IMAGINE ALL THE PEOPLE…

Questo testo fu scritto per la presentazione della mostra dell’artista Donatella Giagnacovo intitolata: “Di bianche spine”. L’inaugurazione è avvenuta nel maggio 2022, ma retrodato il testo perché la prima inaugurazione avvenne l’8 marzo 2020, ultimo giorno prima delle chiusure per covid.

Noi si sperava, un tempo, che non ci fossero più guerre.

Un tempo, ricordate? si intervistavano le miss, Miss Universo e Miss Italia, e alla domanda del giornalista “Ci dica Signorina, se lei potesse esprimere un desiderio, che cosa chiederebbe?”
La pace nel mondo!” gridava lei, con quella ingenuità un po’ sciocchina, con quel modo di illudersi così poco pratico che oggi non fa più sorridere, ma fa audience.

Con la stessa ingenuità di una Miss degli anni Sessanta, oggi, basta esporre una bandiera e mettersela sul profilo per considerarsi attori di una cultura di pace. Siamo tutti Miss Italia.

E invece dovremmo partire dalle strade, dagli ambienti di lavoro, per promuovere LA cultura della pace. Dovremmo abbattere la logica della competizione, della prepotenza, dell’arroganza. Dovremmo isolare tutti gli haters, e tutti i fanatici. Che invece sono sempre più gettonati in quanto “prestatori di idee” per chi non ce le ha.

Amos Oz scrive nel 2001 un testo che dovremmo rileggere: “Contro il fanatismo”. Il fanatismo – dice Oz – è una delle malattie peggiori del mondo moderno. La contrae chi pretende in tutti i modi che gli altri la pensino a modo suo. Il fanatico possiede “quell’inclinazione comune a rendere migliore il vicino, educare il coniuge, programmare il figlio, raddrizzare il fratello, piuttosto che lasciarli vivere”. La guerra è solo la punta dell’iceberg, è molto prima, che il fanatico deve essere fermato. Nell’ultimo capitolo contro il fanatismo, Amos Oz parla del ruolo dell’Europa. Dice che non dovrà più scegliere se essere pro Israele o pro Palestina, dovrà essere per la Pace. Invito a sostituire quelle due con altre due, è uguale…

E aggiungo: quando chiesero a Ghandi come avrebbe fermato le truppe di Hitler che invadevano l’Europa, egli rispose che gli europei avrebbero dovuto stendersi sui binari e non far passare i treni, anche se Hitler quei treni li avrebbe fatti procedere lo stesso.

Uh… non siamo capaci di sederci sui binari, come suggeriva Ghandi per fermare i treni di Hitler.
Ma siamo capaci di farci passare sopra treni invisibili, mille volte più distruttivi di quelli.

Abbiamo fallito? E dove? Un tempo sognammo la libertà di vivere. Sognammo eserciti “di pace”. Uomini e donne che distribuivano cioccolato e latte condensato, salvavano migranti, trovavano dispersi, portavano acqua, spalavano fango, toglievano macerie…

Crescemmo col Viet Nam, il napalm, i reduci. Crescemmo da madri e da nonne che raccontavano gli orrori, la fame, le fedi alla patria per farci i cannoni. E dicemmo “mai più”. Educammo intere generazioni a questo “mai più”. Le canzoni dicevano: “Ehi, ragazzo, sii semplice, sii qualcosa che ami e capisci”. Simple man, Lynard Skynard, e la insegnavo a scuola, un tempo.

Poi ci hanno subissato con le menate sulle prestazioni, con l’efficientismo, l’ossessione per il “risultato”, i quiz, i test, l’educazione civica … e ci hanno tolto quanto di più bello avevamo per insegnare a promuovere LA cultura della pace. Hanno usato la tecnica della rana bollita: la rana, dentro la pentola, si abitua alla temperatura in aumento, e si ritrova lessa senza neanche accorgersene. E di nuovo, come rane bollite, ci stiamo abituando alla presenza della guerra, in forma di tifoseria da stadio.

Imagine…” sussurrava John Lennon.

NOVEMBRE

Le iscrizioni mi piacciono, ovunque si trovino. Mi piacciono i graffiti, le scritte murarie, gli scarabocchi lasciati dai ragazzini sui vetri delle macchine, le incisioni, le iniziali – che certamente rappresentano là per là una barbarie, ma che poi col tempo acquisiscono un ruolo piacevole di testimonianza.

Che sarebbe la Casa dei gladiatori a Pompei, se le ragazze non avessero lasciato sui muri le loro scritte di ammirazione per i muscoli dei lottatori? Un fascino dimezzato. E come potremmo capire la vita quotidiana degli antichi romani, se non avessimo le scritte murarie della gente dell’epoca, per esempio le scritte elettorali?

Le iscrizioni hanno un fascino incredibile, anche quando ti fanno imbestialire perché le trovi sulla croce di ferro della Crocetta, sull’eremo più sperduto, perfino se vai in Tibet – sono certa che in cima ci trovi la scritta di qualcuno che ci è passato prima di te e che ha voluto lasciare un segno.

“Un segno”, ecco. In realtà le iscrizioni hanno il fascino di tutti i segni che aspettano di essere letti. Dicono: Io esisto, e sono passato di qua.

Per fortuna adesso esistono i selfie, quindi i muri si sporcano molto meno. Un selfie non devi neanche lasciarlo là, te lo porti dietro, non sporca e non inquina. Quando non c’erano i selfie la gente scriveva sui sassi, li rubava perfino. Si portavano via i sassi del Colosseo, le tessere dei mosaici, i mattoni delle case.

Ma che fascino avevano, però, e che fascino hanno tuttora le iscrizioni!

Mi piacciono tantissimo perfino le scritte sulle lapidi.

Ce n’è una che mi piace tanto, dal lato Acquasanta: “FORSE CI INCONTREREMO ANCORA, UN GIORNO, NEL BEL MEZZO DELL’UNICA FESTA CHE NON PUO’ FINIRE”. Stop. Non c’è un nome, non c’è una data. Però ci vedi la bell’Epoque, una coppia, e feste da ballo, vestiti eleganti, champagne a fiumi. Il potere di una scritta su un sasso.

Vicino a quel sasso, un paio di anni fa ho incontrato un ragazzo che con accento toscano mi fa: “Oh la mi schusi Signora, sa micha dov’è messo Magnotta?“. Mi metto a ridere, lui ride con me, non ci crederete, ci abbracciamo come due fratelli.

Mi spiega che sta accompagnando la sua ragazza, aquilana che studia a Siena. Mi spiega che sa tutto di Magnotta. Mi spiega che giacché stava lì, ad accompagnare la ragazza che era tornata per il ponte dei Morti, voleva andare a vedere se era vero che c’erano dei pezzi di lavatrice portati lì dai ragazzi.

Mi metto a ridere, gli dico di no, mai visti. E poi ce lo accompagno.

