PREFERISCO VIVERE

E poi arriva il giorno in cui Bibi ti fa quella domanda.

Bibi era di quelli che a scuola, quando alzano la mano, non sai mai se stia per arrivare una carezza o una granata. Giovanissima, non riuscivo ancora a dire “non lo so”, e lui fu tra quelli capaci di insegnarmelo.

E Bibi, giorni fa, mi scrive quel messaggio: “E se nel tempo fossimo più bravi a distinguere e, purtroppo, meno avvezzi a vivere?”. Sorrido, quando leggo. Mi sembra di vederlo con la mano alzata, come allora. Ma non è più così, ci leggo dentro non più soltanto un dubbio, c’è pure una sorta di cura premurosa.

Ed io la trovo una domanda naturale, giusta e vera: è un po’ la scelta degli antichi tra otium e negotium, il pendolo che oscilla tra Narciso e Boccadoro. In più, c’è pure quel “fattore Tempo”, che crea una tensione.

E’ che chi ama le poesie va a guardare dietro la corteccia delle cose, ne cerca le corrispondenze, a dirla con Baudelaire. E a volte sceglie di raccontarle agli altri, anzi a tratti è il solo modo di guardare il mondo. Un po’ schizoide, ma non disadattato, né disadatto a quello che tu chiami “vivere”. Certo, spesso si crea un po’ una scollatura tra l’osservare e il fare, ma non dipende dall’età, o dal Tempo.

Quando sei giovane, e scegli di non essere scontato, ma a prezzo intero, anzi maggiorato, spesso ti astieni: ti frena la paura, il terreno minato. Ma con l’età – che meraviglia! – ti butti a capofitto, non te ne frega, sei forte, ed hai già dato, non devi dimostrare niente. E se a volte ti va di giocare un po’ con le parole, per regalarle agli altri, allora il pensiero ti si formula già scritto, già “parlato”, già mette in fila le parole solo, e le fa suonare…

Insomma, è come tenere acceso un fuoco da vestale, una fiaccola davvero poco pratica, se intorno a te gli altri hanno una bella torcia a LED in mano. E’ un mondo che, per risolvere i problemi, applica regole standardizzate.

Ma l’Arte no, l’Arte ti insegna che ogni problema è un tema. Ed io vorrei tornare a quel Petrarca che vanta la supremazia dell’umanista, ma non si può, né tornerà mai. Però sta a noi tenere in vita la magia che sta nell’osservare, e – quando si può – nel regalarlo agli altri.

Possiamo vivere alternando quella torcia a LED al fuoco: guardare con occhi sempre nuovi e, quando ti si offre l’occasione, comunque dire sì, a piene mani, in ogni forma. Se distingui, e se racconti quel che pensi e vedi, come anche tu fai, in modi diversi, Bibi mio, non significa essere un voyeur affacciato a una finestra: se descrivi, è proprio perché vivi intensamente. Ti fermi, e guardi. E fai fermare gli altri, perché guardino anch’essi.

Ma su una cosa devo darti atto. Bisogna vigilare: Narciso ti rovina, e Boccadoro deve riposare.

A volte distinguere diventa un vizio assurdo, comporta straniamento. Diventa come i social, e crea una dipendenza.

Allora lì, come Pubblicità Progresso, devi esser pronto e devi saper scrivere: “Ora vi lascio: preferisco vivere”.

 

LE PAROLE SONO IMPORTANTI

8 Marzo 2020

“Le parole sono importanti!”

La sequenza di Palombella Rossa mi torna in mente sempre, quando arriva l’otto marzo. Troppe parole si mescolano dentro un calderone, creando una grande confusione. Io ci darei un taglio.

Se guardo le ragazze, non è cambiato tanto, non quanto speravamo noi. La donna resta una creatura che ancora nasce e cresce dentro pochissima fiducia. Si sa che è forte. Però non abbastanza da non doverla difenderla dai lupi. E’ intelligente. Ma mai abbastanza da non doverla proteggere dai furbi. Sa sentire, ma questo suo sentire straordinario a volte offusca il raziocinio.

La vecchia storia dell’allodola di Ibsen, non è così lontana: ogni volta che una giovane si sente protetta, tutelata, elogiata per le sue doti di squisita bellezza delicata, lei sta al gioco, e – come dice Ibsen – bamboleggia. All’inizio le sembra forse un’arma, ma alla lunga le si ritorce contro, la farà sentire inadeguata. Non sarà mai abbastanza, ci sarà sempre qualcosa che le manca, senza qualcuno che la possa tutelare, proteggere, guidare. O che la sappia arginare, contenere, tanta è la forza che sente traboccare.

Certo, ora alle donne vengono riconosciute nobili e straordinarie doti… “Però”. C’è sempre quel però. E quel però vuol dire spesso che non sei capace. Da piccola è un dai, spostati, faccio io. Ma ti confonde questo strano modo, non ha un nome, lo scambi per premura. Poi cresci, e la profezia ti si autoavvera: non sei più capace! Per esempio, non sei più capace di uscire da una gabbia, mistificando la parola “amore”. Non sai chiamare più le cose con il nome giusto! E le parole sono importanti.

Forse non sai più stare da sola, forse non sai prendere in autonomia le decisioni, forse non sai cambiare una gomma, né una lampadina, forse non sai pagare una bolletta, non sai gestire i soldi in banca. Troppe volte lo sguardo che una donna legge negli occhi di chi incontra dice: ma questa dove va?… così vestita… così troppa… così  poca… così sola…così accompagnata. E altre amenità che qui tralascio per decenza, ma che hanno un gran peso su di noi. E questo –vero o falso – è spesso il  nostro percepito.

Ma se la vita, nel gettare i dadi, un giorno le butta su una strada, quelle stesse donne, dopo il primo momento di disperazione, capiranno che non era vero. Sei capace. Sei meglio. Sei di più. E quando – mannaggiatté – ti viene da fare un passo indietro è solo perché noblesse oblige, sei come il Gladiatore nell’arena, che non sente la folla che si sbraccia perché vuol vedere il sangue. Giocano a un gioco a cui non vuoi giocare. Te ne vai via, gli lasci perfino il tuo pallone. Una rinuncia che pagherai cara, ma la fai, non per “servizio”, né per “dovere” (le parole sono importanti): è perché competere ha un prezzo troppo alto.

Le parole sono importanti, e quelle che si scrivono sulle donne, le più popolari, quelle che girano sui social, da noi stesse condivise allegramente, spesso sono scritte da uomini. Deliziosi, per carità, carini, grazie, apprezziamo veramente. Tuttavia, è un punto di vista che risiede “fuori”. E’ come scrivere qualcosa sulla fame, senza averla mai provata. Come dover descrive un colore, e non avere mai avuto occhi. Ne risultano sprazzi di realtà: tipo che se una donna si mette un vestito a fiori, si scorda che ieri le hanno fatto un occhio nero. Che se va dal parrucchiere si scorda dello sguardo da cretino del tizio che al parcheggio le ha guidato la manovra. O del capo che la vede pronta a metterlo in ginocchio con una gravidanza. Un po’ di rossetto, una vaschetta di gelato, un vestito nuovo, e riparti! Riparti, sì, e questa è la forza delle donne: ma questo è un ripartire che non guadagna mai terreno. Una bambina che con poco si consola.

Quando a sera quella gonna a fiori te la levi, quando al mattino i capelli son tornati quelli lì di sempre, ritorna pure quel sentire disgustoso di non essere capace, o d’essere sbagliata.

Ma c’è una parola che può far giustizia a tutto questo, una parola antica, bellissima, piena di poesia, che  voglio rilanciare come “taglio” da dare a questa festa: sorellanza. Vuol dire fare fronte comune, solidale. Una sorella, quando ti sostiene, non ha mai lo sguardo deficiente che sottintende che non sei capace. Lo sguardo di sorella non conosce invidia, si astiene dal giudizio, è quello che tacito ti dice: ce la fai, la mano che ti do è  per mostrarti “come”.

Quante sorelle abbiamo? Penso alle mie: sorella mi è Stefania, mia mentore lontana ma vicina. Emanuela, quando mi dice eddai, mettiti una cosa colorata! Mia sorella è Tukkia, che m’insegna a non sapere mai quanti anni abbiamo. Non so e non posso citare tutte le mie sorelle, e me ne scuso, sono troppe, ma voi donne che leggete adesso, fatevi un regalo: contate quelle vostre. Scegliete di essere sorella di qualcuna. Trovate oggi per un’altra un sorriso: all’ufficio postale (ciao Maria!), al supermercato (cia Manù!), in un negozio, in banca, a scuola. Lo sguardo bello di sorella non conosce invidia, non sa la gelosia. Ognuno cresce solo se sognato, dicono i poeti. E la sorella ti sogna come in realtà già sei, ma ancora non lo sai.

POST SCRIPTUM: A onor del vero, vorrei aggiungere una piccola postilla. I generi, in realtà, son tre. I primi due li conosciamo tutti. Ma poi c’è un Terzo Genere, il cui nome deriva da parola longobarda (le parole sono importanti). La parola è strunz*: così, senza vocale finale, anzi con quello che in linguistica si chiama lo schwa. Può essere una “o”, oppure una “a”. E’ un genere “trasversale”. E vi appartiene chi, assetato di potere o di supremazia, per emergere, affossa qualcun altro. Attenzione, non siamo più in ambito cromosomico, si tratta di un fatto prettamente culturale. Perciò, maschio o femmina che tu sia, se incontri il Terzo Genere, quello trasversale, maschio o femmina che sia, non ci cascare, quando cercherà di farti sentire sbagliato. Non lo sei, è solo che… è strunz*! Ho cercato un altro termine, ma non c’è. Le parole sono importanti.

 

L’AMORE AI TEMPI DEL NASO

“L’amore non è nel cuore, ma è riconoscersi dall’odore”. Dice il poeta.

Quindi, se state camminando e qualcuno vi affianca e vi annusa, non è Jean-Baptiste Grenouille, il protagonista di Profumo di Suskind, che vuole scuoiarvi e fare un profumo con le vostre ghiandole sudoripare: è qualcuno che si è innamorato di voi.

L’innamoramento si verificherebbe, secondo una legge omeopatica, tra due soggetti chimicamente compatibili, e per misurare questa compatibilità ci vuole naso.

Sempre più spesso, quando parliamo d’amore, parliamo di feromoni, di ormoni, di “pelle”. Si usa il termine “annusare”, come fossimo Pallino di Bulgakov, impegnati nel disperato tentativo di recuperare un’animalità perduta.

L’espressione “andare a naso” ha sempre avuto un’accezione negativa, ma in amore si è presa la sua rivincita, in amore il naso non solo ci azzecca, spiega anche scientificamente i motivi dell’attrazione: l’amore, a quanto pare, è chimica.

Dopamina, ossitocina e adrenalina sarebbero alla base della cosiddetta sindrome saffica di cui parlava Catullo: salivazione azzerata, orecchie che ronzano, occhi annebbiati, sudorazione. Non è merito di Lesbia formosa, come pensavamo noi poveri idioti. No, è la chimica, e crea dipendenza. E’ uno stato di grazia che vorremmo durasse per sempre.

Ma in natura nulla dura per sempre, tutto scorre. E allora? Che cosa succede nel tempo, quando gli ormoni fanno pace col cervello? Succede che la sindrome si placa, il naso si abitua, e tu devi decidere che cosa fare. Alla natura, subentra la cultura.

Puoi decidere di seguire il naso finché morte non ti separi (dal naso), e allora sarai un eterno adolescente. Non a caso il termine “adolescente” viene dal latino ad-oleo, che significa “inizio ad avere odore”. Come Jean-Baptiste Grenouille, diventerai un collezionista. Niente da dire, in verità, ma è una scelta poco pratica, perché richiede un sacco di energie e la natura non ce ne regala così tante.

Oppure ti fai due conti, e inizi una valutazione costi-benefici: lo “stress da naso” è nocivo per il sistema cardiovascolare. Conviene iniziare a mangiare un kiwi al giorno, praticare una dieta bilanciata e ostentare un grande apprezzamento per un profumo che in realtà non senti più. In questo caso, alla chimica subentra l’immaginazione.

