò multata ugualmente. Lo metto sul tavolo, siamo già amici, mi guarda con aria soddisfatta. Lo odio. Poi mi faccio coraggio: “Forza, siamo molto fortunati ad avere la c.a.s.a,. In Irpinia stanno ancora nei container, mentre noi riusciamo a pensare alla raccolta differenziata! Forza Luisa, fai un piccolo sforzo di buona volontà!”.
Io lo sforzo lo faccio pure, ma il problema è proprio di natura fisica, è un problema materiale e concreto, cioè DOVE PIFFERO LO METTO IL BUZZICO? DOVE? DOVE? DOVE?

Passano i giorni. Il buzzico troneggia, lucido e pulito, in mezzo al stanza, sul tappeto, davanti al divano-letto. La testa non si rassegna: mi succede come a gatto Silvestro quando a destra compare un angelo e a sinistra un diavolo. L’angioletto dice: forse questi del buzzico non sanno che le c.a.s.e. hanno tutte una camera-soggiorno-cucina! Forse questi del buzzico non sanno che moltissime non hanno neanche un balcone! Il diavoletto gli dà una martellata in testa e dice: “COME POSSONO NON SAPERLO? Saperlo è il loro lavoro, sono PAGATI PER SAPERLO!”.
Dopo qualche giorno il buzzico è diventato il mio interlocutore preferito. Lui è piccolino, ma a me sembra enorme, gigantesco, spropositato! Un buzzico ideato per una villa con piscina, mi sembra. Faccio un tentativo: lo metto sulla cappa della cucina. Sporge un po’, poverino…. Non mi sembra un buon posto, il calore è troppo vicino… E il buzzico torna sul tappeto.
Provo a leggere di nuovo il calendario di Frate Indovino con le istruzioni. Che bella cosa, la raccolta differenziata, che grande civiltà, che grande progresso, che grande ecologia! …..MA PROPRIO DAI TERREMOTATI DOVEVA COMINCIARE TUTTO ‘STO SENSO CIVICO?
…..
Altro flash filmico.
Atmosfera dorata, tipo Mulino bianco.
Gli abitanti delle c.a.s.e che si incontrano giù al parcheggio felici, ben vestiti, in una mano la ventiquattrore, nell’altra il sacchetto della raccolta differenziata. Vicino a loro camminano compunti due bambini con i capelli a caschetto, biondi, naturalmente. Reciproci saluti calorosi: “Buongiorno!!!!”… “Buongiorno a lei!!!“…. “Buon lavoro!!!!”….. “Altrettanto!!!”….. “I miei rispetti alla signora!!!”… Sorridono soddisfatti, esibendo il loro sacchetto dell’organico con la faccia di un boy scout dopo la buona azione quotidiana. Sotto alla scena filmica, una scritta scorrevole azzurra: “PERFINO I TERREMOTATI DELL’AQUILA FANNO LA RACCOLTA DIFFERENZIATA! FALLA ANCHE TU!”….
Puff… Il flash scompare in una bolla di sapone.
E vedo noi. Noi delle c.a.s.e.
NOI VERI.
Che la mattina ci salutiamo con un grugnito.
Incazzati.
Che abbiamo le facce da terremotati.
Che dormiamo ammucchiati, senza più privacy.
Che usciamo trasandati, con gli occhi abbottatti.
Anche noi col sacchetto della spazzatura in mano.
INDIFFERENZIATA, naturalmente.
Ognuno se lo carica in macchina, parte, e va a buttarla lontano, nei secchi che incontra sulla strada.
E quello che ti fa incazzare è che vorresti andare a buttarla sotto la casa di qualcuno.
QUI NON E’ ESATTAMENTE UN VILLAGGIO VALTOUR.
Fatelo voi il riciclaggio, FATELA VOI LA DIFFERENZIATA.
E mentre guido, col mio bravo sacchetto di spazzatura indifferenziata nel bagagliaio, mi domando: “Amici miei, fratelli di sventura…… voi dove avete messo il buzzico?”.
Leggende metropolitane dicono che molti lo hanno riposto, ben coperto, in qualche garage delle case rotte.
Altri lo hanno nascosto presso qualche amico fortunato che ha una casa. Qualcuno, purtroppo, lo ha dato in affidamento a parenti lontani, e ogni tanto telefona e chiede come sta.
Ma tanti, tantissimi, lo tengono in macchina, e la domenica lo usano per andare a togliere le macerie in piazza, in alternativa alla carriola. Li chiamano i “buzzicanti”, oppure per prenderli in giro “chi bazzica col buzzico”.
Vaglielo a spiegare, come vivono.

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IL TERREMOTO DEGLI ADOLESCENTI E LA LOGICA DEGLI AIUTI

Il Liceo Bafile, quest’anno, è stato aperto tutti i pomeriggi per consentire ai ragazzi di avere un punto di studio e di recupero permanente. Ma i ragazzi, a “Scuolaperta”, non ci sono venuti, le aule erano pressoché deserte. Le aspettative su questo progetto erano tante, tante le risorse impegnate: abbiamo pensato che i ragazzi avrebbero cercato nella scuola un punto di riferimento per creare gruppi di studio e di interesse. E invece niente. “Tu come passi il tempo libero?” è stata la domanda che ho posto più frequentemente durante l’inverno. “Quando è possibile andiamo nelle case di chi ce l’ha. Chi ha una casa vera, senza puntini, invita qualche amico, un po’ per volta, si fa a turno”. E già, il tempo libero è libero. E a scuola non ci vengono proprio perché deve essere libero. Liberamente si associano in piccoli gruppi spontanei. “Ma gli scambi, gli interessi, fare musica, passeggiare, incontrare?” chiedevo preoccupata. “C’è il cinema, ogni tanto. E ci sono i locali sul Viale della Croce Rossa, di sera, in genere il sabato. “D’accordo, questo lo sappiamo, ma come può essere che non vi organizzate, che non vi inventate qualcosa di diverso da proporci, per aiutarvi a realizzarlo?”. “Non siamo abituati” mi ha risposto Giacomo. C’era un tono di dispiaciuto rimprovero, in quel “non siamo abituati”. E mi sono chiesta quanta responsabilità abbiamo noi adulti in questa incapacità. Mi è tornato in mente quel consiglio comunale che avrebbe dovuto deliberare la sistemazione del porticato sotto la nostra scuola per uno spazio polifunzionale, consiglio mai concluso per abbandono dell’aula dei consiglieri e conseguente mancanza del numero legale. E mi viene in mente non per fare polemica spicciola, ma solo perché in quella occasione la reazione dei ragazzi attraversò tre stadi: prima si infuriarono e chiesero spiegazioni; poi ascoltarono le spiegazioni in silenzio; infine mugugnarono feriti e non fecero più nulla. Ragionevoli e composti, come abbiamo sempre chiesto loro di essere. “Non avete provato  a proporre qualcosa attraverso i vostri rappresentanti?” indagavo, per pura curiosità. ”Sì sì, certo, eccome! Abbiamo ottenuto un grande successo!” “Bene, questo mi fa molto piacere! Quale?”. “Il sabato sera verrà chiuso al traffico il Viale della Croce Rossa!”. Resto di sasso. Ma come? All’inizio dell’anno il loro obiettivo era smantellare Viale della Croce Rossa! (prima fase). Poi hanno accettato l’ineluttabile condizione di andarci (seconda fase); infine hanno smesso di chiedere alternative, facendoselo pure piacere! (terza fase). Si sono adattati. Perché l’unica cosa a cui li abbiamo davvero abituati, è ad abituarsi. Ad accettare le situazioni, a colorarle con la loro straordinaria fantasia, fino a farsele piacere. “Flessibilità! Flessibilità! Il mercato del lavoro richiede flessibilità!” Li abbiamo cresciuti a gran voce così, per capire poi, in queste situazioni di emergenza, che non funziona, che non è giusto, che non sempre è giusto adattarsi, se ci si adatta al peggio. Ho capito che nonostante tutti gli sforzi fatti dalla scuola, gli adolescenti aquilani sono pressoché costretti a crearsi delle vie di fuga mentali. La scuola non può essere tutto e non va delegata di tutto: ai ragazzi dobbiamo lasciare il sommerso, quello che si fa “sottobanco”: chiacchierare, passeggiare, e perché no anche un po’ bighellonare. Ecco perché guardano con sospetto l’extracurriculare che a scuola gli mettiamo sul banco, come fanno con quello che a tavola gli mettiamo nel piatto. E non lo mangiano. Fanno meno fatica in questo modo, che a cercare di chiedere parola presso gli adulti, troppo “occupati” per ascoltare questi piccoli cittadini. Gli adulti, gli “occupati” di Seneca. Siate seri ragazzi, c’è stato un terremoto, i grandi hanno da fare. Vai ragazzo, lasciami lavorare. In tanti piccoli si sono chiusi in camera, passano il loro tempo a navigare in un mondo virtuale, incontrando i lupi cattivi e girando dentro i vortici di misere trappole mentali. Un mancato invito a una festa diventa un affronto insuperabile che scatena rancori orribili, perché a quella festa non c’è un’alternativa da contrapporre per consolarsi. E noi abbiamo troppo da fare per capirli. Ci siamo illusi che concedere la “normalità” scolastica bastasse a dar loro un equilibrio. A scuola abbiamo dato un esempio di grande serietà, continuando a lavorare “come se”, e fornendo psicologi di sostegno. Bello, quel “come se”. Come se non ci riguardasse, dico io. Come se inchiodarli al libro fosse una soluzione. Ci siamo girati da un’altra parte per non vedere tanta sofferenza. Anche dopo un terremoto, noi continuiamo a considerare gli adolescenti dai 14 ai 17 anni come dei cretinetti che non si vogliono impegnare e cercano divertimento facile, pub e discoteche. Fastidiosi che sono, a quest’età, vero? Né grandi, né piccoli. Come Alice, ora si sentono giganti, ora nani. Perciò, non avendo loro stessi una reale percezione di sé, non li vediamo “seri” e degni di essere ascoltati. Da una prima, semplice ricognizione dei lavori presentati dai ragazzi per il Progetto “L’Aquila 2019”, ideato e bandito dai docenti del Bafile, (l’unica cosa che la scuola possa fare, come sempre, è “impegnarli” in positivo) è emersa tanta sofferenza, specie nei piccoli di 14-15 anni. Tanta nostalgia e anche tanta voglia di fare. I lavori, per ora solo raccolti e numerati per la imminente consegna alla giuria, presentano un’immagine del passato della città prepotentemente superiore all’immagine del futuro. Perché questi adolescenti la città l’hanno vissuta, se la ricordano bene. Tra le righe si legge solo un doloroso vorrei che non fosse mai successo. Troppo grande per loro. Non riescono a gestirlo. Nei progetti architettonici, invece, tante proposte costruttive: vogliono spazi di cultura, spazi per leggere, guardare DVD, discutere, trovare angoli di ristorazione con cucina straniera, ricostruire una piazza, un passeggio… Un passeggio. Che ne sarà di questi loro bisogni? Accadrà che “caleremo sopra” ai ragazzi le nostre scelte adulte e serie? Mi viene in mente la storia di certi interventi umanitari in Africa: gli evoluti paesi ricchi videro che in un villaggio africano le donne dovevano percorrere 10 km di strada, alla sera, per andare a prendere l’acqua in un pozzo. Gli aiuti misero su una task force e in breve costruirono un avveniristico e costosissimo acquedotto. Ma le donne continuarono, alla sera, a prendere le giare, a mettersele sulla testa e farsi i loro 10 km a piedi per prendere l’acqua dal pozzo. Furono mandati degli antropologi, per cercare di capire il perché. E si scoprì che quei dieci chilometri, per le donne del villaggio, costituivano l’unico momento di riposo, di chiacchiera, di passeggio. E’ quello che faremo? Costruiremo anche noi acquedotti inutili per i nostri ragazzi, dove loro si rifiuteranno di andare? Apriremo le scuole tutto il giorno per vederle poi deserte? Li abitueremo ad abituarsi? Suggerisco da sola i commenti, li so già. “Eh, questi ragazzi, vogliono sempre la pappa pronta! Non è vero niente, per loro abbiamo fatto questo e quello, gli abbiamo dato questo e quello…” Certo, anche noi li abbiamo scarrozzati e impegnati. Ma è sufficiente? E poi, la madre di tutte le repliche: “Che educatori sono quelli che incoraggiano al passeggio invece che a studiare!”. E io allora dico che noi adulti, il nostro passeggio, a quell’età, lo abbiamo avuto. I portici, la colonna, lo “struscio”, la piazza, li abbiamo avuti. Siamo onesti, avete già dimenticato? la giornata non era passata, se prima non s’era fatto “un giro”. E conoscevi le persone per caso, non perché ci andavi a sbattere col carrello della spesa. Le incontravi e basta. Ora
che cosa succederà? Gli costruiremo nuovi posti per spendere meglio la loro paghetta? Costruiremo per loro tanti begli acquedotti costosi? Non so che cosa augurarmi: che si adattino a girare il rubinetto che gli metteremo davanti, o che trovino un modo per andare a prendere l’acqua dove gli pare. A piedi.