Gli spiego che le lavatrici in posti del genere non sono ammesse, ma che sono contenta che qualcuno che non è di qui lo vada a trovare. Spero solo che non si faccia un selfie macabro.
Ma non sono certa che non se lo sia fatto dopo che me ne sono andata.

Salutandolo gli dico: “Laggiù c’è Libero! Lo conosci Libero?”. Mi dice di no, mai sentito nominare.

Faccio spallucce e bisbiglio tra me, aprendomi a un sorriso: “Davvero non conosci Libero? …. Che mondo!

 

LA VITA NELLE COSE, ANCORA

Ultimo quadro.

Dopo dieci anni, si svuota pure l’ultimo container.

E ti chiedi perché mai non hai buttato tutto, lasciandoti l’ingombro delle “cose”, della “robbba”, mancando la certezza di un dove in cui poterla collocare un giorno.

Quel beauty me l’aveva regalato mio padre, compivo 15 anni e lì ci misi tutto tranne i trucchi, per i quali non ho mai nutrito grande simpatia. Era piuttosto lo scrigno dei segreti, il ricettacolo dei sogni, dei misteri, delle liste nere, degli oggettini strani di una ragazzina.

Non aveva torto Platone, a cacciare i poeti dallo Stato: accumulatori seriali, patologici cultori delle cose inutili, nota stonata nel concerto di motori delle fabbriche che producono “altre” cose, cose nuove, splendenti, à-la-page, che bruciano le vecchie come streghe.

Ed era proprio buffo a vedersi, quel beauty anni Settanta, squadrato come le macchine dell’epoca, sobrio nel suo colore pelle naturale, con le cerniere d’oro, il lucchettino ben protetto, e la chiavetta…

Ma ora, era arrivata la sua ora.

Pieno di polvere, ma in perfetto stato, lo guardo a mala pena per il dispiacere di quell’abbandono, lo metto in una busta insieme a una ventina di vestiti vecchi, e cerco una raccolta di indumenti. Il primo box che trovo è complicato da approcciare, c’è traffico, non c’è parcheggio, allora vado oltre, ne vedo da lontano un altro in mezzo a Via Strinella.

Accosto. Sul marciapiedi c’è una donna giovane che aspetta l’autobus. Scendo, prendo il sacchetto coi vestiti, lo poggio sul ripiano, tiro il maniglione, glu-glu-glu, e va giù, nel baratro del cesto. Rimetto in asse il maniglione, torno in macchina, e prendo il vecchio beauty impolverato. Come un ostensorio lo tengo in mano, mi avvicino al secchio. Ma la signora fa un piccolo grido, dice: Scusi, per favore! … Mi giro a lei, che è ferma, nascosta dagli occhiali e da un foulard tirato sui capelli.

Se lo deve buttare, lo darebbe a me?

Richiudo il maniglione. Le vado incontro, mentre un groppo mi sale nella gola. “Davvero lo terrebbe?” le dico, con la voce un po’ strozzata, la pelle che mi si arriccia sulle braccia. Volentieri – dice lei. E per alleggerire l’imbarazzo che potrebbe forse avere nel prendere una cosa da buttare, le dico, come fossi un venditore: “Se le piace il vintage, questo qui è perfetto”. Mi avvicino, apro il coperchio, a mostrare la meraviglia dell’oggetto, e come vecchie amiche ridiamo, ammirate come due bambine, poi apro tasche e taschine, le mostro lo specchietto in perfette condizioni. E’ contenta, dice che lo regalerà a sua figlia. La ringrazio più volte, felice che la cosa abbia un’altra vita. Me lo aveva regalato mio padre a quindici anni, dico a giustificare un po’ la mia emozione.

Lei lo prende con cura, lo aggiunge alla sua borsa.
Tendo la mano, la stretta è vigorosa per la gioia, ci salutiamo un po’ commosse entrambe.

Che sceme, eh? Un’adorabile scemenza, che potete capire solo voi che siete qui.

Le cose hanno una vita, hanno una storia, una poesia nascosta. Quel facile buttare che riesce tanto bene a tutti, io non ce l’ho. E – lo vedi? – c’è sempre un modo per riciclare tutto, è il ciclo della vita, le cose devono girare, per tonare vive.

Viaggio leggera adesso, è vero. Dal il terremoto ho imparato a non legarmi a niente. Non puoi perdere quello che non hai.

Ma insieme a quei Trecento se n’è andato via dell’altro, che riaffiora ogni tanto, ed io lo lascio andare, come sa fare la mia testa un poco svaporata.

Lo lascio andare, sì, finché… una voce non dica: “Lo dia a me”.

 

…………………….


Gnaris Barkley – Crazy

SIT KARMA

Certi giorni sono giorni dharma.

Oggi, per esempio. Mi sono fermata all’edicola e ho incontrato una signora che mi ha sorriso e ha fatto una carezza al mio cane, cosa rara e preziosa. Eh, aspettate! Aspettate a dire che è la solita stronzata retorica, non è questo il punto, lasciatemi continuare a raccontare. Cosa rara e preziosa dicevo, ancora più rara e preziosa in questa città, dove tutti sono incazzati, anzi hanno l’incazzatura congenita, gliela vedi nella faccia, nei piedi, nel modo di camminare, nel tono della voce. Certo, per lo più se ne ha ben donde, in questo contesto, eppure io credo che bisognerebbe sforzarsi di sconfiggere questo stato di infelicità, coprendolo con le piccole cose che ci fanno contenti. Vedere qualcuno che ti sorride è una di quelle cose.
L’emozione subito mi si è tradotta nell’allargarsi di un sorriso vero e profondo

Il tutto dura pochi istanti. Poi lei prende il giornale e fa per lasciarmi il posto, ma ci ripensa e chiede un gratta e vinci. Mi chiede il permesso di grattare subito lì davanti, io dico prego si figuri faccia pure. Gratta… e vince! Cento euri. Ci mettiamo a ridere tutte e tre (pure Roberta, la ragazza dell’edicola). Alla signora gentile si scompigliano i capelli, è veramente emozionata, intanto io rido come una matta, sono contenta davvero. Questa bella sensazione me la porto dietro.

Poco dopo sono in macchina, oggi è il giorno del miele e faccio un breve viaggetto per il mio rifornimento invernale.

Per strada un tizio con un bel macchinone luccicante inizia a tampinarmi, spinge, spinge, freme, s’attacca al posteriori. Io quando mi tampinano non accelero mai, anzi rallento per farmi sorpassare, a volte addirittura metto la freccia e accosto, e mentre mi affiancano gli faccio un gesto di incoraggiamento con le mani per dire e passa, passa, vai, vai corri che tanto ci vediamo in fondo alla strada. E così è. Mi affianca, mi lancia uno sguardo dal finestrino, come a dire levati dalle balle.
Non ricambio minimamente. Vai, vai: pur col tuo macchinone, sei e resti un cafone.