Oppure, infine, riesci a praticare un sano sentimento di pietas. Sai sorridere dei difetti che sono lì, evidenti, senza negarli, tangibili come l’odore che nel tempo cambia, ma che riconosci sempre: è la tua storia. Le piccole debolezze, le fragilità, diventano affinità elettive.

E questo non è più chimica.
Non è più immaginazione.
Questo è Arte.

IL PACCO

Oggi avrei dovuto scrivere un elzeviro simpatico, ed era praticamente già tutto nella testa, dovevo solo dettarlo. E invece c’è qualcosa di urgente che mi assilla, qualcosa di terribile che noi insegnanti, in gergo, con voluti e sottintesi doppi sensi,  chiamiamo: “il pacco”.

Il pacco di compiti da correggere.

Il pacco è cupo, aggressivo, una fatica disumana, di quelle che rimandi perché è troppa. Il pacco ti devasta. Dopo aver corretto il pacco di Italiano vedi tutte le pronomicelle che ballano: ce, c’è, ce n’è, ce ne, gli, le, glielo, gliel’ho, là, l’ha, la, se, s’è, sé… Vedi ognuno con la i, vedi le h nei posti sbagliati. Ti  vengono i dubbi sulla beneficenza, sulla pasticceria, sulle i che vanno che vengono, sulle ciliegie, sulle lance e sulle fasce. E ti chiedi perché mai nessuno dei ragazzi usi il vocabolario, che è lì, è a loro disposizione. E la risposta è semplice: perché per aprire il vocabolario di Italiano devi avere un dubbio. E il dubbio non c’è.

Ecco allora che, dopo aver corretto il pacco, hai bisogno di una camera di decompressione, tipo ritirarti in una comunità di recupero a leggere Dostoevskij e a coltivare bonsai.

Eppure nel pacco ci sono anche delle belle sorprese: idee nuove, spunti originali! Però stanno tutte nella brutta copia, sotto le cancellature. Sotto quei ghirigori neri e nervosi intravedi bellissimo il pensiero che si affaccia… Ma poi si ferma, si blocca, e si ritira rassegnato. E la bella copia, in due scarne colonnine, porgerà l’articolazione di un pensiero elementare, perché ciò che i ragazzi non riescono a dire viene prontamente eliminato, insieme al pensiero complesso.

Tanti alunni mi dicono: Pressoré, eddai, io a Italiano sono sempre andato male!

Lo dicono con una punta di orgoglio, perfino! “A Italiano”: cioè quella roba lì piena di sentimentalismo, fiorellini, arcobaleni e paesaggi. Anche nell’immaginario collettivo degli adulti la meravigliosa vita dei laureati in Lettere si colloca  ai piedi dell’ermo colle, davanti a una siepe, a non fare un tubo, se non a guardare la luna con ciglio nebuloso e tremulo.

Almeno fosse per colpa dell’alcool. No, è nebuloso e tremulo per le lacrime. Perché “Italiano” è una tragedia. Morti, stragi, parricidi, guerre, malattie. E’ venuta meno anche quell’empatia che un tempo faceva fraternizzare con un Giovannino Pascoli. Oggi l’unico punto di riferimento concreto è la cavallina storna che portava colui che non ritorna. Perché muoiono tutti, a “Italiano“.

Oppure  “Italiano” è quando t’innamori e stai nella pineta a sentire i rumori delle foglie sotto la pioggia, mentre giochi a nascondino con Ermione mezza nuda. E questo è già un aspetto che potrebbe essere più interessante, ma è solo la fantasia erotica di un ricco nullafacente. “Italiano” non serve a niente: è il regno dell’inutile, mentre tutto il resto del mondo fa i soldi.

E non diamo come sempre la colpa di tutto questo ai telefoni cellulari: litterae non dant panem, da sempre. La mistificazione dello scientismo impone da sempre che – scusate il bisticcio – le lettere non sappiano contare.

E invece no. “Italiano” è tutto ciò che abbiamo per elaborare ed esprimere il pensiero.

E potremo continuare a farlo solo se la civiltà che ci circonda sarà in grado di conferire a questa disciplina la dignità e il rispetto che essa merita. E se non dovesse accadere, allora resteremo solo noi a scuola, a dire che scrivere, bisogna.

Perciò adesso a noi due, pacco malefico. Grazie a te forse domani un ragazzo riuscirà a dire di più, a dire meglio, a dire perché. Magari domani un ragazzo riuscirà a spiegare  perché dirà “sì”, quando dirà sì.

E perché dirà “no” quando un giorno (speriamo) dirà: “NO”.

 

BUON ANNO, ENRICO

Enrico mi scrive a ogni festa comandata.

Non usa WhatsApp, non usa auguri preconfezionati, non usa le gif con le solite idiozie, non mi inoltra auguri impersonali, non mi inserisce in una comoda mailinglist da cui fare “invia a tutti” e togliersi il pensiero. Niente di tutto questo: Enrico usa ancora i messaggini, i vecchi “sms”, ormai in disuso. Mi scrive frasi deliziose, garbate, dal sapore antico. Lo stile della sua scrittura potrebbe definirsi ottocentesco. E ogni volta è una sorpresa: Capodanno, Pasqua, Ferragosto, Natale: gli auguri di Enrico non mancano mai.

Oggi, per esempio, gli auguri più belli sono stati i suoi: “Il 2019 è stato un anno pesante, ma bisogna andare avanti, il 2020 sarà migliore. Tanti cari auguri. Enrico”.
Che c’è di strano? direte voi.

Di strano c’è che io non so assolutamente chi sia Enrico.

Sono anni, ormai: ad ogni festa comandata lui fa capolino, con le sue parole dolci e rassicuranti, capaci di lasciarmi stupefatta. Poi, per qualche giorno, mi assale lo stesso dubbio amletico: che faccio? gli rispondo? gli scrivo: “Signor Enrico, non so chi lei sia, ma sappia che io non la conosco, lei ha sbagliato numero, pertanto le consiglio di guardare bene chi sia la persona a cui lei intende scrivere, perché quella non sono io”. Sì, è questo che dovrei fare.

Ma ogni volta ci ripenso, e lascio stare. Perché Enrico ci tiene tanto a mandare questi auguri. Non si aspetta nessuna risposta, ne è prova il fatto che continua a scrivermi. Forse dovrei telefonargli, forse dovrei spiegargli a voce l’equivoco. Ma ogni volta mi dico che è meglio di no, che se lui continua a scrivere, pur non avendo risposta, forse ha bisogno di sapere che comunque quella persona esiste, e che lo legge, e che è contenta di ricevere i suoi auguri. Enrico, sei uomo d’altri tempi: ti immagino nel tuo salotto demodé, a cercare le parole ad una ad una, con la calma di un vecchio orologio a pendolo… tic-tac-tic-tac…

Ho deciso, non chiamerò neanche stavolta. In fondo, che fastidio mi dà? Nessuno. E se il caso ha voluto che quell’ sms finisse a me, e non a qualcuno che si infastidisse e lo bloccasse dicendo “ma guarda che idiota”, qualcosa vorrà pur dire! Perciò, Enrico, ti aspetto. A Pasqua, e poi a Ferragosto, e poi a Natale, i tuoi auguri saranno più dolci di quegli stupidi “inoltri” così trandy, ma così impersonali…

So bene che cosa state pensando: che quegli auguri non sono per me, e che perciò non dovrebbero darmi alcun piacere. Ma è così dolce il fatto che esista al mondo qualcuno che scrive senza aspettarsi nulla in cambio, allora perché deluderlo? e se poi non trovasse mai più la persona a cui scrive? No. Non sarò certo io a dargli una coltellata, mai!

Certe cose è meglio non toccarle, e lasciarle stare così come sono. Buon anno, Enrico.

MINIMA ANIMALIA

Per la mia generazione il rapporto di rispetto degli animali non è così scontato come è per queste nuove. I nostri genitori ci trasmettevano infatti un rapporto con gli animali piuttosto barbaro: gli animali erano sporchi, portavano malattie, non capivano, non erano dotati di sensibilità e semplicemente esistevano per servire l’uomo.

Quindi per noi il rispetto degli animali e il loro riconoscimento in quanto creature dotate di intelligenza e sensibilità è una vera e propria conquista.

Così, se un giorno ti ritrovi con un cane, ti devi improvvisare.

Il cane non ha un suo tempo, il suo tempo è quello tuo, lui vive in attesa che tu ritorni per poter vivere il suo tempo, che è quello che ha con te. Il cane ti guarda e aspetta che tu dica andiamo.
Allora piano piano ti lega, ti mette il suo guinzaglio. E ti ritrovi che ti porta a spasso.

Quando inizi a parlare con lui soltanto con gli occhi, sei in upgrade.

Ma il mondo è pieno di haters dei cani. In genere, sono quelli che hanno paura. Non rimprovero loro la paura, rimprovero loro che rompono le scatole agli altri. La loro paura viene prima.

Ma se avessero occhi, dietro quella paura, vedrebbero la poesia: qualcuno che porta a spasso un cane dal passo lento e con le occhiaie, adeguando il suo passo.

Aver vissuto una vita senza aver mai avuto un cane significa aver perso una poesia.

Non perché fate del bene al cane.
Non perché vi sentite soli.
Solo perché a lui puoi davvero dire: “per sempre”.

 

DI PIEDI, DI SETACCI E D’ALTRE STORIE

“Si nn pess’ la farina, nn li fe li tagliulin’….”

N’duccio

Dicono che l’estate sia il momento peggiore per rompersi un osso del piede.

Se proprio te lo devi rompere, meglio farlo d’inverno, non ti pare? l’estate è fatta per uscire, viaggiare, correre, scalare le montagne e navigare i mari. D’estate si sta in ferie.

D’accordo, ma uno mica può scegliere. E io non l’ho scelto, anche se un tantino di legge d’attrazione forse ci ha messo lo zampino – e chi possiede qualche rudimento di psicosomatica saprà bene dove collocare l’episodio.

Sapete che c’è?… alla fine non è stato poi così male. Niente arrostata di Ferragosto, niente vacanze obbligatorie, niente racconti di viaggi, nessun debito alle prassi comuni dell’estate. Silenzio assoluto. Ci sei tu e il tuo non poter fare.

Avere un piede rotto in estate è un’esperienza unica, anche perché in città non c’è quasi nessuno: devi arrangiarti da solo su tutta la linea. Il certificato medico? te lo scarichi dal sito dell’Inps. La spesa? La fai online e te la fai portare a casa. E che soddisfazione! Dici ce la faccio, me la cavo, non devo chiedere, posso farcela, anche con l’handicap!

E hai tanto tempo per rimuginare.

La malattia è sempre un momento di ruminazione, si rumina, si rumina… si sviscerano tutte le scelte fatte, a volte si rivivono, si riconsiderano, si aggiustano e si correggono. A volte sbagliando, altre no, ma è sempre davvero un bel processo. Rumini soprattutto su chi c’è e chi non c’è; rumini su chi non c’è e avresti voluto che ci fosse, su chi invece c’è, e non te lo saresti mai aspettato. Ed è una bella sorpresa, ha il sapore dolce dello stupore, di un arrivo inaspettato .

Quando rimetti il naso fuori, l’handicap ti resta incollato addosso.
Quel piede ancora fasciato ti pesa, sei vulnerabile, sei fragile. E questo momento di fragilità te lo vivi pensando che tutti lo vedano, e capiscano, che notino il tuo piede fasciato ancora dolorante, che ti agevolino l’ingresso in un negozio, o che su strada tollerino la tua guida timorosa; o che su un marciapiedi troppo stretto sopportino senza sbuffare i tuoi movimenti impacciati.

Ma non è così. Il piede lo vedi solo tu, ti spintonano perfino, suonano il clacson, perché il piede fasciato mica lo puoi mettere fuori dal finestrino perché lo vedano.

Capisci – per la prima volta nella tua vita lo capisci veramente – quanto possa far incazzare la condizione di chi ha un handicap. La montagna incantata è stato da sempre uno dei tuoi libri preferiti, eppure solo adesso capisci veramente che la malattia è un passaggio obbligato per il Sapere. I cosiddetti sani se ne fregano, è sempre qualcosa che capita agli altri. Anche tu in fondo lo capisci solo adesso, nonostante tutti i libri che hai letto lo capisci veramente solo adesso perché devi portartelo sulla pelle, è un’altra cosa, non è più teoria, non è la carità pelosa di chi dice a bassa voce “poveretto”.
Adesso è sangue, è pelle: la tua.