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DOMANI VIENE MICHELE

“Domani mattina viene Michele”.
Non mi ricordo che effetto mi fece questa frase detta al telefono dalla voce emozionata di Giuseppe. Di sicuro mi ha gettato nel panico. “Sì… Michele viene domani mattina, viene a scuola a trovarci”.
Oddio. Che gli dico. Come mi comporto. Non ci so fare, non sono la persona giusta, Giuseppe ha sbagliato…
Cosa gli dico io a Michele Gazich?
Faccio un po’ di prove tecniche di trasmissione tipo: “Buongiorno Maestro, Lei non può immaginare che cosa sia la Sua musica per me” oppure: “Buongiorno Michele, è un onore averLa qui, venga, Le mostro i corridoi e la palestra”.
Eccerto. I corridoi e la palestra.
A Michele Gazich.
“Ma dai – mi dico – in fondo sarà lui a parlare. Gli artisti son così, un po’ matti, un po’ narcisisti. Mi parlerà dell’ultimo disco e andrà tutto bene. Anzi, speriamo che arrivi quando sto facendo lezione, almeno lo presento ai ragazzi. Non mi è mai capitata una cosa del genere. Un cantautore in classe”.
Mi figuro la scena.
Lui e Giuseppe entrano proprio quando sto finendo di leggere il “Cinque maggio”. Non so se avete presente: lettura enfatica dell’ode in climax fino alla pausa teatrale d’obbligo, prima della parola “posò”. In genere pochi secondi prima suona il campanello e mi rovina. Quest’anno invece busseranno alla porta e sarà Michele Gazich. Ok. Può andare.
Mi sfugge il seguito della scena. Che faccio dopo? Mi preparo le fotocopie di qualche suo testo? Mi vedo: distribuisco le fotocopie di “Poeta in gabbia” e poi… “Analisi del testo!”. Sacrosanta rivolta di massa della classe.
Cambio film.
Ascoltiamo un brano di Michele, poi intavoliamo una discussione. Sento la voce di Nanni Moretti dall’ultima fila che grida: “Noooo … il dibattito nooooooooo!!”. Parole sante.
Reset.
Altra scena.
Provo a immaginere i dettagli. Com’è fatto, dove lo faccio sedere, come si svolge la scena.
“Dovresti vederlo” mi ha detto un giorno Giuseppe, ben sapendo che non mi sono mai preoccupata di dargli una faccia. “E’ un personaggio, io l’ho conosciuto a Subiaco che girava da solo per le montagne, col suo cappello in testa”.
Quando Giuseppe ha detto “col suo cappello in testa”, ha fatto un gesto come per alzare la mano in aria, così: “CAPPELLO!” E non un gestuccio piccolo, tipo a schiacciarsi la mano in testa, come a dire la coppola di Lucio Dalla, no no, proprio con la mano per aria, alta, con gli occhi in un piccolo guizzo all’insù. Come a dire il cilindro di Zucchero Fornaciari. Vedo un corvaccio nero col pastrano lungo e gli occhialetti da cieco senza cane, salire le scale della scuola.
Brutto effetto.
“Un cilindro. Lo vedi?” mi dico “Dev’essere un tipo strano, e io coi tipi strani mi impappino come con i bambini, perché sono imprevedibili, ti spiazzano con una battuta che per loro è niente, e invece a me mi stende”.

Che poi i miti non si dovrebbero mai conoscere.
E che cavolo, Michele era un mito per me, come gli salta in mente a Giuseppe di trasformarlo in carne e ossa? se ne stava bello bello nella mia teca mentale, mi parlava con le sue canzoni, da lontano, etereo e incorporeo… Come Orazio, Baudelaire, Oscar Wilde, Pirandello. E chi li conosce? Che è ‘sta cosa che si deve per forza impattare col corpo? Sono aquilana verace, porca miseria. Gli aquilani non si smuovono mai per i miti. Una volta mi trovavo a Roma in un bar e mentre telefonavo a casa vidi passare un politico importante, così mi scappò di gridare con entusiasmo a mio padre, che era all’altro capo del telefono: “Non ci crederai, ma è appena passato Tizio!” E mio padre, laconico, da buon aquilano, rispose: “Salutamelo…”
Oh sanguis meus! C’aveva ragione!
I personaggi sono fatti per stare nelle teche.
E invece, domani Michele viene qui.
Esce dalla teca dove l’ho tenuto per tutto il terremoto.
Ma andrà tutto bene: faremo un giro, io, Giuseppe, lui, il suo pastrano nero e il suo cilindro.
Farò gli onori di casa e tutto andrà come deve andare.

Ci siamo, è il momento, sono abbastanza calma.
Sto per terminare la lezione sul “Cinque maggio” come da copione.
Faccio la pausa teatrale, dico ” posò “. Silenzio.
La classe, muta, assapora il momento catartico.
Subito dopo sento bussare, e schizzo in piedi.
La porta si apre di una spanna appena.
Intravedo Giuseppe, che resta fuori: con lo sguardo fa un gesto come per dire “puoi uscire un attimo?”.
Mi precipito, preoccupata. “Sarà successo qualcosa”.
E invece Michele è lì.
Vicino a Giuseppe.

Il cappello è sotto il braccio.

Il cappello è sotto il braccio.

E’ un cappello normale, ed è sotto il braccio.
Niente cilindro, niente pastrano nero, niente occhialetti da cieco.
Dalle finestre del corridoio, una luce morbida.
Pochi secondi. Capisco tutto.
La Endemol Deformation mi ha fatto aspettare un uomo di spettacolo.
E invece Michele è un Uomo. Come quello di Oriana Fallaci.

Lui è ciò che scrive.

Mi saluta affabile, dolce.
La mano è leggera.
La voce è leggera.
Gli occhi chiedono.

Tutto in lui è partecipazione.
Mi chiede del terremoto, vuole sapere.
Mi chiede del campo di Collemaggio.
Io ero al campo a Collemaggio.
Mi chiede di Santa Maria degli Angeli.
Io abitavo vicino a Santa Maria degli Angeli.
Pensavo che venisse per parlare.
Invece è qui che mi ascolta.
Ho davanti a me una persona gentile.
GENTILE.
Avevo dimenticato che esistono persone GENTILI.

Lui è ciò che scrive.

Resta cinque, dieci minuti, poi dice che non vuole disturbare e se ne va.
Nell’alone di luce delle finestre del corridoio.
Resto lì.
Con l’anima piena.

Io non so perché certe cose succedono.
Non so perché certe persone mandano così tanta energia da sembrare angeli. E non so perché tutto questo sia successo a me.

Ho conosciuto un poeta.
O forse un angelo.
Pensandoci bene, non c’è differenza.