Scendo giù giù per la china, la strada finisce a uno Stop.
E lui è lì. Allo Stop ci si deve comunque fermare.
Sorrido.
Ehi, aspettate, pure stavolta non è mica finita.

Avrei voluto attaccarmi al suo posteriori per farmi riconoscere – lo vedi? sono quella di poco fa, alla fine siamo arrivati insieme, lo vedi? corricorri, e poi ti devi fermare allo Stop. Ma una Golf blu confluisce sulla strada, si infila tra lui e me, arriva sullo Stop. Il guidatore già arriva lungo, per di più evidentemente si distrae e… CRASCHHHHH……
ENTRA. Entra letteralmente nel posteriore del macchinone. Il cafone di cui sopra scende con le mani nei capelli. Dalla bocca, qualche suono disarticolato: …la … mia…. macchina
Metto la freccia… svicolo lentamente… lo affianco… gli guardo il posteriori completamente distrutto… passo lo Stop e me ne vado.

Una risata incontenibile mi sale dalla pancia alla bocca… rido… rido… rido!

E penso che sì, oggi è stata una bella giornata, un buon giorno per vivere.
Ogni volta che mangerò il miele, me ne ricorderò.

Sarà un miele dolcissimo, quest’inverno.

TWIN

Twin è un pointer bianco e nero.

L’ hanno abbandonato nei pressi del canile e lui è rimasto in zona, con il modo di fare tipico dei cani da caccia: girano, girano, girano instancabili. Twin gira nel parco guardando per aria, in alto, sulle fronde degli alberi, in attesa di un frullo d’ali da inseguire. In quello sguardo c’è un mondo intero, una storia che nessuno sa, ma che mi sono fermata ad ascoltare, in rispettoso silenzio, tante volte.

Stamattina però Twin aveva un padrone, un giovane uomo con un altro pointer bianco e nero, molto simile a lui. “Per questo l’ho chiamato Twin, gemello!” mi dice. Gemello del suo vecchio cane.
“Il mio cane ha tredici anni, questo ne avrà quattro, al massimo cinque”. E mentre dice questo a me sembra che dica: “adesso ne avrò uno uguale, e quando il mio amico mi lascerà avrò il suo gemello. Me l’hanno mandato uguale, e io l’ho preso, me lo sono portato subito a casa”.

L’uomo ha l’accento dell’Est, e gioca sul prato tirando un bastone ora all’uno o all’altro dei suoi due cani gemelli diversi. Il pointer vecchio resta seduto, il giovane corre e corre, e ogni tanto si allontana, e scompare, poi torna quando l’uomo fischia, come fosse il suo cane da sempre. A quel fischio, Twin arriva scomposto, con la lingua che balla a destra e a sinistra.
A un certo punto gli dice “seduto”, gli prende la testa tra le mani, gli apre la bocca. Poi alza la testa verso di me, e mi dice “guarda”. Sotto i lembi delle labbra vedo i canini, da un lato e dall’altro, segati. La bestiola ha i canini senza punta, spezzati, glieli hanno spuntati. L’ultimo tentativo di renderlo buono alla caccia.
Resto senza parole. L’uomo mi guarda e non parla, fa le spallucce, e poi una smorfia. E Twin resta lì, la lingua sempre fuori, gli occhi sempre persi sulle cime degli alberi, attenti a ogni muoversi di fronda, pronti a dare il comando di correre a prendere.

Non era buono a cacciare, Twin, azzannava le prede. Ma segargli i denti… Si fanno cose orribili. Ma c’è poco da scandalizzarsi, si segano i denti anche alla gente, quando “non è buona” allo scopo.

Per un sacco di gente, un cane vale l’altro.
E per ogni cane, c’è un gemello coi denti segati.

Ma ogni tanto c’è pure qualcuno che sceglierebbe sempre lo stesso cane, fedele più di quanto non lo fu il cane stesso, al punto da portarsi a casa il gemello.

Me ne vado.
L’uomo dell’Est resta lì con le sue bestiole uguali e diverse, continuando a giocare sul prato come se il tempo non esistesse, come se non ci fosse niente di più importante da fare.
Malinconiche e felici, le sue mani vigorose raccontano al mondo di aver messo riparo, per una volta, a una grande, grandissima ingiustizia.

 

NOMINA SUNT CONSEQUENTIA GENERUM

E’ che gli uomini devi farli contenti.
Che ti siano compagni, padri, amici, parenti di ogni sorta… gli uomini devi farli contenti e basta.

LUI conosce sempre tutto, capisce sempre tutto, sa tutto di tutte le cose, in tutti i campi. LUI, se non sa, improvvisa. E’ tuttologo.

E’ raro trovare un uomo che riconosca a una donna qualche merito in qualche campo. Devi essere una campionessa olimpica, o un premio Nobel, allora sì, beh… Anche se poi vai a sapere se nel privato non sia lo stesso. Voglio dire, vai a sapere se, per esempio, Federica Pellegrini non debba tacere davanti a un compagno che ha paura dell’acqua, eppure pontifica anche sul nuoto…

Incontro Laura dopo tanto tempo.
Passeggia insieme a suo marito, sottobraccio, bella coppia da sempre, una di quelle coppie che tu dici “funziona”. Ci fermiamo a chiacchierare vicino a un albero con i rami lunghi e cadenti, che oscillano a ogni ventata. A un certo punto lei, per nulla infastidita dalle fronde, dice ma guarda che bello questo ciliegio!

Il marito subito puntualizza: non è un ciliegio, cara! non vedi che è un giovane albero di noce? In realtà non ricordo esattamente che cosa proponesse come alternativa al ciliegio, ma non è importante. E’ importante il modo in cui la contraddice, con assoluta fermezza.

Laura insegna scienze, è una persona molto preparata, e se dice che quello è un ciliegio, è un ciliegio. Ma il marito insiste: noddavvero, quello non è affatto ciò che Laura dice che sia.

Imbarazzo di Laura?

Nessuno. Mi guarda, fa spallucce e accenna sul viso un’espressione che non dimenticherò mai. Un’espressione che … come faccio a descriverla? un’espressione furbetta, come se facesse l’occhiolino senza farlo… una leggera smorfia della bocca… una strizzatina di palpebre… insomma come a dire: vabbè dai, Luì, facciamolo contento, che ci costa?
Caspita. Bel gesto.
Sono quasi tentata di dargli per nome “Amore”.

Ma è proprio sui nomi delle cose che non ci capiamo, uomini e donne. Sembriamo razze diverse, sembriamo addirittura abitare pianeti diversi, pur calpestando la stessa terra. Dai nomi che i maschi danno alle cose si capisce che il loro mondo è diverso da quello delle femmine. Amore? Sarà amore per LUI.

