SUI PROBLEMI GIOVANILI: IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI

 

Difficile riflettere, in assoluto, sul mondo giovanile, ma quanto più difficile in una realtà particolare come quella nostra aquilana. I giovani aquilani, loro, quelli che “poverini”. Diciamo loro “poverini”, ma non hanno lo sguardo implorante del cane randagio: anzi si offendono, si ribellano. A scuola leggo i loro occhi e i loro comportamenti, su Facebook i loro pensieri: e sono pensieri di normalità, di serena accettazione dell’ineluttabile. Gli adulti si dannano, costruiscono scenografie finte, cercano di nascondere le macerie sotto al tappeto. Loro invece chiedono solo di “esserci”, essere vicini alle loro madri confuse dal disordine di un numero spropositato di traslochi, ai loro padri sbattuti dalle difficoltà di un’emergenza lavorativa e familiare che non si decide a finire.

I ragazzi vogliono “esserci”, stare lì, presidiare, presenziare, come a voler adottare a (debita) distanza i loro adulti provati. Ci sorvegliano, ci spiano. Spiano il nostro disperato tentativo di passare da una città capoluogo di regione alla più infima delle periferie di quartieri dormitorio. Ci guardano, ci assecondano, delusi dalla nostra incapacità di credere che loro, in quanto giovani, possano capire. Pur di starci vicini si fingono ottusi, fanno i buffoni, dicono stupidaggini per farci ridere o marinano la scuola, come facevano prima, come se fosse normale, come un tempo. Ma sanno perfettamente che nulla è come un tempo, per noi adulti.

Noi vorremmo che almeno i più grandi se ne andassero, “qui non c’è futuro, andate a studiare fuori, fate la vostra vita lontano da una terra che ci ha traditi!”. Il nostro passato disneyano ci ha portato a credere di doverli difendere nascondendo, oscurando. E loro ci guardano con quegli occhi distaccati e un po’ ostili che sembrano dire “fammi partecipe dei tuoi problemi”. E noi lì a fingere, a nascondere. Vogliono vivere le nostre preoccupazioni, vogliono essere inclusi nei nostri pensieri. Sono cresciuti tanto, in questo anno e mezzo.

Il fatto è che noi adulti siamo sempre stati assillati dalla questione dei traumi. “Evitare i traumi” è stato il motto della nostra generazione. Mi viene in mente il ricordo di una mia cara amica: anni fa, quando morì suo padre, tentò di preservare il figlioletto di cinque anni dal dolore, così sostituì tutte le foto che aveva in casa in cui erano ritratti nonno e nipotino. Entrare in casa e scoppiare a piangere, per il bambino, fu un tutt’uno. Disse: “E no, mà!…. E fammelo ricordà, nonno!”. Il lutto si elabora toccando, guardando, vedendo quello che non c’è più. Anche loro, se la vogliono ricordà, L’Aquila. “QUANTA FUIT, IPSA RUINA DOCET”: le rovine dimostrano quanto la città fu grande. Invece noi facciamo di tutto per nascondergliela, fingiamo flessibilità e abitudine alle no-town. Come tanti ridicoli Fantozzi diciamo: “Sentito niente!”. E ogni volta loro si preoccupano per questo fingere, sentono, intuiscono dentro di sé che sotto c’è qualcosa di grave.

Quest’anno non vorremmo fare l’occupazione”, mi dicono due studentesse candidate al il Consiglio di Istituto, illustrandomi il loro programma. “L’occupazione contro i tagli della Gelmini, sì, è ok per il resto d‘Italia, ma noi qui abbiamo altri problemi: noi vogliamo sette giorni per fare altro. Per rivivere la città, comunque sia diventata. Vogliamo girare la zona rossa con la guida turistica: i forestieri possono farlo e noi no? Vogliamo la storia delle case, delle chiese, dei palazzi, dei cortili. Vogliamo studiare. Vogliamo qualcuno che ci spiega il passato. Vogliamo capire cosa ha spinto gli antichi a restare, cosa spinge ora noi a non andar via.” Fabrizia e Michela hanno la forza e la capacità di dare parole al loro dolore. Propongono, dicono, chiedono. Gli altri ragazzi magari non ci riescono, si godono un po’ il piacere del vittimismo, o restano chiusi nel consueto mutismo adolescenziale. Ma la loro non è apatia: è l’unica forma di reazione che gli abbiamo concessa, quella di non rompere mentre noi (non) prendiamo decisioni. Capisco bene, avevamo sognato per loro un futuro diverso, dicevamo “quando andrete all’Università” dando, come scuola, una prospettiva allettante, un futuro di emancipazione, di conquiste e di divertimento. Ma è vero, la storia continua, loro si adattano, non sono legnosi come noi.

La cosa più strana è vedere ora la gara di solidarietà di tanti Enti Nazionali per i “giovani aquilani”. Piovono corsi di legalità, di anticorruzione, antimafia, come se avessimo già delegato i giovani a ricostruire domani, invece di pensare a quelli che (non) stanno ricostruendo oggi. I ragazzi ridono, almeno quelli grandi. Gli parliamo di mafia e di corruzione, ma il messaggio che arriva a loro è: “Ora è così, ma non lo non lo fate anche voi, quando sarete grandi!”. E diamo loro la sensazione che la insostenibile responsabilità della ricostruzione sia la loro. Ma non si apprendeva con l’esempio? L’esempio dell’adulto non era l’unico elemento che metteva d’accordo tutte le pedagogie? Non era l’esempio che in-segnava (lasciava un segno dentro) come comportarsi domani?

E che dire di ciò che piove fuori dalla scuola? Nella buca della posta, dacci oggi il nostro fascio quotidiano di pubblicità di ogni tipo per il target giovanile, dal corso di ocarina a quello di meditazione zen. Sento madri che tirano fuori dal mazzo di volantini quello più colorato e poi, con scarsa convinzione, si rivolgono ai figli: “Ummmh…Corso da cheer leader… Ci vuoi andà?”. Silenzio. Al massimo, un grugnito.

I giovani sono stanchi dei corsi. Hanno bisogno di incontrarsi, di parlare liberamente, di sfogarsi senza moderatori. Sono stanchi di giocare con noi a “guarda l’uccellino”. Vogliono starci vicini, vogliono che noi adulti troviamo un modo per vivere, anzi per sopravvivere, in qualche modo, a questo disastro. E che condividiamo con loro il nostro dolore, la nostra sfiducia di orfani.