Però… in un mondo di sani che corrono sull’asfalto come rulli compressori e fanno della velocità il loro stile di vita, tu ti godi tutta la meraviglia della lentezza. Ti godi il caldo, ti godi il sole, perché almeno per un po’ non devi più correre-fare-andare, quindi puoi godertelo. E siccome non hai nulla da dare e hai solo da prendere, scompaiono in tanti, per selezione naturale.
La malattia è un setaccio, separa la farina dalla crusca.

Niente tornerà più come prima: tutto sarà pulito, terso come un fondale di mare quando la sabbia si posa, semplice come impastare la farina setacciata.

Adesso puoi fare i tagliolini.

 


HAIR, ANCORA

C’è una tragedia che accade nella vita di tutte le donne, prima o poi.

Accade sempre, anche quando si tratta di donne colte, laureate, preparate, e non importa, accade lo stesso, non puoi farci niente. Ti travolge come un uragano, e ti getta nel panico totale.

Ebbene, oggi è accaduto a me. Ho fatto la cazzata: sono andata dal parrucchiere e gli ho detto la fatidica frase: ” FAI TU”.

Lo so, lo so. Non dite nulla…

A mia discolpa posso solo dire che mi sono immediatamente resa conto, l’ho capito subito… ma era comunque troppo tardi, non sono riuscita a tornare indietro. E ho fatto come faccio sempre: ho chiuso gli occhi, e sono uscita da me, volata via, come se il corpo non fosse più mio.

E quando alla fine ho aperto gli occhi… orrore! Chi era quella? La sorella scema di Amelie? L’ultimo dei Marines, reduce dalla guerra del Vietnam?

Devo essere sbiancata, perché tutti in salone mi hanno circondata amorevolmente, chiedendomi se mi piaceva, e mi hanno offerto un caffè.

Ero senza parole, davanti a tanta arte!
D’altra parte, in quelle situazioni, che cosa fare? La colpa è mia! solo mia! solo mia e della maledetta frase: “FAI TU”. Nessuna donna mai, in nessuna circostanza, in nessun luogo – che sia il macellaio il medico il calzolaio – dovrebbe mai dire a chicchessia A CHICCHESSIA la frase: “fai tu”.

E invece io l’ho detta.

Senza alzare lo sguardo da terra, evitando ogni specchio, mi trascino alla cassa, pago (tocca pure pagare), esco, mi infilo gli occhiali da sole, cerco freneticamente nel bagagliaio un cappello. L’unico cappello che ho in macchina è adatto alla grande nevicata del 2012. Corro alla guida, torno a casa, digito su Google “tagli capelli corti 2019” e sì, sembra un taglio di tendenza, ma porca miseria, io sono contraria alle tendenze, specialmente se tendono verso lo schifo.

Allora faccio una bella pensata, cerco un taglio di capelli 2019 molto trandy, ancora più corto, da stampare e da mostrare domani mattina a Edward mani di forbice, dicendogli con la voce strozzata, mentre gli lascio intravedere, nascosto nella mia borsa, un coltello da cucina ben affilato: “FAMMI SUBITO QUESTO TAGLIO E GUARDA CHE LO VOGLIO MALEDETTAMENTE UGUALE”.

Quanto a te che leggi, ti avviso: se mi incontrerai, in questi giorni, guardati bene dal dire frasi del tipo uuuhhh…. come stai bene!…. Hai tagliato i capelli?…. No. Non ho tagliato i capelli: ho cambiato sesso e sono andata da un barbiere pellerossa che mi ha fatto lo scalpo, l’ha appeso al suo tomahawk e l’ha mostrato a tutta la tribù. Perciò smettila di guardarmi con quella faccia, so leggere gli occhi. E leggo nei tuoi occhi che ti stai trattenendo dal ridere. Guarda che quando ti ho incontrata io quel giorno che ti avevano fatti i capelli del colore di un alpaca di 58 anni, non ho riso. Ho fatto finta di non vederti. Mi sono girata dall’altro lato, in un gesto estremo di pietas. E quando ti appiopparono quel vestito che ti faceva sembrare una salsiccia strozzata? ne vogliamo parlare? non dissi niente, abbassai solo lo sguardo.
Quindi, cerca di fare lo stesso. Non ridere, non dire niente, girati dall’altro lato.

E sappi anche che ogni volta che ho visto quei programmi televisivi dove i cuochi e i parrucchieri sembrano delle divinità, ho riso di cuore di tutti quelli che si davano in pasto ai Guru della cucina e del salone per capelli. Ho sempre detto: ma guarda che cretini!  E nelle fotografie del “prima e dopo” preferivo sempre il prima.
Edward mi ha colto in un momento di debolezza…

La verità è che siamo in preda alla follia perversa di cuochi e parrucchieri come se piovesse. Tutti grandi artisti! è un delirio, alimentato dai gregari che li circondano.

Per fortuna la scuola è chiusa, e in 10 giorni qualcosa mi verrà in testa (è il caso di dire).

E non dirò mai più “fai tu”.

Se mi diranno “faccio io”, dirò “FANCU’ “.


Sinead O Connor – Feel so different

LA SALUTE

      

 

Per me il Latino è la lingua che insegno a scuola.

Ma da quando Marta mi ha invitato a quella festa, proprio da allora, “latino” è diventato il ritmo di un mondo pieno di sole, inutilmente desiderato da bianchi freddolosi e dotati di “due piedi sinistri”, come diceva sempre la mia amica Mayeline, cubana de Cuba.
Ma
i maestri di Latino – e Marta lo è – non sono come tutti gli altri bianchi: i maestri sono diversi, sembrano quasi neri, hanno la carne soda e i piedi giusti per disegnare cerchi in cielo, in terra e in ogni luogo.
Mi hanno invitato alla fiesta latina, e ho accettato volentieri.

La Balera è un regno che bisogna esplorare almeno una volta nella vita. Se sei nato quando si cantava Come on baby light my fire, o sei cresciuto con i Pink Floyd, oppure innamorandoti di Jim Morrison, beh, allora alla balera ci vai per dire: “Mister Livingston, I suppose”. Qui le porte della percezione sono talmente lontane che lo spazio è infinito per quanto è vuoto. Qui il massimo della percezione è indovinare la taglia del reggiseno degli esemplari femmina, che vestono livree da corteggiamento improponibili. Qui il difetto diventa un pregio da ostentare: culoni enormi fasciati da leggins spietati, fianchi tozzi sottolineati da cinture alte e luccicanti. Qui la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo. Qui sembra di essere ai tropici: ragni, serpenti, coccodrilli, versi di tucani e cacatua. Qui si prendono sul serio, e la convinzione è peggio della pazzia.

Per questo è un non-luogo, Ou-topos. Utopia.
In una parola: la salute.
Magnifico: sto.

Ma sto da spettatrice stronza, e da spettatrice stronza mi frulla nella mente un refrain“È il 1963 quando Dian Fossey lascia il suo lavoro da educatrice alla volta del continente nero, con l’obiettivo di studiare una specie di primate di cui si sa poco o nulla: il gorilla”. Come Dian Fossey, ancora una volta nella vita, mi metto a distanza, in prospettiva antropologica, nel tentativo (anche) di individuare un Mr. Livingston in mezzo agli indigeni danzanti, per  bussargli sulla spalla, dire la famosa battuta e aspettarmi come risposta un “No” dettato dal terrore di dover tornare alla “civiltà”.

Tutti ballano, e io seduta a chiacchierare con una sconosciuta antropologa come me. E abbiamo entrambe i piedi calati in uno stampo di cemento.
Salsa, Joie de vivre, anima mundi, perché io no? perché i primitivi sì, e io no? perché resto sempre fuori? perfezionismo isterico? colpa del blues? di Bruce? culto della bellezza? diffidenza? Boh. Penso che ci son voluti due secoli per fare del buon blues bianco e ce ne vorranno altrettanti per mover la cadera.
Mi piacciono le cose vere, la mia ricerca è l’autentico.

Marta, però, è una forza della natura, un vulcano. Lei riuscirebbe a ballare perfino Lou Reed. Riuscirebbe a ballare Il Silenzio di Nini Rosso. Ballerebbe perfino un lago, l’aria, l’acqua ferma stagnante di una palude. La trasformerebbe in salsa. Quando si muove Marta, ricorda l’acqua minerale, ricorda Silvana Mangano in Mambo, ti fa venire voglia di essere sano, e felice. Questo significa autenticità.
L’ho salutata, è stata contenta, la mia promessa è stata onorata.
Quindi già comincio a pensare a come squagliarmela senza dare troppo nell’occhio.

Noto l’avvicinamento di un giovane uomo a una giovane donna e mi viene in mente “Quei due” di Paolo Conte. “Due note e il ritornello era già nella pelle di quei due… il corpo di lei mandava vampate africane, lui sembrava un coccodrillo…”. Maledetta letteratura, ti fa vivere di rimandi, e di rimando in rimando vivo la scena con quello che tecnicamente si chiama straniamento: gli occhi di un alieno appena atterrato su un altro pianeta.

Vaglielo a spiegare a questi, che è la prima volta che atterro in una discoteca. Che noi abbiamo sorriso di tutto il pop del mondo, finché non sono arrivati Eco e Kundera, che hanno buttato tutto in vacca. … In vacca? Avverto nella mia testa nuove note, da lontano… Op, op, op…. com’è misteriosa la leggerezza…

E se fossero giusti questi?
Se fosse giusta la leggerezza?
Se fosse questa, la salute?

Se fosse l’Augusta di Zeno?
Perché non salvarsi ballando?
Perché almeno non far finta di essere sani?

Oh, cara balera, tenera cultura popolare, dolce piazza, ballo di strada, Rueda de Casino, ti prego, tirami fuori i piedi dal cemento e facciamo uno scambio equo e solidale! Io ti do un po’ della mia anima, tu mi dai un po’ del tuo corpo!

Ma – ahimé – chi beve dal calice dell’ inchiostro è corrotto, e non torna indietro.
Certo non mi cambierei con la donna-gatto, ma potrei tirare fuori i piedi dal cemento… potrei fare un passaggio di liana… sconfiggere il fantasma sacrificale.

POTREI SGUINZAGLIARE UN GORILLA CONTRO IL CAMMELLO DI NIETZSCHE!

Bello. Ci farei. Anche solo per vedere chi vince.

Ma è quasi mezzanotte, e per me la serata finisce qui, quando inizia per i sani.
I sani non lavorano?
Da malata, io domani lavoro.
E poi, se il locale si riempie, mi vengono di sicuro le caldane.
Furtivamente riprendo la borsa e il cappotto.

Uscendo, tiro un respiro bello.

Aria fredda, nevischio, gente che arriva, coppie che si abbracciano, inizia la serata luccicante di brillantina, volgarmente oggi chiamata “gel”.

E io che vado controcorrente, come un salmone.

Vicino alla macchina, mi aspetta il fantasma di Jim.
Sigaretta, camicia aperta, gomito appoggiato al tettuccio.
Gli dico eddai, su, non rompere. Lo sai quanto mi farebbe bene al cervello ricordare tutti quei passi e quelle sequenze? Lo sai quanto sarebbe importante per il coordinamento? Si chiama “salute”.

Sorride triste.

Gli dico: “Trova pace, riposa una buona volta, provaci almeno”
Gli do un bacio sulle labbra, e pufff… sparisce.

Dicono che non sia morto.
Dicono che cavalca ancora tutte le tempeste.

Porca miseria, è vero.
Pure le mie, ancora.

Encore.
Un corps.

 

Riders on the storm…

DOING GONG

A Sara
A Michele
grazie

 

Se ti piacciono le esperienze forti, devi fare il Gong.

Da tempo me lo avevano consigliato per via dei dolori – e tutto il resto, ma da brava iperlogica razionalista avevo sempre accuratamente evitato.
Il gong? che roba è? Stregonerie? Siamo impazziti?
E in verità anche stavolta ce l’ho messa tutta per evitarlo, sbagliando per ben due volte sia il giorno che l’ora. Ma qualcosa alla fine ha voluto comunque che io partecipassi.