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Michele Gazich e la Nave Dei Folli – Collemaggio

SUI PROBLEMI GIOVANILI: IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI

 

Difficile riflettere, in assoluto, sul mondo giovanile, ma quanto più difficile in una realtà particolare come quella nostra aquilana. I giovani aquilani, loro, quelli che “poverini”. Diciamo loro “poverini”, ma non hanno lo sguardo implorante del cane randagio: anzi si offendono, si ribellano. A scuola leggo i loro occhi e i loro comportamenti, su Facebook i loro pensieri: e sono pensieri di normalità, di serena accettazione dell’ineluttabile. Gli adulti si dannano, costruiscono scenografie finte, cercano di nascondere le macerie sotto al tappeto. Loro invece chiedono solo di “esserci”, essere vicini alle loro madri confuse dal disordine di un numero spropositato di traslochi, ai loro padri sbattuti dalle difficoltà di un’emergenza lavorativa e familiare che non si decide a finire.

I ragazzi vogliono “esserci”, stare lì, presidiare, presenziare, come a voler adottare a (debita) distanza i loro adulti provati. Ci sorvegliano, ci spiano. Spiano il nostro disperato tentativo di passare da una città capoluogo di regione alla più infima delle periferie di quartieri dormitorio. Ci guardano, ci assecondano, delusi dalla nostra incapacità di credere che loro, in quanto giovani, possano capire. Pur di starci vicini si fingono ottusi, fanno i buffoni, dicono stupidaggini per farci ridere o marinano la scuola, come facevano prima, come se fosse normale, come un tempo. Ma sanno perfettamente che nulla è come un tempo, per noi adulti.

Noi vorremmo che almeno i più grandi se ne andassero, “qui non c’è futuro, andate a studiare fuori, fate la vostra vita lontano da una terra che ci ha traditi!”. Il nostro passato disneyano ci ha portato a credere di doverli difendere nascondendo, oscurando. E loro ci guardano con quegli occhi distaccati e un po’ ostili che sembrano dire “fammi partecipe dei tuoi problemi”. E noi lì a fingere, a nascondere. Vogliono vivere le nostre preoccupazioni, vogliono essere inclusi nei nostri pensieri. Sono cresciuti tanto, in questo anno e mezzo.

Il fatto è che noi adulti siamo sempre stati assillati dalla questione dei traumi. “Evitare i traumi” è stato il motto della nostra generazione. Mi viene in mente il ricordo di una mia cara amica: anni fa, quando morì suo padre, tentò di preservare il figlioletto di cinque anni dal dolore, così sostituì tutte le foto che aveva in casa in cui erano ritratti nonno e nipotino. Entrare in casa e scoppiare a piangere, per il bambino, fu un tutt’uno. Disse: “E no, mà!…. E fammelo ricordà, nonno!”. Il lutto si elabora toccando, guardando, vedendo quello che non c’è più. Anche loro, se la vogliono ricordà, L’Aquila. “QUANTA FUIT, IPSA RUINA DOCET”: le rovine dimostrano quanto la città fu grande. Invece noi facciamo di tutto per nascondergliela, fingiamo flessibilità e abitudine alle no-town. Come tanti ridicoli Fantozzi diciamo: “Sentito niente!”. E ogni volta loro si preoccupano per questo fingere, sentono, intuiscono dentro di sé che sotto c’è qualcosa di grave.

Quest’anno non vorremmo fare l’occupazione”, mi dicono due studentesse candidate al il Consiglio di Istituto, illustrandomi il loro programma. “L’occupazione contro i tagli della Gelmini, sì, è ok per il resto d‘Italia, ma noi qui abbiamo altri problemi: noi vogliamo sette giorni per fare altro. Per rivivere la città, comunque sia diventata. Vogliamo girare la zona rossa con la guida turistica: i forestieri possono farlo e noi no? Vogliamo la storia delle case, delle chiese, dei palazzi, dei cortili. Vogliamo studiare. Vogliamo qualcuno che ci spiega il passato. Vogliamo capire cosa ha spinto gli antichi a restare, cosa spinge ora noi a non andar via.” Fabrizia e Michela hanno la forza e la capacità di dare parole al loro dolore. Propongono, dicono, chiedono. Gli altri ragazzi magari non ci riescono, si godono un po’ il piacere del vittimismo, o restano chiusi nel consueto mutismo adolescenziale. Ma la loro non è apatia: è l’unica forma di reazione che gli abbiamo concessa, quella di non rompere mentre noi (non) prendiamo decisioni. Capisco bene, avevamo sognato per loro un futuro diverso, dicevamo “quando andrete all’Università” dando, come scuola, una prospettiva allettante, un futuro di emancipazione, di conquiste e di divertimento. Ma è vero, la storia continua, loro si adattano, non sono legnosi come noi.

La cosa più strana è vedere ora la gara di solidarietà di tanti Enti Nazionali per i “giovani aquilani”. Piovono corsi di legalità, di anticorruzione, antimafia, come se avessimo già delegato i giovani a ricostruire domani, invece di pensare a quelli che (non) stanno ricostruendo oggi. I ragazzi ridono, almeno quelli grandi. Gli parliamo di mafia e di corruzione, ma il messaggio che arriva a loro è: “Ora è così, ma non lo non lo fate anche voi, quando sarete grandi!”. E diamo loro la sensazione che la insostenibile responsabilità della ricostruzione sia la loro. Ma non si apprendeva con l’esempio? L’esempio dell’adulto non era l’unico elemento che metteva d’accordo tutte le pedagogie? Non era l’esempio che in-segnava (lasciava un segno dentro) come comportarsi domani?

E che dire di ciò che piove fuori dalla scuola? Nella buca della posta, dacci oggi il nostro fascio quotidiano di pubblicità di ogni tipo per il target giovanile, dal corso di ocarina a quello di meditazione zen. Sento madri che tirano fuori dal mazzo di volantini quello più colorato e poi, con scarsa convinzione, si rivolgono ai figli: “Ummmh…Corso da cheer leader… Ci vuoi andà?”. Silenzio. Al massimo, un grugnito.

I giovani sono stanchi dei corsi. Hanno bisogno di incontrarsi, di parlare liberamente, di sfogarsi senza moderatori. Sono stanchi di giocare con noi a “guarda l’uccellino”. Vogliono starci vicini, vogliono che noi adulti troviamo un modo per vivere, anzi per sopravvivere, in qualche modo, a questo disastro. E che condividiamo con loro il nostro dolore, la nostra sfiducia di orfani.

 

 

L’AQUILA DI DOMANI

Questo è un articolo di giornale (sempre giornali on-line, non ho mai scritto per la carta perché nessuno me lo ha mai chiesto, né io lo chiederò mai a nessuno) nato per celebrare una iniziativa nata nella mia scuola, il Liceo Scientifico “A. Bafile”. Ero la Vicepreside, da Vicepreside ho vissuto tutte le responsabilità di una scuola di circa mille studenti e un centinaio di professori, nel dopo-sisma, lavorando nel famoso “Conteiner 19” che era la Segreteria-Presidenza nella fase dell’emergenza. Ogni attività che fu fatta dalla mia scuola mi costò enorme sacrificio di tempo ed energie, ma i ragazzi avevano bisogno, allora più che mai, di sentirsi assistiti e seguiti. E così ho ritenuto di dover fare. In calce, allego la bellissima documentazione delle nostre attività: il report “Conainer 19” e il Concorso di idee Ragazzi “L’Aquila 2019”.

Firmato venerdì scorso l’atto d’intesa tra il Liceo Scientifico “A. Bafile” dell’Aquila e l’Associazione culturale e di solidarietà sociale “Città della Gioia onlus” di Napoli, dettato dal comune impegno di contribuire alla rinascita della città dell’Aquila e dei territori abruzzesi colpiti dal sisma. Si tratta di una delle iniziative messe in atto dal Liceo Bafile  per promuovere negli studenti il superamento delle ferite psicologiche e sociali, personali e collettive causate dal sisma, attraverso progetti concreti e operativi. Il progetto “L’Aquila 2019” consiste in un concorso scolastico volto a premiare le migliori riflessioni degli studenti su come potrebbe essere la nostra città tra dieci anni, nel 2019.

Pasquale Salvio, Presidente dell’Associazione coinvolta nel progetto, spiega: «La Città della Gioia onlus si prefigge, tra i valori fondativi, la solidarietà e la promozione della cultura   ed ha tra le sue finalità progettuali e operative la formazione scolastica delle giovani generazioni, con particolare attenzione alle fasce deboli della popolazione e a quanti hanno problemi derivanti da situazioni emergenziali». L’intesa tra il liceo aquilano e l’associazione nasce grazie all’interessamento della prof.ssa Anna Maggi e della Dott.ssa Iride Cosimati, che si sono prodigate per mettere in contatto il liceo aquilano e la onlus.

«I ragazzi stanno lavorando con entusiasmo e partecipazione, – spiega Walter Cavalieri, che insieme a Sandro Cordeschi è uno dei referenti dell’iniziativa – e alcuni lavori si stanno  rivelando particolarmente interessanti». Le sezioni del concorso sono quattro: narrativa, fotografia, progettistica e saggistica. «Basta citare qualche titolo – dice Sandro Cordeschi – per dimostrare la validità dell’iniziativa: La città ritrovata – Natura, cultura e sport a Piazza D’Armi – Riscoprire e valorizzare il naturale rapporto tra città e territorio – Campus universitario ‘6 aprile 2009’ – Progetto di riqualificazione dei trasporti pubblici urbani ed extra-urbani – Riprogettazione del Parco del Sole. Sono solo alcuni dei titoli dei lavori, scelti per dimostrare su che cosa si sta indirizzando la riflessione degli studenti».