Tu invece su una questione come quella del ciliegio ti ci impunti. A te sembra un gesto di ipocrisia acconsentire a tutto quello che dice, acconsentire come hai visto fare dalle madri e dalle nonne. Una mancanza di rispetto.
E’ un atteggiamento culturale, non di carattere.

Eppure ti trovi in un mondo in cui tutti hanno finito per dire che discutere per un albero è stupido. Bisogna cedere sulle cose poco importanti, per non mollare poi sulle cose serie. Lasciare le prime, e prendersi furbescamente le seconde.
E, soprattutto, non confonderle.

Perciò, se sai stare al mondo, quando il tuo compagno-marito-parente o quel che sia dirà una stronzata, tu sorridigli, sbattendo le ciglia, senza alcun imbarazzo. Esattamente come fai quando il tuo cane fa la cacca per la strada: la raccogli col sacchetto, la chiudi per benino, sorridi soddisfatta per la funzione fisiologica espletata.
Poi, butti orgogliosamente nel cestino il sacchetto con la cacca.

Davanti a una stronzata, gli devi dire che ha ragione. E lo devi guardare con gli occhi pieni di tenerezza. E’ questo che lui chiama Amore.

Allora sì, che le cose funzionano.

IL MERLO

E’ una delle tante storie del primo periodo, il più duro. Avevamo più forza fisica, è vero, ma eravamo tutti sotto choc.
Questa storia era sempre rimasta dentro di me, non ero mai riuscita a raccontarla.
L’ho liberata nell’imminenza del 6 aprile, ed è stato il mio modo di parteciparlo quest’anno.
Perché più passa il tempo, e più, per dire del presente, mi torna in mente il passato…
Mah!

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Giorni duri, quelli dei cartelli rossi che urlavano C.O.M. 1, C.O.M 2, C.O.M 3.

Agosto. L’Ufficio di Vicepresidenza era un container, il Container n°19. La cabina di comando che collegava la mia scuola al resto del mondo era tutta lì, un filo volante portava la luce, un altro portava la rete.

Arrivo al piazzale della scuola e vedo un camion enorme, snodato, composto da due dinosauri giganteschi. Sta cercando di fare manovra per entrare nel piazzale. Mi avvicino e vedo al posto di guida un autista piuttosto malconcio, scuro, pieno di capelli e di barba. “Deve scaricare”. Così è scritto sulla bolla.
Il camionista è slavo, parla un po’ di Inglese, ma io non capisco e chiamo Anna, che è madrelingua. Discorsi animati, gesticolazioni. Sbrigo altre carte, li guardo dal finestrino del container, alla fine si capisce che è proprio così, deve scaricare per noi. Si tratta di una donazione, sono computer. Computer? Ma è fantastico! Nessuno riesce a capire chi li manda e quanti sono, ma una cosa è certa: sono tanti, tanti, tantissimi scatoloni enormi dentro a quel grandissimo camion, probabilmente non semplici pc, ma intere postazioni. E allora su, diamoci da fare. Il camionista si piazza con i piedi sul cruscotto, mastica una gomma.
Enzo va a telefonare per cercare una ditta di trasporti attrezzata per lo scarico merci. Passa un’ora al telefono, ma niente da fare, pare che tutti i mezzi siano impegnati, la gente sta portando via i mobili dalle case rotte. Il camionista si agita, inizia spazientirsi. Dice qualcosa sbraitando, io chiamo di nuovo Anna per sapere che cosa vuole. “Dice che lui deve ripartire”. “Deve ripartire? Ma stiamo scherzando? Noi dobbiamo scaricare i nostri computer!” “Dice che non è un problema suo, che tra due ore lui riparte, carico o scarico, lui deve tornare in Romania”. “In Romania? Con i nostri computer? Ma siamo matti? Dobbiamo fare qualcosa”. Enzo sembra scoraggiato, provo a fargli animo, a dirgli di cercare altre ditte, io decido di provare con i Vigili del Fuoco. Niente da fare, tutti i mezzi sono occupati, siamo in piena emergenza. Insisto un po’ al telefono con i Vigili, con garbo, vergognandomi in verità, perché forse quei computer non sono quella che si dice “una priorità”, ma io penso ai ragazzi, all’inizio della scuola, alla consolazione di avere quel parco macchine nuovo, a quanto possa essere importante per loro, senza una città, avere una scuola ben attrezzata. E così tento il tutto per tutto, telefonata dopo telefonata.

Mi guardano tutti un po’ scettici, al Container n°19, non capiscono questa ostinazione. Telefonata dopo telefonata, faccio la faccia tosta, voglio parlare con il Comandante, dico, telefonata dopo telefonata, “sta a Roma” mi dicono “riunioni di emergenza”, dicono, telefonata dopo telefonata, passa un’altra ora, telefonata dopo telefonata, il tempo corre e io cerco di correre più di lui. Il camionista sembra essersi calmato. Ha disteso lo schienale, i piedi sempre in alto, poggiati sul cruscotto, forse dorme.

Alla fine riesco a parlare con il Comandante, a Roma. E lui mi ascolta. Non sbuffa, non lo avverto seccato, non lo avverto frettoloso. Anzi, nella sua voce che dice solo “Mi dica, professoressa”, avverto uno spiraglio, un barlume di possibilità. E così vomito nel telefono tutta la mia ansia. “Ingegnere, è assolutamente importante scaricare questi scatoloni, ci aiuti, sarà un anno scolastico duro, questa scuola sarà agibile, potrà essere un punto di riferimento per tutta la città, per tanti studenti, potremo tenere aperto il pomeriggio, potremo tenere impegnati i ragazzi, tenere dei corsi, l’inverno è lungo…”.
Io parlo, lui ascolta. E più lui ascolta, più io parlo. Gli trasmetto tutta la mia disperazione.

Non so dire perché vidi in quei computer la soluzione di tanti problemi, questo non lo so. So solo che sotto quel porticato tutto scorticato io vedevo uno spazio chiuso, un centro polifunzionale coperto per i giovani, con quelle postazioni ben sistemate, il wireless, e tanti ragazzi. E mi sentivo addosso tutta la responsabilità di quello scarico.

Deve averlo sentito, l’Ingegnere Comandante dei Vigili del Fuoco, perché quella voce calma e calda disse: “Quanto sono grandi, questi scatoloni, professoressa?” “Dico “Ognuno più o meno sarà un metro e mezzo per un metro e mezzo, dovrebbero essere delle postazioni attrezzate“. “Mi lasci vedere, la richiamo io”, dice.

Restai in agitazione, non riuscivo a sbrigare altre carte, lo sguardo puntava su quel camion enorme, enorme come la città in macerie, enorme come la speranza che avevo di scaricare tutti quei computer. Circa mezz’ora dopo squilla il telefono. “Professoressa?” dice la voce. “Sì sono io, mi dica Ingegnere, ha buone notizie per noi?” “Guardi, siamo riusciti a conciliare, è possibile interrompere un lavoro per un’ora. Speriamo che sia un tempo sufficiente per voi”. Io pensai disperata che in un’ora ne avremmo scaricato sì e no un terzo. “Badi, adesso le manderò un mezzo adatto. Si chiama ‘merlo’. Vedrà…”. Sentii nella sua voce un tono di soddisfazione ma anche – come dire – paterno. Non lo dimenticherò mai, mai in tutta la mia vita.