E l’ho fatto.

Che vi devo dire? Non c’è un modo per raccontare com’è il bagno di Gong, va fatto e basta. Non credevo minimamente agli effetti miracolosi del suono, e fino al momento prima di cominciare il trip mi ripetevo che non sarei riuscita a stare sotto quel rumore, a sintonizzarmi con quelle onde. Mi dicevo che qualcosa sarebbe andato storto, che mi sarei sentita ridicola e che non sarei neanche riuscita ad alzarmi ed andarmene durante il “bagno”, che avrei dovuto subire tutta quella frustrazione, ingoiandomela per tutto il tempo.

Ma il suono è venuto a prendermi.

E’ il suono che viene a prenderti, e ti porta via.
Dove ti porta? Indietro.
Indietro nel tempo: dal passato più recente a quello più lontano.
Cerco di raccontarvi.

All’inizio senti alzarsi un gran vento. Non so come si possa tirar fuori il vento dai gong, ma è così. Un vento sempre più forte, sempre più forte, e poi il suono cresce, cresce, e non sai più dove ti trovi, sai solo che stai in una dimensione sconosciuta, e che stai ripercorrendo un fiume, stai rivivendo tutti quegli eventi che in un modo o nell’altro ti hanno segnato, nel bene o nel male. Tutti, ad uno ad uno. E mentre sei lì, sotto quella pioggia di suono, piangi e ridi, e non sai come avvenga. Ti senti su un’astronave, fianco a fianco con dei viaggiatori sconosciuti, diretta verso un ignoto che più ignoto non si può, un altrove senza spazio e senza tempo, dentro al trauma più recente che il tuo corpo ricordi.
Per me, n
aturalmente, è stato il terremoto.

Ho visto crollare muri e case, e tutta la città. A quel punto è iniziata a uscire dell’acqua dagli occhi, tanta acqua, non lo chiamerei piangere, direi che somigliava di più a uno sciogliersi di sale. Euridice, Euridice fatta di sale si scioglieva sotto la pioggia di musica di Orfeo, Euridice era sale, statua di sale, Orfeo suona e lei si scioglie. Questo pensi. Senza pensarlo.
Ti vergogni, un poco, e ti trattieni, purtroppo, perché sei vigile, sei distesa a fianco di altre persone che non conosci, e che non ti conoscono. Poi senti qualche singulto, qualcuno che tira su col naso, altri che lanciano piccoli lamenti, come vagiti di bambini appena nati…

Allora togli il freno a mano, e vai indietro. Indietro, indietro, indietro…

Il suono ti investe, allarghi le braccia ti lasci investire, allunghi il collo, senti gli altri passeggeri che si muovono appena, nell’astronave che oltrepassa il tempo e lo spazio.

E’ stato a questo punto che ho iniziato a sentire un freddo, ma un freddo così forte, un freddo assurdo, anzi non era freddo, erano forti tremori che mi scuotevano il corpo, inarrestabili. Ho cercato di avvolgermi nella coperta che avevo a disposizione, ma non c’era verso di scaldarmi, perché non ero fredda, era quella frequenza, le braccia e i piedi e le gambe e persino la schiena tremavano, scossi da una forza potente, fatta di ghiaccio…

Cambiata frequenza di Gong, il freddo è passato, il tremore è scomparso, tutto è tornato tranquillo. Altri suoni, e ti lasci investire dall’onda, apri le braccia, l’abbracci e non sai cosa abbracci. Alzi il mento, dici al suono di prenderti. Tutto in assoluta lucidità.

Finito il bagno, Michele spiegava qualcosa, ma non ascoltavo.

Ero impegnata ad ascoltare me, incredula.
Sono entrata nell’astronave che mi sentivo uno straccio, e sono uscita piena di energia. E’ stato come (come dire?) aver risanato un solco profondo ed antico.

Se io leggessi questo racconto che ho appena scritto, se lo leggessi scritto da un altro, sorridei, parlerei di suggestione, di stregoneria. Direi “che sciocchezza”, come forse state dicendo anche voi. Perciò vi capisco.
Magari anche voi, come me, non piangete da almeno vent’anni.

Ma un po’ di quell’acqua che usciva dagli occhi m’è arrivata alle labbra.
E – credetemi – sapeva di sale.

 

LA FORZA SIA CON TE

Chi non ha mai insegnato non sa niente del primo giorno di scuola.

Non neghiamo che finora ogni insegnante ha pensato che è una bella rottura ricominciare con i campanelli.
Avete idea di che cosa sia lavorare al ritmo dei campanelli?
No, non ce l’avete.
Campanello all’inizio, campanello durante, scalpiccio, rumori, apri finestra chiudi finestra, porta si apre, porta si chiude, bussano, ribussano, bidelli, circolare, registro elettronico, secondo campanello, terzo campanello, o
rganizza un discorso che dura il giusto prima del suono del campanello e se ti fanno una domanda e suona il campanello organizza la risposta in un minuto e mezzo rubato al collega che aspetta fuori perché il campanello è già suonato, e così fino all’ultimo campanello, quello che non senti mai e ti accorgi che è suonato solo perché loro schizzano via dai banchi.

Però non si tratta solo dei campanelli, ma dei ritmi sempre più frenetici, delle invenzioni sempre più strambe, per te che sogni la scuola peripatetica di Socrate in cui si cerchi la risposta alla madre di tutte le domande.
E ogni anno perdi un po’ di terreno, ogni anno la scuola e i suoi abitanti ti sorpassano un po’ di più.
Le sinapsi si arrugginiscono e tu sei sempre più lontano: ogni anno sei più lento.
Loro invece sono sempre più svegli e sempre più veloci.
Tu invecchi, e loro hanno sempre la stessa età.
Cerchi di tenerti al passo, ma è una guerra persa, loro sono sempre più hi tech.
Tu sei rimasto a Dragon Ball e Herry Potter, loro sono proiettati verso influencer dei quali non sai nemmeno pronunciare il nome: Favij, ST3pNy…
Tu hai preparato con diligenza una bella lista di titoli di libri del catalogo Einaudi, e loro sognano Elisa Maino, della quale tu conosci a mala pena l’esistenza per via di quel suo #Ops arrivato già alla quarta edizione Rizzoli. E ti chiedi pure se forse non sia il caso di leggertelo.
Tu sei rimasto a X-files, e pensi di essere un gran figo perché hai imparato tutto di questa serie, ma loro sono proiettati nella incomprensibile dimensione di Breaking Bad.
Non ce la farai mai a raggiungerli, nemmeno col paradosso di Achille e la tartaruga.
Per di più, devi raggiungerli con Ulisse, Enea, Achille. E loro inseguono progetti crossmediali con la Warner Music.
Loro ti sognano affascinante come l’insegnante di Perceptions.
E tu somigli al massimo a Minerva McGranitt se sei femmina, e a Yoda se sei maschio.

E allora?

E allora non guardarli così, in branco. Ritagliali da quel puzzle, e tirali fuori dalla massa. Soffia via un po’ di trucco e parrucco, e allora riesci a vedere che hanno solo quindici anni, o poco di più, e tanta sete, e tanta fame. E che non sono poi così diversi da quelli che avevi dieci, venti anni fa, se sai ancora sederti per terra nonostante gli acciacchi alle ginocchia. Loro ti si siederanno lì vicino, per ascoltare le storie che sai raccontare. Dei piccoli, potrai sentire il cuore che batte di paura. 
Chi non ha mai insegnato non sa che il giorno prima del primo campanello senti sempre un friccico nel cuore.

NOMINA SUNT CONSEQUENTIA GENERUM

E’ che gli uomini devi farli contenti.
Che ti siano compagni, padri, amici, parenti di ogni sorta… gli uomini devi farli contenti e basta.

LUI conosce sempre tutto, capisce sempre tutto, sa tutto di tutte le cose, in tutti i campi. LUI, se non sa, improvvisa. E’ tuttologo.

E’ raro trovare un uomo che riconosca a una donna qualche merito in qualche campo. Devi essere una campionessa olimpica, o un premio Nobel, allora sì, beh… Anche se poi vai a sapere se nel privato non sia lo stesso. Voglio dire, vai a sapere se, per esempio, Federica Pellegrini non debba tacere davanti a un compagno che ha paura dell’acqua, eppure pontifica anche sul nuoto…

Incontro Laura dopo tanto tempo.
Passeggia insieme a suo marito, sottobraccio, bella coppia da sempre, una di quelle coppie che tu dici “funziona”. Ci fermiamo a chiacchierare vicino a un albero con i rami lunghi e cadenti, che oscillano a ogni ventata. A un certo punto lei, per nulla infastidita dalle fronde, dice ma guarda che bello questo ciliegio!

Il marito subito puntualizza: non è un ciliegio, cara! non vedi che è un giovane albero di noce? In realtà non ricordo esattamente che cosa proponesse come alternativa al ciliegio, ma non è importante. E’ importante il modo in cui la contraddice, con assoluta fermezza.

Laura insegna scienze, è una persona molto preparata, e se dice che quello è un ciliegio, è un ciliegio. Ma il marito insiste: noddavvero, quello non è affatto ciò che Laura dice che sia.

Imbarazzo di Laura?

Nessuno. Mi guarda, fa spallucce e accenna sul viso un’espressione che non dimenticherò mai. Un’espressione che … come faccio a descriverla? un’espressione furbetta, come se facesse l’occhiolino senza farlo… una leggera smorfia della bocca… una strizzatina di palpebre… insomma come a dire: vabbè dai, Luì, facciamolo contento, che ci costa?
Caspita. Bel gesto.
Sono quasi tentata di dargli per nome “Amore”.

Ma è proprio sui nomi delle cose che non ci capiamo, uomini e donne. Sembriamo razze diverse, sembriamo addirittura abitare pianeti diversi, pur calpestando la stessa terra. Dai nomi che i maschi danno alle cose si capisce che il loro mondo è diverso da quello delle femmine. Amore? Sarà amore per LUI.

Tu invece su una questione come quella del ciliegio ti ci impunti. A te sembra un gesto di ipocrisia acconsentire a tutto quello che dice, acconsentire come hai visto fare dalle madri e dalle nonne. Una mancanza di rispetto.
E’ un atteggiamento culturale, non di carattere.

Eppure ti trovi in un mondo in cui tutti hanno finito per dire che discutere per un albero è stupido. Bisogna cedere sulle cose poco importanti, per non mollare poi sulle cose serie. Lasciare le prime, e prendersi furbescamente le seconde.
E, soprattutto, non confonderle.

Perciò, se sai stare al mondo, quando il tuo compagno-marito-parente o quel che sia dirà una stronzata, tu sorridigli, sbattendo le ciglia, senza alcun imbarazzo. Esattamente come fai quando il tuo cane fa la cacca per la strada: la raccogli col sacchetto, la chiudi per benino, sorridi soddisfatta per la funzione fisiologica espletata.
Poi, butti orgogliosamente nel cestino il sacchetto con la cacca.

Davanti a una stronzata, gli devi dire che ha ragione. E lo devi guardare con gli occhi pieni di tenerezza. E’ questo che lui chiama Amore.

Allora sì, che le cose funzionano.

PALLIATIVI E PALLIATIVI

Lei era una di quelle scomode.

Parliamo di quindici anni fa, quando gli studenti “scomodi” erano quelli che ti mettevano in difficoltà perché studiavano, erano colti, ne sapevano una più del diavolo, e il diavolo eri tu.

E lei era così: cazzuta.

Cazzuta al punto che i suoi docenti non sempre la sopportavano, perché parlava troppo, e diceva cose giuste, e se qualcuno le diceva sbagliate, lei era lì a gridarglielo in faccia. Ricordo che pensai sorridendo “farà un lavoro tosto, e importante, un lavoro di quelli che in pochi sanno fare”.

E così l’ho riconosciuta subito, come se quel giorno io l’avessi vista oggi.

L’ ho riconosciuta pure se non potevo vedere i ricci, raccolti nella cuffia chirurgica verde, né il naso, né la bocca, coperti dalla mascherina. Gli occhi, però, erano uguali, proprio come quando lo Scrittore dice “due cavalli bizzarri”, due purosangue che non stanno mai fermi.