Anche la sezione narrativa, oltre a quella della progettazione, promette sorprese interessanti: Nuvole di fumo, per esempio, è uno dei racconti su cui stanno lavorando due studentesse, e Com’era il futuro è la realizzazione di 4 studenti per la sezione “Fotografia”. Buone premesse anche per la sezione saggistica: basti, per tutti, il titolo: Cartografia ed iconografia dell’Aquilano, dalle origini ai nostri giorni”. «Stiamo mettendo a punto delle commissioni di esperti per ogni sezione del concorso – continua Walter Cavalieri – e entro maggio individueremo i vincitori».

È qui che si innesta la collaborazione della “Città della Gioia onlus” di Napoli, che ha promosso una raccolta di offerte per una cifra di € 2.500,00 da suddividere tra i vincitori. L’Associazione napoletana, in linea con i valori del suo statuto, entra nel liceo aquilano allo scopo di sostenere le iniziative dei territori abruzzesi colpiti, in spirito di solidarietà. «Vedere i ragazzi impegnati verso il futuro, incentivarli perché distolgano gli occhi dalle rovine e si concentrino sulla ricostruzione ci è sembrato un gesto significativo, anche se piccolo, in confronto alla portata del disastro» conclude Pasquale Salvio.

I lavori degli studenti sono stati preparati da incontri, ricerche e conferenze: un modo come un altro per sollecitarli a partecipare al dibattito culturale sulla ricostruzione. L’ultima attività, per esempio, è stata la partecipazione al convegno “L’Aquila – prendiamoci cura del patrimonio urbano” con Shigeru Ban. Nella mattina del 19 marzo i rappresentanti dell’Associazione sono stati all’Aquila per conoscere la realtà scolastica del Liceo Bafile e stipulare formalmente l’atto d’intesa, già concordato da mesi.

«Alla città dell’Aquila l’Associazione si sente legata con un affetto particolare, affetto che ritiene vada oltre la semplice erogazione monetaria. Il nostro scopo è quello di promuovere sentimenti, strumenti e occasioni che valorizzino il desiderio di un gemellaggio tra comunità civili che hanno vissuto entrambe, in momenti storici diversi, le ferite del terremoto». Con le parole del Presidente si è conclusa la stipula, e la delegazione napoletana è stata accompagnata al centro storico, per una visita che ha consentito di constatare l’entità del disastro che ha colpito la nostra città.

Il concorso si concluderà il 5 giugno nell’ambito del Convegno Internazionale: “Dopo la caduta: memoria e futuro”, dove avverrà la premiazione ufficiale dei vincitori. Si tratta di un importante riconoscimento, dal momento che il Convegno in cui il Bafile verrà ospitato è stato organizzato dalla Prof.ssa Laura Benedetti della Georgetown University, e vedrà la partecipazione di importanti personalità americane e di autorevoli rappresentanti di istituzioni culturali aquilane, nonché, tra gli altri, degli scrittori Luisa Adorno, Clara Sereni e Amara Lakhous.

Vi allego i due “report” delle nostre attività.

http://www.didacta.altervista.org/curriculum/Container_interno.pdf.

http://www.didacta.altervista.org/pubblicazioni/Aquila2019.pdf

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LE NOSTRE DONNE

Questo testo è stato sicuramente il più “fortunato” tra quelli da me scritti nella fase dell’emergenza. Risale all’ 8 marzo 2010 e fu scritto in sette ore, la durata del viaggio del pulman che mi riportava a casa da Milano. Il testo fu letto ovunque, fu citato sul “Manifesto”, fu usato durante convegni, raduni, comizi di politici, per lo più senza citare l’autrice. Ne sono stata fiera: perché quando di un testo se ne impadronisce “la gente” al punto da non sapere più chi lo abbia scritto, né come e perché, vuol dire che quel testo era vero, era della gente.

I primi tempi lo chiamavano “il terremoto delle donne”. Una frase che si sentiva un po’ dovunque, appena sussurrata, da parte di giornalisti, commentatori, fotografi, gente di passaggio.
Lo schianto distrusse gli uomini, che rimasero allibiti, quasi paralizzati, attoniti davanti a tanta devastazione. O scapparono.
Sono state soprattutto le donne ad evacuare l’ospedale (infermiere, portantine,  dottoresse), chi era lì le ha viste disporre, dare ordini, organizzare, spostare, raccogliere, sostenere. Sono state soprattutto le donne a recuperare i faldoni dagli uffici, la merce dai negozi. Le donne, a tenere unite le famiglie, a dirigere, a sistemare i figli nel modo meno precario possibile. Donne, a far riaprire i primi punti in piazza, donne a fare politica, donne a restare al proprio posto, qualunque fosse, a dare il meglio di sé. Le abbiamo viste nei centri di raccolta, nelle tendopoli, nelle stanze d’albergo, nelle camerette della Finanza darsi da fare, organizzare lo spicciolo, improvvisare angolini in cui ritagliare un po’ di intimità: girare un catino per realizzare un tavolo, appendere uno specchio a una gruccia per rimediare una toletta, mettere un fiore in un bicchiere, stendere un foulard colorato alla finestra.
Su di loro, gli occhi di uomini schiantati, barba lunga, increduli davanti a tanti piccoli gesti inutili. E intanto le donne correvano avanti e indietro a racimolare oggetti, in preda ad una strana febbre.
In tante si sono messe a scrivere, a raccontare, a parlare, a dare voce alle emozioni collettive. Ridicole? Davano un nome alle cose che succedevano, mentre tanta, troppa gente continuava a ridere dentro al letto, anche senza intercettazioni telefoniche.
Le donne diedero forza alla braccia, spazio alla memoria. Istinto di protezione della prole? Forse. Non siamo forse noi donne ad aver passato almeno cinque anni della nostra vita distese sul tappeto di casa con i nostri figli, per insegnare loro il gioco della torre di cubi? Un cubo sopra l’altro, un cubo sopra l’altro. Uno per volta, con pazienza. Poi la torre cade, il bimbo ti guarda spaurito, tu lo consoli: “Non fa niente, la rifacciamo”. Non fa niente, la rifacciamo. NON FA NIENTE, LA RIFACCIAMO. La casa.
Gli uomini possiedono la nuda proprietà, le donne hanno anche il resto: dallo zerbino alle tendine colorate, dalle presine, in tinta con lo strofinaccio, al servizio di tazzine regalato al matrimonio, dalle fotografie al cigno di vetro soffiato, così brutto ma a cui siamo tanto affezionate. E quante volte siamo entrate di nascosto nelle case rotte, a recuperare qualche brandello di memoria da innalzare come un trofeo che in qualche modo distinguesse la nostra dalle mille altre casette, tutte con gli stessi arredi, gli stessi colori, le stesse pentole e le stesse coperte.
Ma le più grandi sono state le donne-nonne come mia madre. Quelle che hanno fatto la guerra, quelle che hanno rivissuto i bombardamenti. Meritavano una vecchiaia serena, circondate da figli e nipoti. Si trovano in spazi risicati, quasi tutte lontane dalla loro terra, da una città che hanno reso grande nel corso di tutta la loro vita, con il loro lavoro. Ovunque si trovino, questa fu la prima cosa che dissero il 6 aprile, questa sarà l’ultima che diranno: “non fa niente. LA RIFACCIAMO”.


LETTERA APERTA A DON CLAUDIO

Premessa al lettore: questa lettera aperta fu pubblicata su un giornale on-line nel dicembre  del 2009. Chi scrive si rivolge a Don Claudio Tracanna, persona di grande sensibilità e accortezza, vicina e attenta alle problematiche giovanili.

