LA PAROLA E’ DONNA

INTERVISTA DI ROBERTO CIUFFINI A LUISA NARDECCHIA

Questa intervista è stata realizzata dal giornalista Roberto Ciuffini in Piazza Duomo all’Aquila, in occasione della presentazione al pubblico del numero di Leggendaria dedicato alle donne-scrittrici aquilane, dal titolo “TERRE MUTATE”, nel maggio 2010. L’intervista fu realizzata da Roberto Ciuffini per incarico di un giornale on-line sul quale non è più ora reperibile. Viene riportata qui fedelmente.

ROBERTO: Come ha scritto il direttore di Leggendaria Anna Maria Crispino, le donne sono state protagoniste quotidiane della ripresa della vita dopo il terremoto. E anche ora, a distanza di un anno, continuano ad esserlo (basti pensare all’alto numero di donne presenti nei comitati). Parafrasando Nuto Revelli, sono state e continuano ad essere “l’anello forte”. Perché, secondo te? E’ una questione biologica, di genere o cosa?
LUISA: La ripresa della vita “normale” è stata prevalentemente realizzata dalle donne, è vero. Ma non insisterei troppo su questo aspetto, anche se a lui ho dedicato uno dei brani più amati del dopo-terremoto. Si corre infatti il rischio di generalizzare e di relegare le donne ai lati spiccioli dell’esistenza, alla quotidianità. Il grande valore che io intravedo nel mondo femminile è l’energia, la vitalità. Il vero “anello forte” è la parola, che è anche coscienza. E la parola è donna: spesso davanti al disastro gli uomini hanno bisogno di silenzio, di raccogliersi e di guardarsi intorno. Le donne invece devono immediatamente dare un nome alle cose per capirle, e lo fanno parlandone, confrontandosi. Ma è chiaro che si va incontro a grossolane generalizzazioni.
ROBERTO: Tu personalmente dove e quando hai trovato la forza e il senso per scrivere?
LUISA: La scrittura è sempre stata, per me, un momento importante di coscienza e di realizzazione personale. Ho sempre scritto nella mia vita, anche se soprattutto pubblicazioni scientifiche e saggi. La scrittura narrativa mi deriva dal mio essere stata una grande lettrice: e spesso a un grande lettore succede che vivere una situazione si traduca in un dejà-vu di immagini lette in mille altre forme, su mille altri libri. Quello che si scrive rimanda sempre a cose che già risuonano dentro di noi, cose assimilate nel tempo, che riemergono in altre forme, in altri contesti. Dopo il terremoto la scrittura si è posta come “medicina doloris”, per me e per chi mi leggeva. Riuscivo a dare voce a tanto magma emotivo collettivo. Poi sono passata alla scrittura come documentazione e impegno civile. Sicuramente la scrittura narrativa è la forma di espressione più affine al mio modo di essere: la forza e il senso derivano dal bisogno impellente di farlo.
ROBERTO: Le testimonianze raccolte in questo numero di Leggendarie vogliono essere anche una risposta a tanta cattiva letteratura e a tanta disinformazione prodotte in questi mesi sull’Aquila?
LUISA: La scrittura letteraria è un modo di informare diverso da quello giornalistico: viaggia su onde anomale, e non ha lo stesso pubblico. I lettori di giornali spesso snobbano questo modo di raccontare le cose, lo considerano romanzato, infarcito di roba inutile. E invece un racconto letterario “taglia” le cose nella loro essenza, ha un modo diverso di dirle, ha ritmo, ha musica, veicola il messaggio attraverso altri recettori che il puro raziocinio. Il grande miracolo della scrittura letteraria è di non proporsi mai nulla: non convince, non scandalizza, non spiega, non documenta. Ma al tempo fa molto di più: ti cambia prospettiva, ti fa diventare “altro” da te. Quella di Leggendaria perciò è una scelta precisa, capace di coprire un aspetto dell’informazione sul terremoto certamente diverso da quelli finora usati. Tra i due estremi del documentario di parte e del personalismo autoreferenziale dei blog, la scrittura narrativa scelta da Leggendaria può fornire la tessera decisiva del puzzle.
ROBERTO: Secondo te non c’è l rischio che, come abitanti di questa città, finiremo per percepirci come comunità solo in nome della tragedia che ci ha colpiti?
LUISA: Magari fosse. Magari ci potessimo sentire”comunità” in nome della tragedia. E invece corriamo il grande rischio della dissoluzione: lo spopolamento da un lato, la lotta intestina per la gestione della ricostruzione dall’altro. In buona sostanza, c’è chi se ne va, e c’è chi resta a litigare sul come restare. Se riusciremo a superare questi due grandi pericoli, la nostra comunità si salverà e avrà un futuro. Ma per farlo è necessario un grande senso civico, una grande umiltà, una grande praticità, e secondo me c’è bisogno anche di grandi leader delle parti, leader che si pongano come punti di riferimento e che siano capaci di anteporre a tutto il bene della comunità.

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