Esco dal container n°19 e inizio a chiamare tutti, dal Dirigente, al Segretario, ai bidelli che stazionano sotto un albero per ripararsi dal caldo. Mi sento fuori di me dalla soddisfazione. “Arrivano i Vigili del Fuoco, arrivano i Vigili del Fuoco, ci aiutano loro, ce l’abbiamo fatta”.

Io non so perché per me era vitale questa storia dello scarico dei computer. Le nostre reazioni non erano sempre normali, in quel periodo, e la cosa certa è che io avevo paura di quell’inverno che doveva arrivare, tanta paura. Sembrava che nessuno ci pensasse, all’inverno dei ragazzi, invece io non riuscivo a pensare ad altro. Ed è ancora così.

Intanto il tempo passava e i Vigili del Fuoco non si vedevano. L’attesa, il caldo afoso di quella mattina, s’erano fatte le due, e io iniziavo a cedere allo sconforto. Forse non avevano potuto interrompere quel lavoro, forse non riuscivano più a venire. Il camionista aveva ricominciato ad agitarsi, a sbraitare, Anna cercava di dirgli che il mezzo stava arrivando, lui le diceva che comunque ormai ci sarebbe voluto troppo tempo per liberare il camion.
E finalmente sentimmo il rombo di un motore.

Non ci fu alcun bisogno di chiedersi se fosse lui, perché aveva ragione l’Ingegnere, era proprio inconfondibile, lui, IL MERLO, creatura stupenda, agile, veloce, scattante, col suo becco giallo, e due Vigili sopra che io vidi come eroi su un ippogrifo. Ho amato quel merlo non appena l’ho visto, ma ancora di più l’ho amato non appena ha iniziato a lavorare. Con un’agilità sorprendente il merlo infilava le sue zampe sotto ogni scatola, la sollevava delicatamente e poi la appoggiava a terra. Riusciva a muoversi in spazi angusti con un’agilità sorprendente, scartando tra gli scatoloni, il camion e il porticato. Erano le quattro ormai, erano andati tutti via tranne il Preside, Enzo, Paolo e io. Vidi il Preside togliersi la giacca e iniziare con Enzo a sistemare gli scatoloni appena appoggiati a terra, spingendoli sul pavimento perché trovassero posto senza occupare tutto lo spazio che avevamo preparato nell’atrio agibile della scuola. Il camionista aveva capitolato, e ormai era rassegnato ad aspettare che finissimo.

Aprimmo il primo scatolone messo a terra: il contenuto era strano… le postazioni erano colorate… Provammo a montarne una. Sedioline piccolissime… Erano postazioni per bambini. Dopo i primi momenti di smarrimento, ricontrollata la bolla, l’indirizzo, il destinatario, tutto giusto, era però evidente che la donazione era per una scuola materna: sicuramente avevano dato il nostro indirizzo per motivi logistici. “Va bene, ancora meglio, saranno per i bambini, che hanno ancora meno strumenti dei ragazzi grandi, per trascorrere questo inverno”.
Come previsto dal Comandante, in un’ora lo scarico fu completato, i due Vigili non smisero un solo secondo di lavorare, alternandosi alla guida. Ci salutammo, alla fine, pieni di soddisfazione.
E noi restammo lì. Distrutti di fame, di stanchezza e di fatica.

Quando andarono via tutti, io restai da sola, seduta sullo scalino del portico, e mi misi a piangere.
Vi sembrerà stupido, ma il momento in cui è comparso il merlo resta uno dei più fulgidi della mia vita.
Non lo so perché oggi ho voluto raccontare questa storia.
Forse perché ogni anno è più forte il peso.
O forse perché non è capitato più che piombasse un merlo dal cielo, come un miracolo.
E che io mi sedessi su uno scalino a piangere.



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LA PUGLIETTA


Questa è la cosa più bella che ho scritto per la mia città.
Era il 12 febbraio 2014, dal Progetto CASE di Sant’Elia.

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“La Puglietta” è quella parte della Piazza dove al mattino batte il sole.
A una cert’ora, infatti, Piazza Duomo si fa di due colori: scura la metà che sta dal lato della Villa, chiara e assolata quella che dà sul lato opposto. Ecco, quella lì, proprio quella a solatìo, è la Puglietta. E’ quella parte calda della piazza dove batte il sole, che i nostri vecchi chiamavano “Puglietta” ironizzando sul comune passato pastorale. Quanto in quel nome ci sia la nostra storia transumante, è facile capirlo.

Un bel calduccio c’era, alla Puglietta, come il caldo che sentivano i pastori che portavano d’inverno le greggi al Tavoliere. Gli anziani, proprio come i pastori che dall’Abruzzo scendevano alla Puglia, migravano da un lato all’altro della piazza. Appena il sole usciva a stagliarsi su quei muri, i vecchi lentamente andavano a disporsi lì davanti, usciti non sapevi mai da dove.
Mentre la piazza, al centro, era il regno delle donne e del mercato, la Puglietta era il regno dei maschi, l’androceo dei vecchi, un piccolo senato. E mentre le femmine si davano da fare a commerciare, a contrattare, a sistemare le povere granaglie al centro della piazza, i vecchi, belli e incappottati, quando il sole usciva, spuntavano anche loro, e andavano a stagliarsi contro il muro. Il muro piano piano iniziava a riscaldarsi, e faceva la funzione di un bel termosifone. Così gli anziani gli stavano da presso, faccia alla piazza, e schiena sui palazzi, spalla contro spalla, in lunga fila: sembravano piccioni lungo una grondaia. Ciarlavano, guardavano i passanti, commentavano, cercavano notizie l’un dell’altro. Alla Puglietta i vecchi maschi, a modo loro, spettegolavano del più e del meno.
Secondo un uso medievale e antico, per nominare qualcuno, non usavano il nome, né il cognome. Usavano il paese dei natali, il luogo dell’origine dei padri. Per esempio, invece di “Giovanni”, dicevano “quiju de Marana”. Oppure, invece di dire “Antonio”, dicevano “quiju de Bagno”. Era la frazione a dare identità a quel Giovanni, a quell’Antonio, nomi comuni di persona, che solo dalla terra traevano la giusta identità. E così i campanili, in un modo o nell’altro, se li portavano dovunque, i vecchi, e cercavano per loro il giusto posto, anche sulla piazza, alla Puglietta.