Caro Claudio,
scrivo a te quale direttore dell’Ufficio Diocesano delle Comunicazioni sociali, ma soprattutto quale collega, amico, insegnante amatissimo dai ragazzi e, ultimo ma non ultimo, cittadino aquilano. Parlo a te perché forse con te riuscirò ad arrivare fino in fondo, magari con te riuscirò perfino a capire, magari tu avrai la pazienza di rispondermi in modo pacato e con la volontà, a tua volta, di capire me. Il momento che stiamo vivendo chiede a tutti i cittadini aquilani di esserci: lo chiede a tutti, ma in particolare lo chiede alla gente di scuola, perché i ragazzi ci guardano e apprendono da noi, ci guardano e imparano come si fa, da come noi facciamo. Oggi non si può restare lontani: oggi un imperativo morale chiede, a chi ha una coscienza, di “esserci” con tutte le scarpe.
Questa lettera nasce da un primo impulso, e di seguito, a catena, da tanti altri. Il primo impulso è stato il disgusto nei confronti della costruzione, in Piazza D’Armi, della Mensa di
Celestino e annesse strutture. Si sapeva da tempo, pensavamo a qualcosa di paragonabile (quanto a dimensioni) al preesistente, non a un qualcosa che ingoiasse mezza piazza. Lo sdegno che ho provato a vedere (scusa) quello scempio, è stato pari alla delusione che ho provato (scusa) subendo il tradimento di persone di cui mi fidavo ciecamente. Io non avrei accettato quel pezzo di città. Io non avrei detto “meglio a noi che a un altro”. Quel pezzo di città, in questo momento, era importante per gli aquilani. Non discuto su decisioni prese al vertice. Discuto la possibilità di dire di no. Scusa, ma la mia generazione si è nutrita di libri come “L’obbedienza non è più una virtù”. La mia idea di prete coincide con quella di una persona che sa dire “NO”. I libri che leggo, quello che dico a scuola, mi portano naturalmente a cercare nei preti dei Borromeo. “Naturalmente”, dico.
Scusa, ma io non capisco e non mi rassegno. Io credo che il momento chieda un impegno civile serio e importante: e che la Chiesa possa, nella storia, imparare dalla storia. Essa può, nella storia, scegliere da che parte stare. Può cambiare la storia già scritta e quella da scrivere. I grandi uomini di Chiesa hanno saputo imparare dagli errori, da loro ci aspettiamo l’aderenza alla missione di cui l’abito è testimone. Noi cittadini aquilani ci aspettiamo dalla nostra diocesi la stessa cura che l’arcivescovo Confalonieri ebbe per gli aquilani durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Anche noi stiamo vivendo un bombardamento, e chiediamo a gran voce che “chi può” eviti che vengano sganciate altre bombe.
Sono confusa, Claudio, non capisco: non capisco. Ti ho visto schierato contro la deportazione forzata dai campi, ti ho visto benedire le carriole, e ora ti vedo aderire a “Gli aquilani non sono quelli dei comitati”, gruppo che mescola sacro e profano, e dice “Grazie Italia, grazie Protezione Civile, grazie Vigili del Fuoco, grazie anche ai nostri amministratori locali che hanno avuto un compito difficilissimo in questi mesi”. Va bene, grazie, bravi, buoni, buonissimi, caritatevoli tutti quanti, MA ADESSO? Le case di carta ce le hanno date, è vero, e siamo usciti dalle tende. E grazie. Ma il prezzo deve essere quello di morirci dentro? E allora che aiuto è? E’ il tozzo di pane che si dà al povero? Provo il disprezzo dei poveri per la carità. “Come? Ti ho dato la casa e tu ti lamenti? Mordi la mano che ti nutre?”. A me hanno insegnato che l’impegno sociale è ben altro che questo. E il primo a insegnarmelo fu il mio insegnante di Religione di Liceo, si chiamava Don Giuseppe Molinari. Perciò io un impegno della Chiesa me lo aspettavo. Invece, terra tolta al centro della città, solchi scavati tra cittadini, sostegno a comitati contro altri comitati. La nascita di comitati contrapposti è normale, si è verificata fin dall’inizio, fa parte della democrazia. Se uno alza un cartello, subito dopo se ne alzano altri tre, e tutto questo “ci sta”. Ma i segnali che arrivano dalla Chiesa sono contraddittori, noi non capiamo. Croce sì, croce no, simboli che invitano altri simboli… “Dove sono due persone nel mio nome, lì è chiesa”, questo mi hanno insegnato. Questo è quello che mi aspettavo. Con-versione. Questo ci aspettiamo dalla Chiesa. Non so perché abbiamo due vescovi, sinceramente anche questo non l’ho capito. Gli antichi romani avevano pro uno rege duo in tempi di pace, ma uno solo in tempi di guerra. Come dobbiamo leggere questo “rinforzo”? E’ una delle tante cose che non capisco. Quello che capisco bene, invece, è che la piazza D’Armi, con tutta la forza di due vescovi, l’avrei lasciata alla città. So che ora unirei, non dividerei, il dia-bolon, è il contrario del sun-bolon. Diavolo è ciò che divide. Ma Claudio, adesso DEVONO RICOSTRUIRCI LE CASE. Le NOSTRE case. Perché siamo una società civile, non abbiamo l’anello al naso. E più strutture stabili accettiamo noi aquilani, meno possibilità abbiamo di tornare nelle nostre case.
Io, un impegno maggiore della Chiesa, per gli aquilani, me lo aspettavo. E ci conto ancora.

CRONACHE FINALI

Si tratta del racconto degli ultimi giorni nella tendopoli di Collemaggio, prossima alla chiusura. Chi scrive racconta le fasi finali dell’assistenza della Protezione Civile,
e l’assegnazione di un alloggio nel Progetto C.A.S.E. Il racconto fu pubblicato dalla rivista “Leggendaria” nel numero 81, un numero interamente dedicato alle “Terre mutate”. Il numero del giornale fu presentato a Roma il 18 giugno 2010. I fatti raccontati, se pure enfatizzati dalle tecniche narrative, sono TUTTI REALMENTE ACCADUTI.

13 novembre 2009 – Sono rimasta sola, la tendopoli è quasi vuota. Ci chiamano “gli irriducibili”, quelli che non se ne vogliono andare, come se fosse una scelta politica, e invece non c’è nessuna scelta da poter fare ora, almeno per me, ho sbagliato tutto in questa storia… Mi vergogno di essere stata così ingenua e sprovveduta da ritrovarmi a novembre ancora sotto la tenda. E non riesco a crederci.. Mi vergogno di parlarne con gli altri, tutti più o meno sistemati meglio, COMUNQUE MEGLIO di me, mi sembra di leggere nei loro pensieri “poverina, ma come fa a stare ancora in tenda? sono rimasti lei e gli slavi ormai, ma come si fa?”. L’importante è che la mia famiglia stia bene, lontano da qui, fa solo tanto freddo. Soprattutto di notte si gela, e sinceramente ho paura di dormire qui da sola. Prima di infilarmi nel letto preparo una specie di trappola: appoggio una rete inutilizzata di un letto contro l’apertura della tenda.. La tenda non ha porta, non si chiude a chiave, e io ho paura, ho paura di tutto qui, una paura indotta più che reale, se ascolto me stessa mi dico che posso stare tranquilla, che va tutto bene, che non può succedere niente e che – soprattutto – finché sono in tenda, il “mostro” non mi può ingoiare. La sera ho sete ma non bevo, non bevo neanche durante la cena per non andare in bagno di notte, il container dei bagni di notte sembra irraggiungibile, una traversata impossibile…
14 novembre 2009 I cani qui fuori fanno da padroni, sembra di stare un film. Stanotte abbaiavano e ringhiavano abbaiavano e ringhiavano, si mordevano abbaiavano ringhiavano finché qualcuno (chissà chi) è uscito fuori, ha urlato qualcosa come BASTA FATELA FINITA e ha sparato un colpo di pistola in aria. Silenzio. Un silenzio di tomba e forse era meglio prima l’abbaiare e il ringhiare. Tra freddo e cani mi viene in mente Zanna Bianca e sorrido, è incredibile come facciano compagnia certi ricordi, nascono da soli, affiorano come bolle di sapone.. Dentro una di queste bolle, vedo la ragazza che mi aiutava nei lavori domestici, il giorno in cui mi ha lasciato il bigliettosul tavolo con su scritto: “Non pulisco in giardino perché il cane BAIA”. Sorrido ancora. Che bello.
Dio quanto, ma quanto era bello e non lo sapevo … Qui il gelo ti entra dentro, le lenzuola sono quasi bagnate, ho foderato tutto di coperte, a terra in alto, mi sono fatta una specie di iglù e non posso più pulire la plastica a terra con tutte queste coperte, ma non mi importa, devo proteggere la mia schiena. Rimpiango Maria di Mestre che per il mio mal di schiena veniva a farmi il Toradol, Dio la benedica, Maria di Mestre, non so come avrei fatto senza di lei. Qui a Collemaggio i volontari della C.R.I. li chiamiamo con la città di provenienza: “Piero di Pavia”, “Barbara di Firenze”, Maria di Mestre”. Ora ci sono Franca e Laura. E Riccardo, 19 anni, fidanzato con una ragazza dell’Aquila salvata dalle macerie. Quante storie d’amore sono nate tra volontari e terremotati… Ma chi se le ricorda più, ormai non c’è più nessuno, ci sono solo io, i cani di Mimmo e qualche straniero, porca miseria. Ma come ho fatto ad arrivare a questo? E com’è possibile? Stranieri, affittuari, avventizi, QUI CON ME, con me, proprietaria storica di appartamento al centro storico? INSIEME? IO E LORO? Vedrai che mi daranno la casetta vicino a questi… Anzi, la daranno prima a loro, perché loro hanno un sacco di figli, ecco come andrà. Chi devo maledire? Chi? CHI? Non ce la faccio più. Io mollo tutto, me ne vado, mi trasferisco.
15 novembre 2009. Mi chiama Piero della Protezione Civile. Dice che ha buone notizie.
“Finalmente!!!” (è incredibile, ma sono ancora capace di provare emozione e riconoscenza).
“Ho trovato una stanza per te in albergo, all’Aquila”
“Caspita!!! – dico io- che notizia meravigliosa! Continua dai!”
“L’Hotel è il migliore della città”
“ACCIPICCHIA! – esclamo incredula – non so come ringraziarti Piero!”
“Però c’è un però”
“Ah. E lo sapevo io. Ok, pago il soggiorno, va bene lo stesso, basta che ci sia una stanza in città.”
“No.. Il fatto è che… Insomma… La stanza è condivisa.”
“…”
“….”
“Pronto? Ci sei ancora?”
“Condivisa?… Condivisa con chi?”
“Una signora rumena”
“…”
“Una signora rumena?”
“Sì… Brava persona, puoi stare tranquilla”
“Ah. … (…) Grazie Piero… Ok. … Lasciamici pensare un attimo ok?”

Rumena… Ma siamo matti? Ma per chi mi hanno preso? In stanza con una rumena.
Giuda ballerino, è un incubo. Voglio svegliarmi.
16 novembre 2009. Lascio la tenda. Ho deciso di accettare la stanza condivisa con la rumena. Sono pazza lo so, ma non ho scelta. Fa troppo freddo e la schiena mi dà il tormento, devo pensare alla mia salute, devo stare bene, BENE CAVOLO, ho un figlio a cui pensare, DEVO ACCETTARE.
E’ incredibile, ma ho paura a lasciare la tenda, più paura che a restare, e sono proprio due belle paure. Nulla mi è stato risparmiato, ma io voglio stare qui VOGLIO STARE QUI NELLA MIA CITTA’ NELLA MIA SCUOLA CON LA MIA VITA. Accetto. Accetto anche se sono arrabbiata, molto arrabbiata. Una rumena? Che vuol dire una rumena? Una rumena nel migliore albergo della città? E chi è? Che lavoro fa? Con chi mi mandano a dividere il sonno (e il bagno?). Sono furiosa. Mi sembra un incubo, ma non ho scelta, ormai ho la filosofia del “poi vediamo”, e Piero mi ha promesso che è solo per qualche giorno, solo fino a venerdì – mi ha detto – perché ogni venerdì consegnano le casette e io avrò la mia casetta, parva sed apta mihi, la mia bella casetta per dare a mio figlio equilibrio e sicurezza, a me un po’ di tepore. Solo qualche giorno, coraggio. CORAGGIO. Posso farcela.. (ma una rumena… porc… )
Vado.
17 novembre 2009 – Mi stendo sul letto dell’hotel. Ce ne sono tre, di letti, in camera, magari ci infilano una terza, magari un’altra straniera. Magari una cubana. …. (Ma porca miseria… …)