Anche lei mi riconosce subito.
Mi chiama “prof”, io mi alzo dalla poltrona della sala da aspetto, e le vado incontro, mentre i due cavalli mi fissano inquieti e interrogativi.

“E’ questo che hai scelto di fare?”
“Sì, ho viaggiato un bel po’ ma alla fine eccomi qui, una bella struttura, aperta solo quattro anni fa, guarda, è bellissima. Qui posso accudirli bene”
“Fino alla fine” dico io, sorridendo amara.
“Fino alla fine senza che soffrano” aggiunge lei.

“Eh, il dolore, Laura, che grande civiltà riuscire a tenerlo lontano il più possibile, che grande conquista ottenere che si percorra tutta la strada, fino in fondo, senza impazzire di sofferenza”
“Si crea un legame” sussurra, guardando altrove.
“Non voglio saperlo”.

Sento tutto, dietro questa calma apparente,  in questo posto bellissimo, all’avanguardia, non sembra neanche di stare dove stiamo, sono mio malgrado capace di avvertire e non vorrei.

“Praticamente vivo qui dentro”
“Ci credo”
“E’ il lavoro più bello del mondo”
“Perché sei una cazzuta guerriera”
“Mah… “.

Ci sono tanti tipi di dolore.
I dolori dell’anima puoi provare a lenirli in qualche modo, e se non ci riesci la scienza ti aiuta anestetizzandoti, cosicché passi il tempo, e tu elabori, finché pian piano torni a cavartela da solo. E poi ci sono i dolori del corpo, quelli che tante volte nessuno ti crede che ce li hai. E che qualche dottore bastardo dice che te li devi tenere. Perché? Perché non c’è un dolorometro che li possa misurare. O semplicemente perché ci sono i medici- sadici, convinti che l’uomo “ha dda soffrì”, convinti che il paziente deve essere paziente e basta.

Ma ci sono anche altri medici, convinti che la vita vada vissuta davvero, fino all’ultimo istante. E che sia un gesto di civiltà garantire una dignità a questo dolore. Una dignità che non va negata nemmeno agli animali.

All’improvviso mi viene da ridere: penso alla mia amica Giovanna, che per sostenere sua madre sofferente s’è dovuta arrabbattare a procurarsi qualcosa di molto speciale, visto che il suo medico si rifiutava di darle analgesici. Se conosceste Giovanna, così pavida, così elegante e timida, capireste quanto debba essere stato difficile trovare quel “qualcosa”. E assumersi la responsabilità di somministrarlo. E poi tornare a prenderlo, e andare avanti così fino alla fine, fino alla fine, aiutandosi anche lei, con quel qualcosa, perché dai, che male c’è? dove altro la puoi prendere, la forza?

E rido, Perché ancora adesso Giovanna, dopo l’ultimo viaggio, sta davvero bene.
Prima era sempre triste, ora invece la vedi serena.
A volte la senti perfino canticchiare.
Quando cammina, non sembra più che abbia ingoiato un ombrello.
Ha il passo morbido, leggero leggero!

 

SHIT!

Abbiamo tutti una certa pratica di stronzi, perché di stronzi è pieno il mondo. Chi non ne ha intorno? Tutti! E al contempo siamo tutti lo stronzo di qualcun altro. A questo non ci avevate pensato, eh, confessatelo. Epperò ci sono quelli veri, e quelli per modo di dire, dunque l’argomento è complesso.

Io sono laureata in stronzologia.

Lo stronzo nutre nei miei confronti un particolare tipo di attrattiva e di attaccamento.

Diciamo pure che io attiro gli stronzi come una calamita attira il ferro.
La mia faccia ingenua gli piace parecchio. La mia espressione costantemente difensiva mi fa apparire fragile, vulnerabile, manipolabile, anche se in realtà non lo sono. E lo stronzo è miope,  si ferma sempre alle apparenze.
Diciamo pure, per onestà, che io lo stronzo NON lo evito, anzi lo sfido, me lo vado a cercare, e su questo ci sarebbe molto da dire.

Anyway, la prima regola, caro il mio lettore, è questa: fidati di quello che lo stronzo ti dice all’inizio, perché è prassi comune che egli si dichiari. Appena lo conosci, lui dice “Guarda che io sono stronzo”. Non lo fa per te, lo fa per sé, sa benissimo che potrà sempre dirti che te l’aveva detto sin dall’inizio. Ma tu – che stronzo non sei – fatichi parecchio a credergli, proprio per il fatto che te lo dice. La prendi come una battuta, un motto di spirito: invece ti sta dicendo la verità. È uno stronzo! Poi le cose vanno avanti: collega amico o parente che sia, quando lo stronzo dopo un po’ inizierà a fare lo stronzo sul serio, non lo dirà mai più! Lo sarà e basta.

Ma sarà… che cosa? Beh lo sappiamo tutti, lo stronzo non ha altro Dio al di fuori del suo io: esiste solo lui. È incapace di ascolto, incapace di qualsiasi tipo di scambio, prende tanto, dà poco o nulla, si ama fino al disgusto. Non fa differenza che tu ci sia, tu sei assolutamente sostituibile, non c’è nulla di tuo che sia singolare e speciale per lui. Ama ciò che prende, non chi glielo dà. E di ciò che prende fa un leit motive, la sua unica compagna di vita, i nomi cambiano, si dimenticano, quello che importa è che la costante “k” sia davvero costante: energia, denaro, amore, lavoro, sesso, qualsiasi cosa, ma è una cosa. Non è mai una persona.

Incapace di uscire da sé, chiuso nel suo piccolo grande mondo, lo stronzo non saprà mai che cos’è il perdersi in un universo completamente diverso dal suo, non saprà mai che cos’è un viaggio in un pianeta inesplorato, rischioso, un viaggio da cui potrebbe anche non tornare mai più. Come il pesciolino nella boccia, non vede altro che il suo piccolo mare. Eppure, pateticamente, si dichiara un grande marinaio, ha un’immagine di sé GRANDIOSA, da cui tu vieni letteralmente risucchiata, solo perché ti piacciono le storie, le narrazioni, le fantasie.

Finché un giorno, dai e dai, il velo si squarcia, vedi l’omino del Mago di Oz, vedi lo scenario di cartone del Truman Show, e scendi dalla giostra.

Non devi restarci male: il tempo che hai investito, l’energia che ci hai messo, per te sono Vita, e nulla andrà sprecato, ti hanno reso migliore.

In Oriente si pensa che le sofferenze rendano belli. Pensa quanto sei bell@. Sì, sei una meraviglia, ogni frattura oro colato, un kintsugi.

Perciò, caro lettore, ogni giorno della tua vita, ringrazia di avere incontrato l@ stronz@ di turno, e prega Dio che non ci sia giorno in cui non ne incontri un@: potrai apprezzare chi sa vederti e sceglie di perdersi, e di dimenticarsi.

Ci sono pesci convinti di nuotare nel mare, e invece nuotano nello scarico dove alla fine tutti li buttano. Tirando subito l’acqua.

CARO COMMISSARIO…

Comunemente si dice che gli Esami di Stato
sono un incubo per gli studenti.

Ma un poco lo sono anche per i docenti.
Nonostante l’età e l’esperienza,
o forse proprio per questo,
i docenti che hanno preparato la classe sono lì,
col cuore che batte.

Nell’immaginario collettivo, l’Esame di Stato è qualcosa che ti segna per sempre, una sorta di rito tribale in cui i ministri sono i commissari “interni” ed “esterni”, e tutti pensano che gli “interni” siano preoccupati per gli studenti deboli, che sono arrivati fin lì per grazia ricevuta.

Ebbene, non è così.

Il Commissario Interno non è agitato per quelli meno bravi, perché i meno bravi sono gli specialisti del “rush” finale. Sono quelli che con sapienza hanno esercitato la loro intelligenza nei cinque lunghi anni di liceo per sviluppare un’unica abilità: raggiungere il massimo risultato col minimo sforzo. Si presenteranno al colloquio carichi, pimpanti, e conteranno sui Commissari Esterni per riscattarsi: in loro cercheranno una nuova identità, alla faccia degli interni, che non potranno che rosicare. La brillante performance del colloquio sarà la loro migliore interpretazione, e saranno bravi, bravi come li avevi sempre sognati.  Sapranno esporre la tecnica del labor limae, ma qualcuno di loro dirà “labor LAIM”, senza che nessuno se ne accorga, così manifestando una certa pratica di cocktail, piuttosto che della lingua Latina. O parleranno di Marziale, e della figura del cliens, chiamandolo però “CLAIENS”, così dimostrando che un host ha più valore di un libro di latino. Però si dirà: “via, bisogna capire, si tratta di nativi digitali… bisogna valutare la performance!”

Ecco perché il Commissario Interno non si preoccupa per questi. E’ impensierito, invece, per tutti coloro che in cinque anni ce l’hanno sempre messa tutta, i “bravi”, o per quelli che proprio bravi non sono, ma che lentamente si sono emancipati da una condizione di minorità, riducendo il gap sociale.

Questi arriveranno all’Esame esausti, sfiniti al punto da rischiare un corto circuito che li porterà forse a non brillare, o forse a dire una cavolata, così, per un improvviso upload involontario, una maligna interferenza della memoria. Arriveranno alle prove senza cartuccera, senza auricolari stile “Club degli imperatori”: e soli, perché sono sempre stati soli.

Ecco perché ti chiederai se “gli esterni” si fideranno di te e di quello che dirai quando tenterai di difendere la ragazza bravissima che però all’improvviso balbetta, o il ragazzo che è partito da meno di zero… ma oggi (toh!) non si ricorda quando è nato Manzoni, o sbaglia una formula, o gli scappa di bocca una cavolata.

Nessuna pietà neanche per te, ragazzino problematico e introverso. O per te, bravo ragazzo con la camicia delle grandi occasioni, che non segui la moda, che riesci ad attribuire ancora tanto valore alla scuola perché per te è motivo di riscatto. Magari sei italiano di prima generazione, hai un cognome pieno di h e di xyz, ma non sai neanche più dire buongiorno nella lingua di tua madre, perché tua madre con orgoglio ha voluto che tu la dimenticassi, affinché fossi più italiano dei ragazzi italiani che la lingua italiana non la conoscono bene quanto te. Tu con la tua bella scrittura. Con i tuoi quaderni ordinati e puliti a fronte di quelli zozzi e spiegazzati degli altri che ti danno del retorico e dello sdolcinato. Tu, ragazzo italiano di prima generazione che sai dare un valore al tuo nuovo Paese, e a uno Stato a cui guardi con gratitudine e che per te rappresenta un valore conquistato, per nulla scontato come lo è per tutti gli altri ragazzi.

L’esame è l’esame! Deve insegnare che così è la vita! gli diranno, incastrati nel ruolo.
La vita è uno schifo
, penseranno di contro loro, sconfitti prima ancora di iniziare la partita. E lasceranno il campo a quelli furbi e brillanti, perché la lezione appresa sarà: non c’è partita.

Ecco. Ecco perché sei agitato per questi esami, caro commissario interno.

A volte, però, accade che Dio getta i dadi.

Accade che sette persone finiscano insieme a lavorare con fiducia. E che ognuno ci metta dentro tutto il bello che ha. Accade che si crei un clima di collaborazione, interamente concentrato su tutti quei ragazzi, i più bravi e i meno bravi, i furbetti e gli onesti.
Accade che sette persone, sinergicamente, siano capaci di creare, di ascoltare e di vedere, di valorizzare. Accade che si sorrida. Che ci sia un clima di fiducia. Che non si umili nessuno. E che davvero pochi vadano via con la convinzione di essere stati trattati ingiustamente.

A volte accade, insomma, che si faccia un buon lavoro.

BRAVI TUTTI.

 

Grazie a Dino, a Francesco, a Marco e Nives (in rigoroso ordine alfabetico!)

Grandissimi.

LA VISITA FISCALE

Diciamocelo: non è un bel mestiere quello del medico fiscale. E’ l’aggettivo “fiscale” che rovina la parola “medico”. Lo associ ad Equitalia, a un esattore delle tasse, a un mestiere che più che con i malati ha a che fare con i truffatori. L’ombra dei “furbetti” cagionevoli di salute si spalma anche sui malati veri, ma in fondo il medico fiscale sa, sente, annusa, e dopo anni e anni di esperienza capisce appena ti entra dentro casa se ci marci o no. Continue reading “LA VISITA FISCALE”

ALLE POCHE CON CUI PARLO

Un tempo, le donne brutte le chiamavano “cozze” o “racchie”.
Era un giudizio maschilista e superficiale, sul quale poi il progresso e la civiltà hanno trionfato: e così oggi le donne sono tutte belle, in un modo o nell’altro. Le “racchie” non esistono più.