Quando non parlavano de “quiju de Campotosto” o de “quiju de Paganica”, tacevano, i vecchi. Potevano star lì con le spalle incappottate al muro anche tutta la mattina, senza dire niente, contenti dell’appoggio. Poi si faceva ora di pranzo, e piano piano, la migrazione seguiva il flusso opposto, se ne tornavano al loro chissà-dove.
I più colti parlavano di affari, di politica, di sport, di personaggi in vista. Chi era del contado, invece, si accontentava di guardare e commentare quello che capitava intorno. E le dinamiche dei vecchi alla Puglietta erano quelle dei bar, dei circoletti di ricreazione. Ma invece che stare dietro a quattro tavolini, avevano davanti il cuore vivo di tutta la Città.
Rari erano gli anziani che uscivano di sera. Troppo freddo. I più, invece, amavano vedersi di mattina, alla Puglietta. E lì si ricontavano le pecore. Quelle che c’erano, e quelle che già erano partite. I vivi e i morti. E la giornata non era passata, se al mattino non eri stato alla Puglietta.

Ora gli anziani, quelli stessi, non hanno più una Puglia che li scalda. Sparpagliati come sono, hanno pagato il prezzo più pesante della disgregazione. In tanti sono morti sulla costa, in tanti nelle case di riposo, in tanti li vedi, appena il sole esce, migrare dalle CASE ed iniziare a fare il giro, intorno intorno. Ma non ci sono muri che si scaldano, come alla Puglietta, nel Progetto CASE. Il cortile è il regno dei bambini, e i vecchi stanno sempre dietro ai vetri, alla finestra, quasi si scusano di essere presenti, di dare tanta pena, così tanto disturbo. I più in gamba li vedi uscire a mezzogiorno: giornale, spesetta, ritorno. I lottatori non si sono mai arresi, hanno tenuto insieme le famiglie fino all’ultimo respiro. Altri trascinano quei piedi stanchi e vecchi sopra al marciapiedi, fanno un giretto, s’imbucano di nuovo dentro casa.

Mario cammina con fatica. E’ come spento, da quando Maria, due mesi fa, se n’è volata in cielo. I vasi di Maria, dopo due mesi, si sono già seccati, nessuno ha più la forza di curarli.
Una sera mi suonano alla porta. Era Mario, non lo vedevo da prima che Maria se ne volasse via. Mi dice: “Addò abbita Giorgio?”. Io, dopo un breve convenevole di affrante condoglianze, gli chiedo “Giorgio chi?” E lui: “Quiju de Rojo!”. Dice proprio così, “quiju de Roio!” e mi guarda, convinto che io capisca, convinto che io sappia. Convinto che Giorgio io non lo conosca dal cognome, ma dal fatto che è di Roio, la terra, unica certezza per trovarlo ancora.

Allora io sorrido, e poi lo abbraccio forte.
Per un poco, ripenso alla Puglietta.
A come, senza piazza, si torna ai campanili.
A come le giornate vanno in fretta.

puglietta2

LA STORIA DI NATALE

Un giorno per la fretta s’è inceppata
la cerniera di uno scarponcino appena comperato.
“Lo butto… ” dissi dispiaciuta,
ma poi ci ho ripensato.

E sono andata da quel ciabattino
che ha la bottega proprio sulla strada
e non ha l’aria di servire Prada.

“Lo butto?” chiedo al calzolaio.
“Buttare? Io non ne ho mai buttate un paio.
Buttare è una parola che non ho mai detto:
perché io guardo, aggiusto e poi rimetto”.

Ha preso la mia scarpa l’artigiano
e sulla Necchi primi Novecento l’ha poggiata.
Con una subbia poi, a dente a dente,
in quindici minuti l’ha aggiustata.

Ho applaudito come una bambina
non per la scarpa, ma per tutta quella scena.

E nell’andare ho stretto la sua mano,
ruvida, consunta, da artigiano.

Sarei rimasta a lungo in quella stretta
ma l’imbarazzo ha vinto, e anche la fretta.

E sono uscita di nuovo sulla strada
dove viaggiano tutte le formiche
che hanno una sola legge da osservare:
essere stupidi, comprare, consumare,
andare sempre nuovi,
essere il proprio abito con tutta la stampella,
profumare di scemo
e non capire
un mulatto un albino una zanzara
una libidine
un rifiuto.
 


scarponcino


 

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Patty – Smells like teen spirit

SPETTACOLO

Avrà avuto vent’anni, il ragazzo.
Cappuccio sulla testa, e mani in tasca,
e gambe forti, e muscoli tirati.

Il passo, però, era piccolo piccolo,
frenato, innaturale,
lento come mai un ragazzo ha potuto
lento come mai in un ragazzo ho veduto.

Avrà avuto vent’anni, il suo cane,
quattro zampe a fatica trascinate
e pettorina, pulito e lucido il pelo.

Ho visto vent’anni di giochi, di corse sui prati.

Era il cane a tenere il ragazzo al guinzaglio,
a insegnargli il controllo del passo
e il rispetto del tempo che invecchia.

Ieri ho visto un cane
insegnare a un ragazzo
ad accettare il tempo
e perfino la morte.



ragazzo con cappuccio


Tom Weits – Rain dog

IL PIUMONE

Le vicissitudini di una città sconvolta. E l’urgenza dei problemi concreti, prima della grande nevicata…
____________________________
 
 