Fa un bel caldo, tutto è pulito, c’è silenzio, e giù in sala pranzo ho intravisto bei tavoli, belle
tovaglie, belle stoviglie… bicchieri che luccicano, bicchieri a calice, come nella mia casa, come i miei cristalli… Tre mesi di nomadismo, quattro di tendopoli e ora questo….
Sono stesa sul letto e aspetto. Cosa aspetto? La rumena, ovvio. Rum… Rom… Dio non sarà una zingara spero… Ora ci penso io. Chiariamo subito le cose, che deve stare al posto suo. Mi guardo intorno, non c’è traccia di lei, ho guardato l’armadio e i cassetti e lei tiene tutto ben raccolto negli angoli, bene, l’ha capita, è bene intenderci subito, pochi giorni sì, ma che sia chiaro che comunque deve stare al posto suo, la rumena. Bene, ho visto che tiene le scarpe fuori sul terrazzino, bene, l’ha capita, la rumena, meglio che stia da parte ok? Mi esce il fumo dalle orecchie.. Sono qui, avanti, vieni, che aspetti? Dove sei? Che lavoro fai? Che ci fai qui all’Aquila? Come ti hanno dato quest’albergo? Come mai alloggi qui da settembre mentre io ero in tenda? COME MAI??? Sono proprio furibonda e lei non arriva.
Torno da cena, mi aspetto di trovarla in camera ma non c’è. Ah, cena fuori la signora, chissà dove, chissà con chi. La mia immaginazione corre e alimenta leggende metropolitane sulle rumene…
….
LA CHIAVE GIRA NELLA TOPPA.
E’ LEI.
Aspetto, sono pronta.
Non entra.
Sento bussare.
“Avanti!” dico spazientita.
Una giovane donna, alta, capelli lunghi, castani, aria tesa e preoccupata.
“Piacere, Luisa”.. “Piacere, Maria”
Resto zitta. Ha più paura di me. Meglio, così sta al posto suo. Tace. Neanche una parola. Bene, non mi piacciono le chiacchiere.
Qualche scambio di battute tecniche sulla gestione degli spazi, poi nulla.
“Posso spegnere la luce?” chiede.
“A che ora ti alzi?”
“Alle sette”.
“Bene, anche io. Vai prima tu in bagno, poi andrò io. Buonanotte.”
E fine del discorso.

18 novembre 2009 Sette del mattino. Dormito poco e niente, ma lei peggio di me, rotolava nel letto come una boccia da bowling. Ora è lì che parla al telefono, in rumeno, poche parole, scarne, una lingua dura che evoca antichi film in bianco e nero della Russia stalinista o che ne so, il perfido Rasputin. Letteratura. Succede anche quando sento parlare in tedesco, ma non mi era mai capitato di doverci poi dormire a fianco. Suggestioni, libri letti, storia, immaginario collettivo. Transilvania…Il conte Dracula. Erano meglio i cani di Mimmo. Chiedo: “Mangi in albergo a pranzo?” “No. Qui mi sento a disagio. Troppo lusso per me. Mi fanno dei panini, e li mangio dove capita”.
Qualche altro particolare, parla benissimo l’Italiano.
“In Romania non sarebbe mai accaduto tutto questo” mi dice mentre si alza.
“Tutto questo… cosa?…” sono pronta ad azzannarla, immaginando che sia una critica alla gestione dell’emergenza.
“Questo che è accaduto a me, che gli stranieri fossero trattati alla pari. L’Italia è un paese di grande civiltà”.

Fa la doccia, si veste, esce.

A colazione mi sento gli occhi addosso, in sala pranzo. Li sento, che mi guardano e pensano “ma come fa quella a dormire con una rumena?”. So leggere negli occhi e nei pensieri. Mi sento in imbarazzo, sono seccata. Qualcuno attacca bottone “Buongiorno signora, come va? … Da dove viene? Dalla costa?” Non mi va di dire che vengo dalla tenda. Quando ero sulla costa, all’inizio, la gente del posto si tappava il naso quando passavano gli aquilani. “Puzza di tenda” dicevano, una puzza che ti resta attaccata addosso per un sacco di tempo. Così bofonchio qualcosa e me ne vado, rispondendo un generico: “Vengo dall’Aquila”. Che sciocchi. Come se non fossimo tutti nella stessa barca.
Lei torna alle dieci di sera, più o meno. Stanca morta, si butta sul letto. “Ti senti bene?” butto lì. “Mi fanno male le ossa – dice – oggi ho lavorato tanto” “E dove lavori, se non sono indiscreta?” “Vado a servizio, cerco di lavorare più che posso, ho bisogno di soldi”. Le guardo le mani, rosse, screpolate. E all’improvviso Rasputin e Dracula se ne vanno al diavolo. E al loro posto resta una donna come me, che lotta come una tigre per avere un futuro migliore.
20 novembre 2009 Oggi avrebbero dovuto consegnarmi la casetta, ma ancora niente. Mi hanno chiamato, scala tutto di una settimana. In fondo non mi dispiace, qui si sta da dio. E alla sera Maria mi racconta la sua vita, a poco a poco. E’ molto riservata. In questi cinque giorni di condivisione abbiamo entrambe aggiunto parecchie tessere al nostro reciproco mosaico. Non è niente male. A parlare con uno straniero non ti senti mai invaso, né inchiodato. Me ne ero dimenticata. Ai tempi dell’università succedeva spesso, perché a Perugia c’è il passaggio obbligato degli stranieri, avevo vent’anni. Non c’erano slavi, però: soprattutto arabi e greci, e gli arabi dicevano tutti di chiamarsi Alì. Di quei brevi frammenti di dialoghi mi restano le stesse sensazioni che ho con Maria: un parlare con garbo, con gentilezza, senza che ogni cosa detta sia una sfida per dimostrare all’altro qualcosa di sé. Succede a vent’anni, e poi mai più: poi lo straniero diventa un concetto ostile, qualcosa che ti minaccia nelle tue sicurezze, a meno che… a meno che in mezzo non ci sia un terremoto che ti sbalza indietro di trent’anni, ai tuoi vent’anni.
Maria ha due figli all’università, un ex marito alcolista, un sogno di riscatto. I racconti più belli sono quelli della sua infanzia in campagna nei pressi di Costanza, con gli animali da fattoria. Mi racconta di Ceaocescu, di quello che è successo dopo la caduta. Maria sa discorrere di politica, legge il giornale ogni giorno, è molto più informata di me, che dal 6 aprile sopravvivo e basta, non leggo più e non guardo più la televisione.
Ieri sera, prima di spegnere la luce, mi ha chiesto: “Tu credi in Dio?” Così, a bruciapelo. “Noi siamo ortodossi” ha detto in tre parole, con una sintesi tutta pratica. “Le differenze con il cattolicesimo sono poche”. L’ho ascoltata parlare, mi mostra una catenina con un’immagine sacra e la mia testa vola, e mi sembra la scena di Orlando che disteso a terra col nemico pagano discorre di dio, della famiglia, dei figli…. Accidenti, maledetta letteratura, ti filtra tutto.
21 novembre 2009 Ho convinto Maria a scendere giù a fare colazione con me. Non voleva, ha fatto un sacco di storie, dice che non sta bene che io mi accompagni con lei. Per tutto il tempo ha guardato a terra o al massimo nella sua tazza con yogurt e miele. Ma si vedeva che era orgogliosa di stare a tavola con me. Voglio raccontare un po’ di lei a qualcuno oggi, mi va di dirlo a qualche amico… Lo so, lo so che mi diranno quello che già ho sentito qui dentro “non ti fidare, i rumeni dicono un sacco di bugie, hanno questa prerogativa: all’improvviso scompaiono, non li vedi più, e scopri che ti hanno detto un sacco di stupidaggini”. E’ un ritornello, me lo dicono tutti. Ma io non ci credo. Voglio fidarmi, voglio seguire il mio istinto. Scelgo io con chi stare. E scelgo lei.
Mentre finiamo la colazione le chiedo: “Ma perché resti qui, che tutto è distrutto? Perché non te ne vai? Affitto per affitto, perché non cambi città?” E scopro che è qui da dieci anni, che ha scelto questa città come sua città, che tra poco arriverà sua figlia, sta solo aspettando i documenti di equipollenza per la laurea. Quando parla di lei le brillano gli occhi. Studiare per Maria è molto importante, tiene molto all’istruzione dei suoi figli.
27 novembre 2009 E’ arrivato il momento, ho in mano le chiavi della casetta, devo andare. Due settimane sono passate, e di Maria so tante cose. “Ti telefono domani”.
Lascio sul comodino la crema per le mani, le sue mani rosse e screpolate.
Ci abbracciamo come due vecchie amiche, ma con una malinconia tutta nuova.
Una breve parentesi, non sappiamo cosa accadrà domani.
Maria ora ha le mie chiavi di casa. E ha anche quelle della mia amica Stefania e quelle della mia amica Cristina. E fa il suo lavoro in case dove la rispettano e le vogliono bene, qui, nella nostra città che rinasce.

La mia casetta è calda calda, sto rinfrancando il gelo della tendopoli. Ogni sera mi chiedo se Maria prende ancora l’ Okipirina, se ha ancora il mal d’ossa.
Il terremoto in pochi mesi mi ha disegnato sul volto dieci anni.
Ma dentro sono molto più giovane di prima.

 

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HO UNA PAGINA FACEBOOK

Ripropongo la lettura di questo brano dedicato ai miei studenti.
Il brano fu scritto nel giugno 2009, ma lo dedico oggi a tutti gli insegnanti che hanno un diverso parere in merito alla… “ ’ngicca”. La pagina si chiama “Quelli delle classi di”, che nacque da un’idea di Gianpaolo Tronca. Il gruppo esiste ancora, e Gianpaolo mi ha aggiunta agli altri amministratori.