NO.
NON E’ VERO.
La racchia esiste eccome, ed è sempre più racchia, anzi è molto più racchia di prima.

La racchia oggi è quella che non si è cercata uno spazio tutto suo, un’intenzione, un campo in cui svilupparsi in positivo, col sorriso: ciò che ha raggiunto a questa bella età, è uno status compensatorio di una qualche originaria mancanza. Perciò essa appare ricca, finemente addobbata, elegante in ogni particolare. E tuttavia racchia, poveretta, perché non sa che la Bellezza risiede nel complesso, sale dal dentro e si esprime in energia.

Non stupirti, Donna Bella, se a causa del suo passato mortificante oggi la racchia vorrà vendicarsi su di te. Lo farà nei soli modi brutti che conosce, poveretta. Cercherà di farti scontare la tua Bellezza, ma le è ben chiaro che non ci riuscirà mai, perciò cercherà di renderti la vita difficile. Questo le darà un gran senso di potenza, e momentaneo refrigerio. Un tempo Essa stava sotto al tavolo ad aspettare le briciole? Oggi balzerà sulla sedia, tenace come un pit-bull. E adesso che tu, Donna Bella, hai già concluso la partita, e sei altrove, in altri mondi, in altre dimensioni dell’esistere, dimensioni estranee alle competizioni (in cui in verità non sei mai entrata), come Natura vuole, ebbene, Essa vorrà inchiodarti a giocare. Adesso, a partita finita? Sì. E te la ritroverai a capotavola, a dare le carte. Ha impiegato una vita per arrivare a questo momento, senza mollare mai, mezzo secolo, una vita intera finalizzata ad essere protagonista dell’ultima scena sul grande palcoscenico: “Il pranzo è servito” è la sua grande battuta, e la dice talmente bene che sembra stia elargendo al popolo il segreto di Fatima, priva della grazia che solo sa dare l’empatia con l’universo mondo, il lavoro su se stessi, e il sorriso. Di cui essa è incapace.
Tu, Donna Bella, una delle rare con cui parlo, dimmi: quante ne hai incontrate in tutto questo tempo della vita? Tantissime. E resteranno tutte esattamente com’erano: brutte. E racchie. La loro aura color cacca offuscherà ogni addobbo, ogni orpello, ogni posizione raggiunta, ogni fama, ogni scarpa firmata, che addosso a loro apparirà fatta della stessa cacca. Ti odieranno solo perché con gli occhi parlanti della Bellezza tu dirai: “Tana.”

Cara vecchia ragazza, amica mia, una delle rare con cui parlo, che mai nulla avesti da dimostrare a nessuno, ragazza che amasti e trasudasti gioia nelle cose, a fronte del livore delle racchie, per quanto esse faranno di tutto, tu resterai come sei sempre stata: bella di una bellezza intoccabile. Gli anni passeranno, la giovinezza se ne andrà, il volto sarà coperto di rughe, le mani di vene, i capelli si faranno sottili …. ma … mio Dio, quanto sarai bella! Quanto più fosti bella in giovinezza, tanto più mostrerai la Bellezza del Tempo: non servirà apparire giovane, poiché tu lo sei stata davvero. Il tuo corpo racconterà di avere amato e concesso alla Vita più di quanto il loro ha concesso alla palestra e al dietologo. La tua pelle avrà vissuto, le tue mani amato, la tua schiena avrà portato pesi su pesi.
Ma nel compiere il semplice gesto di metterti un cappello per coprirti dal freddo in inverno; o nel gesto di legarti un foulard alla vita in estate, sulla spiaggia, con grazia sapiente; o di aprire un ombrello; o di ravviarti una ciocca di capelli in quel modo naturale che tu conosci, ebbene, non potrai che sorprendere i passanti belli con la tua bellezza fuori dal Tempo.

Gli Uomini come te Belli, gli unici che ti interessano, e le Donne come te Belle, le uniche con cui hai parlato, festeggeranno ogni giorno la gioia e lo stupore di vivere che hai saputo regalare al mondo.

L’ARIA CHE TIRA

“Sono largo, contengo moltitudini” (Walt Whitman)

Fabrizio (chiamiamolo così) sta al quinto anno, ma è ancora minorenne, 17 anni. È un sognatore, uno di quelli che quando entri in classe già gli daresti un sacco di schiaffi, a prescindere, perché sta sempre sotto al banco, invece che sopra.

Tuttavia non mi dispiace una classe dove non siano tutti allineati e compunti, mi piace che i ragazzi crescano gomito a gomito con le loro reciproche, infinite differenze. Per apprezzarle e salvaguardarle, poi, anche da grandi.

Oggi però è accaduta una di quelle piccole storie che non mi sono mai piaciute, in cui mi sento di obiettare in coscienza: ed ecco perché sono qui, e sono triste.

Fabrizio si mette contro un sacco di coetanei per via della sua impopolare popolarità: è un rapper, ha un certo numero di followers. Si candida alle elezioni scolastiche, ma fa il furbetto in campagna elettorale: posta un video senza sonoro, con la sua faccia in primo piano come un pesce in un acquario e sotto ci scrive “silenzio elettorale”, violandolo. E cosi lo trombano, con pubblico ludibrio e depennamento immediato dalle liste.

E lui che fa? Prima vuole morire. Poi incanala la delusione nell’ ironia, e ci scrive su un rap dal titolo “Depennatemi”. E gli passa.

Poi arriva l’autogestione. E lui fa una genialata delle sue: dà manforte a un amichetto del primo anno che scrive su facebook: “Se raggiungo cento like sotto la mia foto, mi faccio tagliare i capelli durante l’autogestione”.

I like naturalmente arrivano triplicati, e lui, l’Idiota (in senso Dostoevskijano, naturalmente), organizza lo spettacolo.

L’esibizione viene acclamata da tutta la popolazione scolastica sui social: tagliarsi i capelli in pubblico o per scommessa in questo caso non ha certo la valenza simbolica paolina (att., 18,18), o biblica (GdC 13-18), o francescana (Proc 12,4: FF 3088), forse non ha neanche la valenza che mettono in rilievo gli psicologi (cfr. Marie Rose More, Gli adolescenti si raccontano. Genitori in ascolto dei propri figli, Cap. “Ragazzi, attenti ai capelli!“). Forse in questo caso è stata solo una faccenda demenziale, non saprei, dettata da manie di protagonismo tutte adolescenziali, oppure ha a che vedere con una sorta di “battesimo” dei rapper. Non lo so.

Quello che so è che il ragazzino piccolo se li fa tagliare da Fabrizio, suo amico e adeguato MC (maestro di cerimonia, nella cultura giovanile sulla quale è necessaria una doverosa documentazione): pare che il piccolino ne abbia parlato anche con i genitori, mettendo la cosa in modo da ottenere un silenzio-assenso del tipo “contento tu“, come sovente accade ai genitori che vedono l’autogestione come un carnevale che dura sette giorni di infinita pazienza.

La cosa accade, è una cosa stupida, ma come tutte le cose stupide fa audiens. A molti piace, a qualcuno non piace per niente.

A chi? Ad altri ragazzi spettatori, che denunciano il fatto subito dopo. Inizia a circolare in maniera violenta e aggressiva la versione di Barney: atto di bullismo del grande sul piccolo, coercizione di volontà, plagio, violenza, gesto da naziskin. Girano parole grosse, ma piacciono tanto, perché riempiono la bocca e ti fanno sentire protagonista di un film.

Il film finisce in tragedia: si chiedono provvedimenti disciplinari esemplari, e inizia il gioco al rialzo, anche tanti altri vanno puniti, per esempio i ragazzi che dovevano vigilare e che invece se ne sono andati al bar, tornando a scuola solo per il contrappello, proprio come fanno i furbetti del cartellino. E chi li denuncia? Altri ragazzi, che chiedono pene severe, in un’atmosfera che sempre di più ricorda la fattoria degli animali e la caccia alle streghe, o il signore delle mosche e la guerra dei bottoni.

Sono cose che non si fanno, e non so quale sia la più grave. E vanno bacchettate, tutte. Così è stato, tutti i ragazzi imputati hanno capito di avere sbagliato, e hanno chiesto umilmente scusa. Saggio sarebbe stato non assecondare mai questo clima, e punire tutti come si farebbe con i figli: a letto senza cena, nota a registro, voto di condotta al minimo sindacale.

E invece no: si chiede la testa di qualcuno, a imperitura memoria. E la testa è quella di Fabrizio, il rompiscatole.

Punirlo, sì, anche perché sia di monito agli altri e perché il fatto non succeda mai più nelle prossime puntate. Punirne uno per educarne mille. Sacrificare una vita serena sull’altare del funzionamento di una macchina che non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno.

La scuola è un microcosmo, ma è un microcosmo che non può essere paragonato in toto a quello sociale: non è un riformatorio, è un ambiente protetto, ci sono regole volte alla rieducazione, alla formazione, votate all’inserimento e non all’esclusione. Quell’uno, quel solo, ha un valore. La sua vita, ha un valore.

Come si sentono adesso quei ragazzini? E come si sentono i furbetti del cartellino, sapendo che loro reato è stato considerato una ragazzata rispetto a quello del parrucchiere? e come mi sento io dopo una giornata in cui avrei dovuto forse esporre con più incisività il mio punto di vista? come mi sento sapendo che la spirale di violenza non si spezza, ma si alimenta? Sì sì, lo so, adesso tutti direte che sono la solita buonista, ormai si usa la parola buonista ogni volta che si assiste a una difesa d’ufficio. Ma questo a voi sembra buonismo, a me quello sembra giustizialismo, non giustizia. A scuola si è aperta una caccia al bullo che fa finire nella rete anche il famoso Idiota (sempre in senso dostoevskjiano), e finiscono sul rogo un sacco di ragazzini border che, a questo punto, buttati giù dal bordo, ma nella parte sbagliata, non avranno più nulla da perdere, e gli toccherà fare i bulli per davvero.

E mi addolora l’aria divertita con cui tutti quanti hanno aspettato lo spettacolo, per poi denunciare alle autorità competenti. Mi ferisce che nessuno abbia pensato ad evitare il fatto, per evitare la punizione. A prevenire, piuttosto che a curare. Ora abbiamo dovuto punirli per forza, perché a scuola c’è la certezza della pena. Solo a scuola, con i ragazzini minorenni.

Che imparino le buone maniere con la giusta punizione. Ecco. Facciamoli, volare, gli stracci, se è l’unico modo per salvare quanti Fabrizio ci sono nelle nostre scuola d’Italia. Facciamoli volare, perché ci stiamo male in tanti. Perché lavoriamo con i ragazzi e non ci piace questo clima conflitti e di ostilità. Perché non possiamo sempre tacere. Perché tanti di noi non si vendono per trenta denari di bonus. E perché un oppositore corretto e leale ti rende migliore, mentre cento servi sciocchi ti confermano nell’errore.

Le orecchie d’asino non si mettono più dai tempi di Franti, e tanta gente ha dato la propria vita, in un passato non così lontano, perché a scuola tutti potessero avere diritto a una riabilitazione. Ma l’aria che tira non è per niente bella, per noi insegnanti della vecchia guardia

 Fareste bene a mandarci in pensione, noi che abbiamo conosciuto Don Milani e Berlinguer. Fareste bene, allora fatelo. Fatelo con un calcio. E poi rimettete bene in vista quel vecchio cartellino che c’era prima dei Decreti Delegati: “Non parlate al conducente”. Per noi, la scuola sarà sempre di chi la abita, non di chi la conduce. Chi comanda, si faccia servo, diceva don Lorenzo Milani. Ah, e diceva anche che obbedire certe volte non era per niente una virtù. Ho detto virtù? Deve essere una di quelle parole che Orwell prevedeva sarebbero scomparse dal vocabolario della Neolingua.