Spesa: fatta.
Casa: pulita.
Provviste: pronte.
Dicono che stanotte nevica.
Adesso torno a casetta e mi butto sul divano. Non mangio neanche, mi butto sul divano e chiudo gli occhi e non esco fino a domani, ammesso che domani si riesca a uscire.
Niente da fare, sorpresa: Teo ha sporcato il mio sacro piumone d’oca, da me venerato come una reliquia pre-sismica, e amato come Linus ama la sua copertina.
Teo mi guarda con aria interrogativa. Inequivocabile, ai piedi del letto, proprio sul bordo inferiore del sacro piumone d’oca, campeggia qualcosa di molto simile allo sgotto di un gatto.
In preda al panico, decido coraggiosamente di provvedere. “Stanotte nevicherà, e io come sempre dormirò sotto quel piumone, lo giuro!” Mi sento come Rossella O’Hara quando dice: “Non soffrirò mai più la fame, mai più!”. E mi piace.
Prendo il piumone e, pestandolo di forza come uva alla vendemmia, lo infilo dentro un grosso sacco condominiale, e vado in cerca di una lavanderia. Per fortuna non è lontana…. Niente da fare, chiusa. “Accidenti, oggi è lunedì. E il lunedì i negozi sono chiusi”. Inizio a parlare da sola. “Ma insomma, aprono la domenica e chiudono il lunedì? Fate i bravi, su, state chiusi la domenica, che uno sta a casa e magari ha tempo di far uscire il cane, e aprite il lunedì, che uno va a lavorare, no?”. Mentre brontolo cerco una self-wash. Cavolo, il cervello mi si annebbia, non mi ricordo dove sta una lavanderia self. Mi sembra al Castello. Vado al Castello. No, non c’è, il ricordo appartiene all’era pre-sismica. Allora è a Santa Barbara! La vedo col ricordo: grande, luccicante, a due vetrine, che quando ci passavo davanti mi chiedevo sempre chi mai andasse, in una self-wash. Ecco, ci vado io. Proprio io. E così, rotonda dopo rotonda, ci arrivo. Niente da fare, la lavanderia non c’è più, è tutto chiuso e diroccato. Anche quello è un ricordo di prima del terremoto. Che poi cominciano a essere quattro anni, cavolo, e come mai i ricordi non si sostituiscono con altri ricordi?
Comunque, gira che ti rigira, alla fine ne trovo una. E’ tutta libera, che fortuna! Infilo il sacro piumone da 8 chili dentro un igloo, cerco il sapone… No: sapone finito. Ah, ecco perché non c’era nessuno. Riprendo il sacro piumone dalla lavatrice, lo rinfilo nel sacco nero condominiale, lo ributto in macchina e cerco un’altra lavanderia. Quelle che conosco sono chiuse e non hanno il self-wash. Elaboro un piano B. Il buon senso mi dice: fai prima a ricomprartene uno nuovo. Ma la parte furba di me dice: no, non va bene continuare a comprare roba, quando ce n’è tanta ammucchiata un po’ qua un po’ là. Decido di dar retta alla parte furba. Vado alla casa rotta dove tengo la roba sfollata. Cerco di recuperare un trapuntino leggero ma caldo, che può ricordare da lontano il sacro piumone unito. Con la torcia accesa entro nella casa rotta, cerco, ma il trapuntino non c’è. Si sarà perduto sulle strade della California, i mille spostamenti di roba. Ricomincio la caccia alla lavanderia. Ne trovo finalmente una aperta, scendo dalla macchina e lascio lo sportello aperto e il motore acceso. Chiedo dalla porta: la signora dice che a lavare un piumone ci mette una settimana. “Una settimana? Ma scherziamo? Stanotte nevica! E IO DEVO DORMIRE SOTTO AL MIO SACRO PIUMONE”. La signora mi dice che c’è una Self a un centro commerciale lì vicino. Vado. Parcheggio, tiro giù dal bagagliaio il sacco come fosse un cadavere e lo trascino fino alla self. Noooo: c’è una fila che arriva fino alla porta. Parlano in una lingua che non capisco e sono vestiti in modo strano. Alcuni sono lì con tutta la famiglia. I bambini stanno giocando per terra con delle automobiline. Sembra quasi che abitino lì e che quella sia la lavatrice di casa. No: il sacro piumone non entrerà in quella self-wash. Torno indietro sempre trascinando il cadavere nel sacco, lo butto nel bagagliaio, e la parte furba di me dice: “Compro il sapone e vado a lavarlo in quella che ho trovato per prima”. Al primo supermercato compro il sapone e vado. Arrivo, infilo, accendo… Ce l’ho fatta! E invece…. salta la luce!!! Cacchio! Cerco di stare calma e di ragionare. Il portello per recuperare il sacro piumone non si apre. Dico: e mo? vabbé ripasso domani mattina, se non si apre, non me lo possono fregare… Mi viene da piangere a pensare al sacro piumone abbandonato lì, solo solo, di notte. Anche questa volta mi sembra di stare in un film tipo Io sono leggenda, in una società post-atomica. Cacchio, però nel film il cane non sporca il piumone! All’improvviso mi squilla il telefono: è Anna, dice che vuole passare a trovarmi. Dico “Anna, sei la mia salvezza, tirami via di qui”.
Prima di uscire vado a salutare il sacro piumone: voglio vedere come sta e mandargli un bacetto. Tanto per fare, provo ad aprire il portello e… miracolo, si apre! Recupero il piumone, lo metto nel sacco nero, butto il sacco nel bagagliaio e vado a casa soddisfatta.
Sto un po’ con Anna, ci facciamo il tè e io mi chiarisco le idee. Ma appena lei esce… mi ritorna la smania del piumone: DEVO DEVO DEVO riuscire a lavarlo prima di stanotte! Potrei tornare alla self-wash del centro commerciale, in fondo ora tutte quelle brave famigliole saranno tornate a casa a cenare. Ma credo che si farebbe mezzanotte per asciugare. Che io ci starei pure, ad aspettare il sacro piumone pulito fino a mezzanotte, Se non fosse che sta per nevicare e rischio di restare chiusa lì dentro fino al disgelo. Mi vedo come dentro a The Terminal. No, vedo Novalee di Qui dove batte il cuore. In effetti la scenografia ci sta tutta, pure quella urbana di Sequoyah in Oklahoma… Mi arrendo, torno a casa.
Guardo sconfortata il sacro piumone chiuso dentro al sacco nero condominiale. Sarà morto asfissiato. E decido di fare a meno anche di lui
Al diavolo, che nevichi pure. In fondo, siamo già al 25 novembre.
All’Aquila, tra poco, è Primavera.

 

lavanderia1

D’AMORE, DI CORAZZE E D’ALTRO ANCORA

Questo scritto è dedicato a Gianpaolo,
che ha ripristinato il blog dopo l’attacco pirata.
Gianpaolo che ho seguito per soli due anni,
orsono ventisei,
Gianpaolo che da allora pensa
chissà perché
di essere in debito con me.
Grazie

Io non faccio un mestiere.
Non trasmetto sapere.
Aiuto ragazzi e ragazze
a forare corazze.

A loro sembra bastare.

Ma per bucare li devi amare,
è cosa essenziale,
non si può fare senza questa,
io amo di loro ciò che altri detesta.
Generazioni passano,
i loro capelli cambiano
cambia la loro musica,
ma le paure, oh,
sono sempre le stesse.

Io insegno solo
a lasciarsi amare.

E a loro
(almeno a loro)
sembra bastare.

 

il_bacio
 
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The years after – I’d love to change the world

NON SEMPRE MI AMARONO

 
Non sempre mi amarono quelli
che dissero di amarmi.

Alcuni scelsero al mio posto,
cioè per il mio bene.
Bene non seppi
di chi fu quel bene.

Altri ci furono,
che la parola amore
non seppero mai dire.
Barche con grandi vele
ammainate,
che non conobbero mai il mare.

Anche chi m’adorò come regina
ebbe a negarmi quello che io sono.
Mi tolse un po’ di anima,
e non mi chiese mai perdono.

Altri mi videro madonna,
mi tolsero la carne.
Ed altri strega,
ciechi del mio cuore.

Va bene a chi non sa.
Va bene a chi è.

L’amore non ha paura,
lui non possiede niente.
Sai che non ti santifica,
sai che non ti pretende.

Quanto più grande è un uomo
che parla poco
e che conosce il mare.

Ha la tua stessa musica
e occhi per capire.