Ho una pagina Facebook e io non sono neanche iscritta a Facebook.
Ho una pagina Facebook e io non so neanche come funziona, Facebook.
Ho una pagina Facebook, si chiama “Quelli delle classi di Luisa”, e io ‘sta cosa non me la spiego, non credo di meritarmela. Sono stata una brava insegnante?

Tanti anni fa, dopo una conferenza, conobbi, (mio malgrado) un grande professore, un’icona della cultura accademica aquilana.
Quando il detto luminare seppe che ero un’insegnante di liceo mi guardò dall’alto in basso un po’ schifato. Eh, non mi presento mai bene, in verità, alla cultura “ufficiale” (che? questa qui, un’insegnante di liceo?)
Dopo un attimo di silenzio pronunciò, soffiando e sbuffando, questa fatidica frase (immaginatevelo un po’ come il Padrino): “… mmmpffff… Veda Signorina… fffffh… Il professore… ffffffshhh… Il professore … (suspance) … il vero professore… TÀ FÀ LA ‘NGICCA!” (per i non-aquilani: “deve fare la ferita”). E fece platealmente il gesto di radersi una guancia: poi… ZAC! Un taglio secco, forte, deciso, mentre con l’altra mano si tirava la pelle e, storcendo la bocca, continuava a fissarmi con occhi affilati.
Guardai altrove, come un cagnetto a disagio.

La “‘ngicca”, per chi non lo sapesse, è la ferita del rasoio al primo taglio della barba.
Dopo il primo attimo di imbarazzo, sgranai gli occhi con ammirazione. In quella frase lapidaria c’era tutto: l’iniziazione, il sangue, il dolore, la crescita, il rito, il nerbo del vecchio maestro. Lo guardai estasiata mentre lui era ancora immobile nel gesto del sacro taglio, e nella mia mente percorsi, in pochi secondi, la lunga carriera di quell’Orbilio redivivo.
La ‘ngicca… Uh.

Io non sopporto la vista del sangue.
A scuola giro col rasoio elettrico, la schiuma emolliente e il dopobarba al pino silvestre per medicare le ‘ngicche che fanno gli altri.
Perciò ora mi chiedo: sono stata una brava insegnante?
Ma voi mi avete fatto un fan-club su Facebook, e questo qualcosa significa, qualcosa
DEVE SIGNIFICARE.
La prima volta che un mio alunno fu bocciato ho pianto mentre facevo il verbale. Lo avevo portato allo scrutinio con un maledettissimo cinque in Geografia e per colpa di quel maledettissimo cinque in Geografia, che si sommava ad altre insufficienze, Vincenzo fu bocciato. Che io non la so neanche, la Geografia. Ma si fa??? Mi ricordo che una lacrima cadde sulla pagina del verbale proprio sul nome VINCENZO e così mi misi a piangere ancora di più, singhiozzavo sola sola, ero giovane, troppo giovane. Con me si fermò il prof Balena, esterrefatto e visibilmente preoccupato per il mio stato emotivo. Eddai, non è professionale: la bocciatura fa crescere, fa maturare, fa diventare uomini. Fa indurire la barba, lo sanno anche i principianti! Per me invece è sempre stata UN DRAMMA. La ‘ngicca.
E questo fa di me una brava insegnante?
La gente dice sì-sì-ti-vogliono-bene-perché-tu-li-aiuti-e-li-fai-promuovere. La gente dice pure che poi nella vostra vita saranno più utili quelli che vi hanno fatto piangere e dare la testa nei libri, perché la vita è dura e loro ve lo hanno fatto capire. La ‘ngicca. E’ vero, ragazzi, cavolo, ma non ci pensate a questo? dovreste fare un fan-club a chi vi ha insegnato con la frusta, non a me, che non mi ricordo la data di nascita di Ariosto, né quella di pubblicazione della Gerusalemme Liberata. Io studiavo come una matta solo le cose che mi piacevano. Perciò vi chiedo: questo fa di me una brava insegnante?
Ho sempre preteso molto dagli alunni bravi: con loro ero esigente e severa. Dedicavo invece tutta la mia comprensione e la mia pazienza a quelli di voi che faticavano ad andare avanti, i più esuberanti, quelli che non riuscivano a stare seduti. Mi ricordo le sensazioni di quando correggevo i loro compiti, cercavo di fare dei segnetti rossi piccoli piccoli, mi dispiaceva ferire il loro amor proprio segnando frasi in cui avevano messo una confidenza, un pensiero, una riflessione. Pensavo che al posto loro, all’idea di trovare le croci di Sant’Andrea sul foglio, non avrei più scritto un rigo in vita mia. E la scrittura è coscienza, è consapevolezza.
Dai bravi invece volevo sempre di più, a loro sì che li facevo, i segnacci, e li obbligavo a prendersi in carico quelli meno bravi, li tassavo per aver avuto il privilegio (per qualsiasi motivo) di essere bravi. Speravo in una “coazione a ripetere” nel loro futuro, perché sapevo che avrebbero occupato le stanze dei bottoni.
E come si fa a fare l’insegnante così, facendo la ‘ngicca a chi non se la merita?

Però voi ora siete qui, e soprattutto, a quanto mi dicono, proprio quelli “bravi”.
Gianpaolo è stato nella mia prima classe statale, 1987. Aveva l’aria da grande, era come adesso: uno humor adulto, lo sguardo sereno di chi ha una strada da fare, di chi al Luna Park, nella casa dei fantasmi, resta sul binario e guarda la luce in fondo. Spesso facevo qualche battuta e ammiccavo, e lui sapeva giocare, ci divertivamo un sacco. Quando l’ho rivisto dopo vent’anni mi ha recitato la cantilena “un, nessun, buon, tal e qual non vogliono mai l’apostrofo!“.
Ero fissata con la scrittura, l’ho sempre trovata salvifica nella vita di un uomo, vi facevo scrivere tanto, anche in modo sgrammaticato, non mi importava granché, a quello ci si pensava dopo, un tema alla settimana, in genere si leggeva in classe il lunedì, e poi altra roba e poi concorsi scolastici di poesia, di favole, scrivere scrivere scrivere! Mi sentivo il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie. E sbancavate tutto, vincevate tutti i concorsi, ti ricordi Gianpaolo, un anno avete vinto una decina di premi! Mi ricordo le deliziose poesie dei Cantelmi, tutti i vostri temi, la vena polemica di Luca, tutti i vostri racconti, perfino quella bellissima favola di Luca Vallera su una bambola di pezza, che vinse il Premio Unicef. Cavolo. Avrà più scritto una favola in vita sua, Luca Vallera?
La gente diceva che ero io a dettarvi le cose, ma voi lo sapete bene che io leggevo e mi divertivo, non toccavo niente, lasciavo le cose come stavano, al massimo mettevo qualche virgola e correggevo l’ortografia. Ma tutto restava com’era, a lasciare intatta la neve fresca senza passarci sopra con i piedacci zozzi di fango…
Mi sentivo parecchio in colpa sapete… Avrei dovuto fare tutti quei test, avrei dovuto studiare le date una volta buona, e anche le opere minori, e anche i memorialisti (e chi sono i memorialisti?), chessò un po’ di Tacito, un po’ di Livio … Invece pensavo solo alla poesia… Catullo, scommetto che ve lo ricordate ancora a memoria in latino.
Molto spesso, invitata da voi ad aprire il cassetto della cattedra, invece della classica ranocchia, vedevo saltar fuori un mazzo di fiori colorati. E una volta ci trovai una targa d’argento con su scritto: “Capitano mio Capitano…”, che ho salvato dalle macerie e che porto sempre con me. E vi rivedo tutti, proprio tutti, che mi guardate con quegli occhi indescrivibili.
Il miracolo è che dopo venticinque anni cambiano i visi, ma non gli sguardi.
Io non lo so perché succede tutto questo, non me lo spiego.
Forse perché vi sognavo come potevate essere, e i miei sogni vi piacevano.
Forse perché vi facevo sognare il mare…(“Se vuoi costruire una nave, non frustare i tuoi uomini, piuttosto insegna loro il desiderio del mare, immenso e sconfinato… “)

Ho una pagina Facebook.
In realtà un bravo insegnante non va ricordato, né con odio, né con amore, un bravo insegnante va dimenticato, perché ti entra dentro l’anima e diventa una parte di te inconsapevole, quella parte bella che viene fuori davanti alle difficoltà, quella “tigre” che ti spinge a lottare quando non ce la fai più, a scandalizzarti, quando vedi le cose
storte, a dire questo è giusto e questo no. Non ti vincola al ricordo, né alla gratitudine, fa solo il suo mestiere.
Un bravo allievo, poi, è quello che tu insegnante non ti ricordi più, né con orgoglio, né con disprezzo, un bravo allievo è quello che fa il suo lavoro in silenzio ed umiltà, senza pretendere troppo né da te, né da se stesso o dagli altri. Non ti vincola alla responsabilità del successo o del fallimento: nella foto di classe si mette da un lato, e quando la guardi dici: “Ma chi era questo?”.

Nonostante questo, io mi ricordo di voi.
E voi vi ricordate di me.

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CRONACHE COSTIERE

Premessa al lettore: questo testo fu scritto il 1 maggio 2009, all’indomani del terremoto del 6 aprile. Fotografa la condizione di chi lasciò la città per recarsi ospite negli alberghi della costa. In particolare, riproduce la difficile situazione di conflittualità che venne a crearsi allorché gli aquilani che scelsero di restare in città, nelle tendopoli, iniziarono più o meno velatamente a rimproverare i concittadini che avevano scelto di farsi ospitare negli alberghi. Chi scrive cerca di conciliare le due posizioni, mettendo in evidenza il comune stato di precarietà.
Il testo ebbe una certa risonanza nell’immediato: uscito su un giornale on-line sul quale non è più reperibile, ottene centinaia di commenti, fu stampato, fotocopiato, esposto, letto a teatro. Anche questo testo, come altri miei, perse il nome dell’autrice, e divenne voce della gente. E di questo fui felice.