PIÚ CHE IPPOPOTAMI, DINOSAURI

1 Aprile 2017

Ma davvero vi è piaciuto l’uomo degli ippopotami?
Una folla degna di un guru, per una sequela di luoghi comuni: sui sentimenti, sui libri da leggere, sui primi della classe, sui libri di carta e l’odore dell’inchiostro.
Imbarazzante.
Non lui. L’entusiasmo degli astanti.
Risolini compiaciuti di giovani vecchi. Continue reading “PIÚ CHE IPPOPOTAMI, DINOSAURI”

ELOGIO DELLA PRUDENZA

Scritto di getto, dopo la lunga serie di guai capitati a giovani massacrati da attentati, presi ostaggi in paesi stranieri eccetera.

Scritto di getto, dopo la lunga serie di guai capitati a giovani massacrati da attentati, presi ostaggi in paesi stranieri eccetera.

Ragazzi, quando morite vi servono di tutto punto.
La gente che la domenica viene a mettervi
un mazzo di fiori sulla pancia e tutte quelle cretinate.
Chi li vuole i fiori, se sei morto?
Nessuno.
Continue reading “ELOGIO DELLA PRUDENZA”

IL MERITO AL CONTRARIO

SE LAVORI BENE.
Se lavori bene, sei un’autentica seccatura.
Odioso che tu riesca meglio degli altri. Odioso che gli altri vengano a paragone. Ma chi ti credi di essere? Odioso, che tu sia felice quando vai a lavorare. Non chiedi mai niente, non hai bisogno di nulla, non ti sottometti alla gerarchia. Vuoi fare solo quello che devi fare: il tuo lavoro. E lo fai con piacere. Continue reading “IL MERITO AL CONTRARIO”

IL NOME DEL PADRE

Questo scritto fa riferimento a un fatto di cronaca:
una suora va in ospedale a partorire.

Davanti al fatto, l’opinione pubblica
ha immediatamente provveduto a un linciaggio mediatico.
Ma in quegli stessi giorni due ragazze cooperanti vengono prese in ostaggio
e rilasciate dopo il pagamento di un lauto riscatto.

A questo punto, la stessa opinione pubblica che aveva linciato la suora
difende le due ragazze cooperanti adottando tutte le argomentazioni
che avrebbero dovuto valere anche per la giovane suora.
Così ho detto la mia. Continue reading “IL NOME DEL PADRE”

L’EREDITA’ DI FRANTI

Questo testo è stato scritto per un libro ideato da Mirko De Frassine.
E’ una riflessione su tutti coloro che si illudono di essere gli eredi del grande Franti: dico “si illudono”, perché nel riso di Franti c’era un universo di dolore, nel riso di questi c’è solo uno stupido protagonismo dissacratorio.
Curioso che il pezzo sia stato visualizzato da centinaia di naviganti il giorno della morte di Umberto Eco, e continui a ricevere apprezzamenti nel tempo.
Continue reading “L’EREDITA’ DI FRANTI”

LE TRE ETA’

Questa “prosetta dal sottosuolo” è stata ideata per “Gruppami”, un gruppo di donne messo insieme da Maria Luigia Molla, poi l’ho divulgata tra le mie amiche, così per ridere.  Poi Stefania mi ha scritto che ha “spopolato in ogni dove”, ed ha aggiunto: “Noi ragazze degli anni ’60 ci siamo perse le lotte femministe, ma possiamo ancora dare un contributo al defunto movimento, il più bello degli ultimi 50 anni”. Beh, a quel punto, mi sono detta vai, condividilo con tutti, il tuo contributo. Viva noi. E viva le nostre innumerevoli età, ostentate con orgoglio, alla faccia di chi ce ne attribuisce solo tre. Quasi tutte le mie amiche lo hanno già letto, ma voglio lasciarlo qui, a disposizione, perché non dimentichino il sorriso.
Lo dedico a Stefania Carusi, la mia amica di sempre. .. E ai nostri ventagli. 🙂
Continue reading “LE TRE ETA’”

LA VERITA’ SU FORREST

Li ho visti, e continuo a vederli:
quelli semplici, senza talento, ma con tantissimo impegno,
e quelli complicati, col talento, ma senza impegno.

Dicono che il talento non esiste.
Dicono che esiste solo la disciplina, lo studio, l’impegno.
Lo dicono perché guardano al successo, anche di un solo giorno in uno show televisivo. Ma il talento non ha niente a che vedere col successo, anzi, direi che raramente chi ha talento ha successo. La storia è piena di talenti falliti, morti, inespressi.

Ho una specie di radar, io, per le persone di talento, una roba incorporata tipo bacchetta rabdomante, e so sentirlo, il talento. Saperlo riconoscere è un dono, tanto quanto avercelo: e io so riconoscerlo.

Il talento è quella cosa che ti fa sembrare facile e naturale quello che fai. E’ una specie di fuoco, un’energia interiore, un’abilità fuori dalle regole, è il punto di contatto tra l’idea e la materia. Il talento è quando tu hai in testa una cosa e la vedi. A volte è anche “farla”, quella cosa, con una penna, un pennello, un martello, una diagnosi, un taglio chirurgico, una chitarra. Ma il talento che dico io può anche essere un’energia che hai dentro e che non riesce a uscire. E resta inespressa, ce l’hai solo negli occhi e nelle vene, può vederla solo chi ha gli occhi giusti.

Chi è più furbo (o fortunato) completa un talento attraverso lo studio, ha successo e diventa un artista nel suo campo, un guru. Un mix di natura e cultura.

E chi non ci riesce? Allora il talento è come la bellezza: se non sei attento diventa un limite, e ti impigrisce. Ti trovi in un Eden dove allunghi una mano e prendi la frutta che ti è stata regalata senza fare lo sforzo necessario a metterti da parte una provvista per l’inverno. Vivi. Bruci. Te ne freghi del resto. Senti il tuo fuoco, sai di avercelo e ti basta: non sviluppi altre doti, vuoi solo la poesia e non ti impegni nella prosa. Non capisci che quel banale e stupido esercizio è l’esercizio di pazienza essenziale alla formulazione di un obiettivo. Ti senti gli occhi addosso di tutti quelli che il talento non ce l’hanno, ma che sono tanto più metodici di te: ti sorvegliano, ti scrutano, cercano di imitarti. Tu senti tutto questo, e non li consideri.

Sai, saranno gli stessi che ti aspetteranno al traguardo, mentre tu ti sarai fermato a raccogliere margherite per la strada, a chiacchierare e bere birra o tisane. Forrest invece sa che ha solo la sua tigna da mulo, per riuscire. Sa che “Stupido è chi lo stupido fa”. E’ l’apologia del cretino, che sarà pure un cretino, ma alla fine vince sul tuo bellissimo talento bruciato.

Eh già. Però – lasciatevelo dire – quello col talento sprecato, quel tizio lì, quello che “era”, quello che “poteva” e che poi non ci ha fatto niente, quello che viene additato come “fallito”, ha un fascino inspiegabile, agli occhi dell’anima. Riuscite a vederlo? Riuscite a vedere quella luce che ha dentro? Io sì. Che spettacolo straordinario. Quante volte l’ho visto, quante volte mi sono commossa davanti alla vita sfasata di un talento buttato. Ho partecipato di quella rinuncia con uno stupore così intimo e così perfetto da farlo mio, quel suo talento bruciato.
Per me, quello è lo spettacolo più incomprensibile della vita.

Bella roba, direte voi.
Eh sì. Bella, bellissima, straordinaria roba. Niente retorica della corsa, come Forrest. Niente mito dell’arrivo a tutti i costi. L’auto-spegnimento del talentuoso è uno sputo per aria, uno sputo al successo: il talentuoso si rovina perché è viziato da un motore che gira troppo alto. Sente il tempo della vita come una spada, lo sente scorrere, sa che non ne ha quanto ne vorrebbe, e così lo brucia, brucia tutto, insieme al suo talento. Magari arriva a un passo dal traguardo e si ferma, perché non gli interessa di arrivare: lui è lì, è evidente che ha vinto, è arrivato senza sforzo, allora a che serve tagliare il nastro? E non lo fa.
Allora prova altro, gira confuso a caccia di cose che non sa fare, assaggia tutto, curioso di tutto quello che è intentato, diventa inconcludente, vuole testare altri terreni, invece di insistere su quello in cui riesce bene. Non deve dimostrare niente (è talmente evidente!) e così spinge, spinge sull’acceleratore che ha dentro, sfida sé stesso e la vita, fino all’ultimo respiro, lassù, sulla vetta… Il talentuoso schifa la sua fortuna, e si mette a competere in cose che non gli appartengono. “Fa” lo stupido: rientra nel pacchetto in dotazione alla nascita.

Insomma alla fine li vede tutti che lo sorpassano. Tutti quelli che investivano con prudenza sul loro futuro e mettevano l’arte da parte, e lui no, lui no, lui non investiva nulla perché aveva già tutto.

E così ti sei buttato via. E ora indossi una tuta da meccanico e passi la vita sotto il fondo di un’auto a raccogliere in faccia macchie di grasso, mentre quelli che non sapevano fare niente, ma si applicavano ogni giorno, dai e dai, un po’ alla volta, hanno messo su un bel quartierino coi gerani alle finestre e il registratore di cassa alla porta.

Ecco, il talento che dico io, è quando hai tutto, e lo butti via.

Bel talento, direte voi. Quello bravo, con la sua piccola e insignificante utilitaria da quattro soldi, ti sorpasserà strombazzando e guardando dal finestrino a manovella la tua Ferrari elettronica in panne sul ciglio della strada. L’hai bruciata. Così, accelerando.
Solo per il gusto di sentire WWWROOOOOMMMM…

Perciò oggi, quando incontrerete lo spazzino, o un disperato, o uno scaricatore di cassette, o un barbone, provate a fermarvi. Guardate con occhi puliti: solo la Poesia riesce a sentire che cosa significa avere tutto ai propri piedi, e riuscire a non volerlo.
Perciò siate contenti, se non avete potuto bruciare il talento che non avevate.

Ma per capire tutto questo bisogna avere del talento.
Magari bruciato.

gary-sinise

Forrest Gump – “Perché corre?”