Montesilvano. Francavilla. Roseto. Pineto. Tortoreto. Alba. Metteteci quello che volete.
Esco dall’albergo, settimo piano di una torre gemella.
La notte è andata maluccio come sempre, ogni porta che sbatte un sussulto, ogni treno che passa il cuore che salta. Ma esco.
Mi sento sporca, in disordine, ho la testa confusa, non ho voglia di dire buongiorno in ascensore.
Sette piani di nulla.
Non mi preoccupo, la gente che è lì è uguale a me, non serve parlare, non diciamo nulla, zombie sfollati, solo zombie sfollati.
Abbiamo le stesse facce, lo stesso sguardo. Qualcuno telefona ai parenti. Bisbiglia… “Come va?..
Sì, noi tutto bene.. Ha rifatto stanotte? No, qui non si è sentito, tutto tranquillo. Sì sì, in albergo, serviti e riveriti… Non vi preoccupate.”
Serviti e riveriti, sì. Si sa che l’ospite è come il pesce… (Oddio, no… il
frigorifero… la corrente è staccata… cosa ci sarà nel mio frigorifero? Quando potrò tornare ad aprire un frigorifero?)

Parto dalla costa, dal mare ai monti dove lei si innalzava, antica e maestosa.
L’Aquila sembra Danzica, Sarajevo… (immagini televisive del passato… che guerra era… che anni erano, che succedeva, CHI ERO).
Vado verso quella che era la casa dove abitavo.
Passo per Via Strinella, gli occhi fissi per non vedere le case tagliate, i posti di blocco, le tendopoli. Le tendopoli… le tendopoli… le tendopoli…
Il moncone del nostro Torrione sembra una matita spuntata.
E’ piegata. In ginocchio.
Non ha più lo sguardo minaccioso di madre severa.
Non voglio vedere. Voglio vedere il mare.

Il mare oggi è nero. Mare nero… (Lucio Battisti, l’adolescenza, i portici, le vasche, le colonne).
Flash back. Quando mio cugino tornava all’Aquila da Modena, in tiro come ‘Ntoni Malavoglia di ritorno ad Acitrezza, passeggiavamo insieme, felici, sotto i portici. Ogni tanto ci fermavamo a salutare qualche amico. In genere era appoggiato alla colonna, fermo come Belacqua, e sempre il dialogo era lo stesso:
“Oè!…”
“Oè…”…
“Mbé?… “
“Mbè?….”
“Quanno sci rrevenuto?” …
“Ieri” …
“Ah… E quanno te nne revà?”…
“Domani”…
“Ah. … … So’ contento”.
Che non sapevi mai se era contento che eri tornato, o che te riandavi.
Forse più la seconda.
Perché l’aquilano resta all’Aquila, sempre.
E chi se ne va dall’Aquila, tradisce…

L’albergo è bello, un quattro stelle, è un peccato che stiamo qui a lavarci i calzini nella doccia. Gli albergatori, poverini, non capiscono. Ci prendono per turisti. I primi giorni ci mettevano il cibo nei piatti dicendo “Se non vi piace c’è sempre la tenda”.
Altro che serviti e riveriti…
Ma vada per questa camera di decompressione, pur di vivere altre notti come quelle (NOTTI DI TERRORE, NOTTI IN MACCHINA, NOTTI IN STRADA, NOTTI IN TENDA….)

Tenda, boy scout, adolescenza, anni Settanta, i panini a Specchio, papà che mi faceva assaggiare il vino frizzante con la gassosa.
La piscina, le gare, Bultrini, Marino Bon che mi guarda dall’alto del muro del campetto di cemento e mi dice “Vieni-su-che-ti-voglio-insegnare-io”
(Non voglio dimenticare niente, niente…)
La grotta con le aquile, Roio, la tana dei lupi nella pineta, i tramezzini di Scataglini, i panini de Ju paninaro col tonno e i sottaceti. NON VOGLIO DIMENTICARE IL FREDDO. Al meteo della RAI, sempre “L’Aquila non pervenuta”, quanto ci faceva arrabbiare…

Il mare è diverso. E’ caldo e accogliente.
Sembra minaccioso, ma in realtà ti rassicura.. va.. viene… ONDE… ONDE.. onde…
Lei ti respingeva. Come una madre severa ti guardava dall’alto, sempre.
E lui, Il Grande Sasso, te lo vedevi svettare a ogni angolo come un carabiniere al posto di blocco. Un cerchio di montagne e gli aquilani che cercano varchi d’uscita da sempre, ma solo per finta. In realtà il chiuso gli sta bene.
Lo straniero si crede più di te, ma lui non sa scalare, non conosce il passo della salita.
NON CONOSCE LA FATICA.
NON CONOSCE IL SILENZIO.
Non conosce la stasi del falco.

Madonna Fore, il Vasto, la scampagnata di Ferragosto, Toni Sopra, Toni Sotto, La Standa, Il Cinema Olimpia.
Le Cancelle. Sposta le Cancelle, rimetti le Cancelle.
VOGLIO RICORDARMI TUTTO QUELLO CHE GIA’ NON RICORDAVO PIU’ E CHE ORA COL TERREMOTO RICORDO DI NUOVO.
Il primo amore, i sogni, la fuga all’università, tutti gli aquilani veri tentano la fuga all’università, ma anche quella è finta, serve a tornare per scelta, serve a dire “io potevo anche andarmene ma sono qui”.

Eravamo riusciti a ricreare quello che cercavamo altrove: la vita il fermento i pub il movimento lo scambio. Avevamo studiato tutti fuori, negli anni Ottanta, Roma Perugia Bologna Milano: ognuno aveva riportato a casa un pezzettino di metropoli, e ora lei era proprio bella, proprio come l’avevamo sognata per i nostri figli. Ora lei era perfetta. Perfetta.

“Come te rammetti?” (Chi fuor li maggior tui?)
Avvocati, figli di avvocati, nipoti di avvocati, dinastie di avvocati.
E così notai, dottori, medici, imprenditori. Dinastie di costruttori.
Sotto i portici loro non passavano .. sfilavano!
Ma càla da ‘ss’arbiru de cici!!!…” (di ceci).
Pasta e ceci, Le Tre Marie, la pecora alla cottora, il salame “appiccato” in cantina, la iattarola alla porta. Mio nonno nella vigna, spietrata sasso a sasso per quanto lì la terra è cattiva..
Mirycae.

Inizio a scendere, manca poco a vedere il mare.
Il pino marittimo svetta, scompigliato dal vento.
Qui la terra è fina come la farina, pianti un seme e lui cresce: olio, vite, perfino le palme.
Lei invece era dura, dovevi strapparle la terra per coltivare.
Terziario, università, casa dello studente, casa dello studente, terremoto.
Maria Grazia, Ezio, Susanna.
TRECENTO (giovani e forti e sono morti). Cantilene dell’infanzia.

“Dovete tornare dal mare prima o poi! dovete tornare, che fate ancora lì?”
Dignità, non piangete, siamo aquilani. SIAMO IN MISCHIA, l’aquilano mette la testa dove gli altri non metterebbero neanche l’unghia del piede. NON DOBBIAMO PERDERE UFFICI, CENTRI DI COMANDO, NON DOBBIAMO MOLLARE O LA MADRE MUORE. Non vogliamo fare quelli del Sud che aspettano aiuto, diamoci da fare, siamo aquilani.
Ad reprimendam audaciam aquilanorum“,è scritto.
Ma io non ne ho più, di audacia. Lasciatemi piangere in pace.
Voglio solo andare in centro, vedere la casa dove sono cresciuta…

Posti di blocco, presìdi militari, stranieri che mi impediscono di passare, non capisco la loro lingua, non hanno la nostra voce, che ci fanno qui, perché la mia città è presidiata, perché????

Faccio il giro. Torrione… Colle Sapone, contrada Camerini. Mi sembra ancora di vedere Libero che torna a casa… Libero, il crupié, la mascotte cittadina… Macchina del tempo.. Radio L’Aquila, Stefano Vespa e le cronache del Rugby, Andrea Fusco, Giampo Spada, Toni Lo Cascio. Via Accursio, Via Bominaco…. niente. Solo la devastazione.

Siamo in hotel, serviti e riveriti.
Gli amici di fuori mi telefonano, stanno in tendopoli, vogliono vedermi e io non ci sono, perché io sono al mare a scrivere le cronache costiere. Si stupiscono.
Tornano tutti, anche quelli che sono partiti scrollandosi la polvere dai sandali.
Volevano fare i notai, i giudici, gli avvocati, i medici, i costruttori.
E senza dinastia hanno dovuto andarsene, ora parlano straniero, ma l’aquilanità gli resta attaccata addosso, e tornano.
Stefania da Roma, Chiara da Barcellona, Laura da Washington, Massimo da Manerbio. Perfino gli aquilani adottivi, quelli che ci sono passati e l’hanno amata, tornano. Non possono fare altro che tornare, vedere, toccare, cercare con gli occhi i loro pezzi di porto sepolto.

Ma sì ragazzi, tocca a voi ora. Noi, lasciateci andare.
Non ce la facciamo, tocca a voi, la madre ha bisogno, restate.
Restate almeno fino all’inverno, sarà un inverno freddo e allora voi partirete, tornerete a casa perché una casa ce l’avete. Invece noi saremo qui, come sempre. Presidio alla fortezza Bastiani. Restate voi, per ora.
Lasciateci ancora un po’ qui, davanti al mare.
A piangere i trecento morti, e i muri, e i sassi delle strade.
Lasciateci appoggiati alla colonna, le mani in tasca, l’aria spagnola… Quanno sci rrevenutu? – Ieri… – Ah… E quanno tenne revà? – Domani… – Ah. So’ contento…
Sì. So’ contento.
Proprio contento.

(Montesilvano, 1 maggio 2009)

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