AFFRONTARE LA PAGELLA

La fine dell’anno scolastico è un momento delicatissimo per tutte le componenti attive della società, dai diretti interessati, i ragazzi, alle famiglie e agli insegnanti, che raccolgono in questi giorni il frutto del proprio lavoro. Didatticamente è un momento cruciale, che i docenti vivono con quella leggera emozione che si prova nel vedere i propri ragazzi cresciuti, sia come studenti che come persone, perché di anno in anno i ragazzi apprendono non solo nozioni e contenuti, ma anche comportamenti e capacità fondamentali, come l’autocontrollo e la correttezza di relazione con l’autorità e le istituzioni, che deve essere disinvolta ma non sfrontata, obbediente ma non servile. Ed è a fine anno che la valutazione di uno studente diventa “complessiva”, atta cioè a valutare non tanto la singola performance, quanto un processo durato un anno intero. Questo  concetto non è sempre chiaro, spesso ci si lascia attrarre da una considerazione sbagliata sia delle ultime verifiche, sia dello scrutinio finale o dell’Esame di Stato, che vengono erroneamente vissuti come momenti in cui “cala la mannaia”. I ragazzi devono comprendere che la funzione della scuola non è quella di una caraffa graduata, che misura “quanta” acqua è entrata nella brocca. Ogni studente ha una sua storia, un suo percorso scolastico e uno stile di apprendimento che devono progressivamente affinarsi e maturare nel tempo. La fine di un anno scolastico si pone come tappa fondante per orientare, indirizzare e indicare, attraverso un giudizio, come questo stile di apprendimento  si stia evolvendo o possa diventare sempre più funzionale. Bisogna spiegare ai ragazzi che lo “sprint finale” su cui molti di loro fanno affidamento non può che cercare di riempire un po’ quella brocca di acqua, raccogliendola fortunosamente da qualche pozzanghera, ma a nulla servirà ai fini del processo valutativo o di crescita culturale. I ragazzi dovrebbero avere segnali chiari: le verifiche degli ultimi giorni, la pioggia dei compiti in classe e degli “interrogatori” (così loro definiscono in gergo scolastico le ultime interrogazioni) disorientano, creano false aspettative. Senza nulla togliere a chi intenda migliorare la propria posizione, bisognerebbe cercare di far comprendere che la prestazione finale realizzata in prossimità del nastro di arrivo in modo ansioso e compulsivo non è un sistema funzionale. Naturalmente il buon senso dei docenti gioca quasi sempre a favore dei ragazzi e i consigli di classe valutano sapientemente le diverse situazioni, anche perché spesso succede che a fine anno emergano fatti prima sopiti, che i ragazzi decidono di condividere con gli insegnanti solo quando si rendono conto di non riuscire più a “riprendere le redini della loro vita” (questa è l’espressione più diffusa). Il debito scolastico è un’opportunità per recuperare quanto irrisolto o confuso, e non va vissuto come un fallimento, ma come una crescita, come accettazione di una regola volta al recupero. Certo, diverso sembra essere il caso della bocciatura, più raro ed estremo, a cui comunque si giunge dopo una serie di richiami sistematici, di avvertimenti, di convocazioni a colloquio dei genitori. I fallimenti scolastici devono essere vissuti, per quanto possibile, come una tappa di crescita, e va insegnato anche il modo con cui reagire ad essi. In questo periodo finale tutti i ragazzi devono essere assistiti e confortati dai genitori, sia in caso di successo che di insuccesso: non è superfluo raccomandare ai genitori di congratularsi con i ragazzi promossi, con serietà e soddisfazione, per l’impegno profuso e per i risultati ottenuti, per procedere insomma al “rinforzo”. In caso di insuccesso, invece, i genitori e i docenti dovrebbero procedere in sinergia, dare lo stesso segnale, indicare a una sola voce che il modo in cui il ragazzo ha lavorato e studiato non è stato produttivo e cercare con calma di individuare le motivazioni che hanno portato all’insuccesso. In questo modo, quello che si presenta come un momento drammatico potrà trasformarsi in una rara e preziosa fase di crescita e di condivisione. Il debito o la bocciatura non arrivano quasi mai inaspettati, ma in certi casi alunni e genitori confidano fino all’ultimo nella benevolenza del Consiglio di Classe: bisogna insegnare che non è un bel vivere fare affidamento sulla “comprensione” o dipendere da essa. Richiamarli alla dignità, al rispetto di se stessi, credere nella loro capacità di recupero. Un ragazzo richiamato da un insegnante o da un genitore stimati, cercherà da quel momento di dare il meglio di sé e pian piano imparerà a farlo per compiacere se stesso, non l’insegnante o il genitore che l’ha richiamato. E così diventerà un circolo virtuoso. Ma la capacità di iniziare la virtù del circolo, gli strumenti per farlo, li possiede l’ adulto: il ragazzo li sta ancora cercando, e li impara da noi.

HO UNA PAGINA FACEBOOK

Ripropongo la lettura di questo brano dedicato ai miei studenti.
Il brano fu scritto nel giugno 2009, ma lo dedico oggi a tutti gli insegnanti che hanno un diverso parere in merito alla… “ ’ngicca”. La pagina si chiama “Quelli delle classi di”, che nacque da un’idea di Gianpaolo Tronca. Il gruppo esiste ancora, e Gianpaolo mi ha aggiunta agli altri amministratori.

Ho una pagina Facebook e io non sono neanche iscritta a Facebook.
Ho una pagina Facebook e io non so neanche come funziona, Facebook.
Ho una pagina Facebook, si chiama “Quelli delle classi di Luisa”, e io ‘sta cosa non me la spiego, non credo di meritarmela. Sono stata una brava insegnante?

Tanti anni fa, dopo una conferenza, conobbi, (mio malgrado) un grande professore, un’icona della cultura accademica aquilana.
Quando il detto luminare seppe che ero un’insegnante di liceo mi guardò dall’alto in basso un po’ schifato. Eh, non mi presento mai bene, in verità, alla cultura “ufficiale” (che? questa qui, un’insegnante di liceo?)
Dopo un attimo di silenzio pronunciò, soffiando e sbuffando, questa fatidica frase (immaginatevelo un po’ come il Padrino): “… mmmpffff… Veda Signorina… fffffh… Il professore… ffffffshhh… Il professore … (suspance) … il vero professore… TÀ FÀ LA ‘NGICCA!” (per i non-aquilani: “deve fare la ferita”). E fece platealmente il gesto di radersi una guancia: poi… ZAC! Un taglio secco, forte, deciso, mentre con l’altra mano si tirava la pelle e, storcendo la bocca, continuava a fissarmi con occhi affilati.
Guardai altrove, come un cagnetto a disagio.

La “‘ngicca”, per chi non lo sapesse, è la ferita del rasoio al primo taglio della barba.
Dopo il primo attimo di imbarazzo, sgranai gli occhi con ammirazione. In quella frase lapidaria c’era tutto: l’iniziazione, il sangue, il dolore, la crescita, il rito, il nerbo del vecchio maestro. Lo guardai estasiata mentre lui era ancora immobile nel gesto del sacro taglio, e nella mia mente percorsi, in pochi secondi, la lunga carriera di quell’Orbilio redivivo.
La ‘ngicca… Uh.

Io non sopporto la vista del sangue.
A scuola giro col rasoio elettrico, la schiuma emolliente e il dopobarba al pino silvestre per medicare le ‘ngicche che fanno gli altri.
Perciò ora mi chiedo: sono stata una brava insegnante?
Ma voi mi avete fatto un fan-club su Facebook, e questo qualcosa significa, qualcosa
DEVE SIGNIFICARE.
La prima volta che un mio alunno fu bocciato ho pianto mentre facevo il verbale. Lo avevo portato allo scrutinio con un maledettissimo cinque in Geografia e per colpa di quel maledettissimo cinque in Geografia, che si sommava ad altre insufficienze, Vincenzo fu bocciato. Che io non la so neanche, la Geografia. Ma si fa??? Mi ricordo che una lacrima cadde sulla pagina del verbale proprio sul nome VINCENZO e così mi misi a piangere ancora di più, singhiozzavo sola sola, ero giovane, troppo giovane. Con me si fermò il prof Balena, esterrefatto e visibilmente preoccupato per il mio stato emotivo. Eddai, non è professionale: la bocciatura fa crescere, fa maturare, fa diventare uomini. Fa indurire la barba, lo sanno anche i principianti! Per me invece è sempre stata UN DRAMMA. La ‘ngicca.
E questo fa di me una brava insegnante?
La gente dice sì-sì-ti-vogliono-bene-perché-tu-li-aiuti-e-li-fai-promuovere. La gente dice pure che poi nella vostra vita saranno più utili quelli che vi hanno fatto piangere e dare la testa nei libri, perché la vita è dura e loro ve lo hanno fatto capire. La ‘ngicca. E’ vero, ragazzi, cavolo, ma non ci pensate a questo? dovreste fare un fan-club a chi vi ha insegnato con la frusta, non a me, che non mi ricordo la data di nascita di Ariosto, né quella di pubblicazione della Gerusalemme Liberata. Io studiavo come una matta solo le cose che mi piacevano. Perciò vi chiedo: questo fa di me una brava insegnante?
Ho sempre preteso molto dagli alunni bravi: con loro ero esigente e severa. Dedicavo invece tutta la mia comprensione e la mia pazienza a quelli di voi che faticavano ad andare avanti, i più esuberanti, quelli che non riuscivano a stare seduti. Mi ricordo le sensazioni di quando correggevo i loro compiti, cercavo di fare dei segnetti rossi piccoli piccoli, mi dispiaceva ferire il loro amor proprio segnando frasi in cui avevano messo una confidenza, un pensiero, una riflessione. Pensavo che al posto loro, all’idea di trovare le croci di Sant’Andrea sul foglio, non avrei più scritto un rigo in vita mia. E la scrittura è coscienza, è consapevolezza.
Dai bravi invece volevo sempre di più, a loro sì che li facevo, i segnacci, e li obbligavo a prendersi in carico quelli meno bravi, li tassavo per aver avuto il privilegio (per qualsiasi motivo) di essere bravi. Speravo in una “coazione a ripetere” nel loro futuro, perché sapevo che avrebbero occupato le stanze dei bottoni.
E come si fa a fare l’insegnante così, facendo la ‘ngicca a chi non se la merita?

Però voi ora siete qui, e soprattutto, a quanto mi dicono, proprio quelli “bravi”.
Gianpaolo è stato nella mia prima classe statale, 1987. Aveva l’aria da grande, era come adesso: uno humor adulto, lo sguardo sereno di chi ha una strada da fare, di chi al Luna Park, nella casa dei fantasmi, resta sul binario e guarda la luce in fondo. Spesso facevo qualche battuta e ammiccavo, e lui sapeva giocare, ci divertivamo un sacco. Quando l’ho rivisto dopo vent’anni mi ha recitato la cantilena “un, nessun, buon, tal e qual non vogliono mai l’apostrofo!“.
Ero fissata con la scrittura, l’ho sempre trovata salvifica nella vita di un uomo, vi facevo scrivere tanto, anche in modo sgrammaticato, non mi importava granché, a quello ci si pensava dopo, un tema alla settimana, in genere si leggeva in classe il lunedì, e poi altra roba e poi concorsi scolastici di poesia, di favole, scrivere scrivere scrivere! Mi sentivo il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie. E sbancavate tutto, vincevate tutti i concorsi, ti ricordi Gianpaolo, un anno avete vinto una decina di premi! Mi ricordo le deliziose poesie dei Cantelmi, tutti i vostri temi, la vena polemica di Luca, tutti i vostri racconti, perfino quella bellissima favola di Luca Vallera su una bambola di pezza, che vinse il Premio Unicef. Cavolo. Avrà più scritto una favola in vita sua, Luca Vallera?
La gente diceva che ero io a dettarvi le cose, ma voi lo sapete bene che io leggevo e mi divertivo, non toccavo niente, lasciavo le cose come stavano, al massimo mettevo qualche virgola e correggevo l’ortografia. Ma tutto restava com’era, a lasciare intatta la neve fresca senza passarci sopra con i piedacci zozzi di fango…
Mi sentivo parecchio in colpa sapete… Avrei dovuto fare tutti quei test, avrei dovuto studiare le date una volta buona, e anche le opere minori, e anche i memorialisti (e chi sono i memorialisti?), chessò un po’ di Tacito, un po’ di Livio … Invece pensavo solo alla poesia… Catullo, scommetto che ve lo ricordate ancora a memoria in latino.
Molto spesso, invitata da voi ad aprire il cassetto della cattedra, invece della classica ranocchia, vedevo saltar fuori un mazzo di fiori colorati. E una volta ci trovai una targa d’argento con su scritto: “Capitano mio Capitano…”, che ho salvato dalle macerie e che porto sempre con me. E vi rivedo tutti, proprio tutti, che mi guardate con quegli occhi indescrivibili.
Il miracolo è che dopo venticinque anni cambiano i visi, ma non gli sguardi.
Io non lo so perché succede tutto questo, non me lo spiego.
Forse perché vi sognavo come potevate essere, e i miei sogni vi piacevano.
Forse perché vi facevo sognare il mare…(“Se vuoi costruire una nave, non frustare i tuoi uomini, piuttosto insegna loro il desiderio del mare, immenso e sconfinato… “)

Ho una pagina Facebook.
In realtà un bravo insegnante non va ricordato, né con odio, né con amore, un bravo insegnante va dimenticato, perché ti entra dentro l’anima e diventa una parte di te inconsapevole, quella parte bella che viene fuori davanti alle difficoltà, quella “tigre” che ti spinge a lottare quando non ce la fai più, a scandalizzarti, quando vedi le cose
storte, a dire questo è giusto e questo no. Non ti vincola al ricordo, né alla gratitudine, fa solo il suo mestiere.
Un bravo allievo, poi, è quello che tu insegnante non ti ricordi più, né con orgoglio, né con disprezzo, un bravo allievo è quello che fa il suo lavoro in silenzio ed umiltà, senza pretendere troppo né da te, né da se stesso o dagli altri. Non ti vincola alla responsabilità del successo o del fallimento: nella foto di classe si mette da un lato, e quando la guardi dici: “Ma chi era questo?”.

Nonostante questo, io mi ricordo di voi.
E voi vi ricordate di me.

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