Con la sua voce calda
lui parla il nome tuo,
soltanto quello dice,
e tu gli dici il suo.

Tende la mano
morbida,
fa cenno
di ballare

e in lui ti riconosci
così,
senza parlare.
 


lunalbero
 



Shawn Phillips – Woman KeepOn Sleepwalker Song For Mr C.


IL SEGRETO DELLE PASTARELLE

Anche questo scritto nasce da fatti realmente accaduti. Un po’ romanzati, ma è una storia che amo molto, e mi è piaciuto raccontarla.
_____________________
 
 

            Era una piccola pasticceria, situata su uno di quegli stradoni tristi e trafficati del dopo-sisma, buona posizione per accaparrarsi i clienti di passaggio che avevano dimenticato di portare a casa un dolce, o che dovevano inventarsi qualcosa per non arrivare con le mani in mano.
Bobo era l’unico impiegato della Premiata Pasticcera “Sorriso”, che prima del sisma aveva una bella bottega al centro storico, con le vetrine luccicanti, e che ora tirava in economia su tutto, sopra quello stradone, e tutto caricava sulle spalle dell’unico lavorante, proprio lui, Bobo, che apriva bottega alle cinque del mattino, e la chiudeva alle diciotto e trenta, dopo aver messo a lievitare le brioche per la colazione.
Bobo, per gli amici Jack, per via della sua impressionante somiglianza con Jack Nicholson, di quell’attore aveva l’aspetto, ma non lo sguardo vigoroso. Creatura mansueta lui era, mite come pochi, mite come un buon cristiano, mite come l’acqua governata di un rigagnolo, che serve ad abbeverare le bestie. Uomo scorbutico invece era Erminio, il titolare, di quelli grassi e sudaticci, che fanno tirare la cinghia alla povera gente, mentre loro la allentano sempre di più, intorno a una pancia sempre più grassa.

            La vita di Bobo si svolgeva nel retrobottega, tra planetarie e leccarde, fruste, sac-à-poche, zuccheri, farine e cartoni pieni di uova. Erminio, “Ju padrò”, faceva il gradasso davanti al banco, e diceva ai clienti di aver impastato lui, di notte. E Bobo era dietro, che schiumava tra il forno ed il frigo, d’estate e d’inverno, con orari da cani e mai una festa, specialmente nei giorni in cui è festa per tutti. Benedetto comunque, quel bel Diploma da Pasticcere! Gli aveva salvato la vita, dopo che la sua azienda era fallita mangiandosi tutto. Dopo il terremoto Bobo s’era ritrovato sotto padrone, e s’era presa la sua soma, dopo il tracollo, e la tirava, mansueto come un bue. Nessuno sapeva della sua bella laurea in Biotecnologie, ormai un pezzo di carta appeso al muro. Né lui lo diceva a nessuno. A che sarebbe servito? A farsi prendere in giro? Il signor quarantenne laureato, che faceva il ragazzo di bottega sotto padrò? Bobo si alzava alle quattro ogni mattina, tirava su dal letto il suo metro e novanta di statura, prendeva la sua divisa sempre pulita e stirata, e se ne andava a lavoro senza pensare, senza chiedere perché, anzi sapendolo, il perché: perché la vita va per conto suo, e non devi mettertici a discutere, devi portartela addosso, la vita, proprio come le scarpe, e camminare e camminare e camminare, finché  i tuoi piedi non ne prendono la forma e tu non ti ricordi neanche più com’erano veramente, i tuoi piedi, prima di quelle scarpe.

            Bobo, dal suo retrobottega, sentiva la voce dei clienti. Ju padrò invece trattava con loro guardandoli in faccia, si prendeva meriti e complimenti per la squisitezza dei dolci, e chiudeva la porta per non farsi sentire. Quando Bobo percepiva la voce di un cliente, lanciava uno sguardo alla porta, oltre i vetri, per vedergli la faccia. Aveva imparato tante cose sulla gente: quella laurea appesa al muro non gli aveva dato un lavoro, ma gli aveva affinato una sensibilità e un’intelligenza che erano un grande valore, per lui.

            Un giorno Bobo si accorse che quel rozzo di Erminio lucrava sui poveri. Sì, proprio così! Sapete com’è la storia che al bar offre sempre chi è più povero? Allo stesso modo i negozianti agevolano sempre i ricchi, invece dei poveri. Un venditore fa il prezzo più caro a chi mostra di avere pochi soldi, e fa un bello sconto a chi mostra di averne tanti. Mah! Misteri, per il gigante buono di nome Jack. Un vecchietto che veniva a comprare i bignè, per esempio, e si tirava sempre da un lato quando in negozio c’era gente, doveva aspettare che Erminio, Ju padrò, sistemasse prima tutti gli altri. E il poveretto era così umile e timido che non reclamava, aspettava, aspettava senza parlare. E capitava che i bignè finivano. Quando Bobo lo vedeva, dal retrobottega, si affannava a prepararne altri, e quando Ermino stava per dire con dispetto che i bignè erano finiti… zac! Bobo arrivava con il braccio alzato come l’angelo vendicatore, ma al posto della spada aveva un bel vassoietto pieno di leccornie. Disappunto, sulla faccia di Erminio, disappunto e incredulità, perché riteneva Bobo troppo stupido per fare volontariamente una cosa del genere. Gioia, invece, negli occhi del vecchietto, che – era evidente – si concedeva solo ogni tanto quel piccolo lusso. Sorriso ghignante, infine, negli occhi di Bobo, che aveva la soddisfazione di aver fatto felice il pensionato, e fatto fesso Ju padrò.

            Erminio ordinava le paste ripiene e le torte quasi sempre all’ultimo momento, perché era tirchio, non voleva che avanzasse mai nulla: iI cliente entrava, ordinava, lui gli diceva di tornare dopo un’ora o mezz’ora, poi apriva la porta del retrobottega e senza neanche guardare gridava: “Una Saint’Honoré”… “Una meringata alla fragola!”… “Quindici tranci alla frutta!”. Se il cliente arrivava in chiusura, a Bobo toccava sforare l’orario.

            Un anno era, ormai, che Bobo era schiavo di quel negriero, e gli affari di Erminio andavano a gonfie vele. Ma ultimamente Ju padrò non riusciva a spiegarsi come mai la clientela s’era andata livellando verso il basso: poveri, pensionati, extracomunitari, ragazzini. “Che tempi! Che roba! Che devo vedere!” sbraitava. “Siamo invasi da poveracci! Questo terremoto ci ha messo in mezzo a una strada! Dove sono più quei bei signori di una volta? Li vedevi la domenica dopo la messa, eleganti, col cappello e la pelliccia, quando avevamo la bottega in Piazza! Che soddisfazione fare quei pacchettini col filo dorato ben fermo col doppio nodo, dove loro infilavano il dito! Ora questi poveracci qui fanno sprecare più vassoi che paste!”. Bestemmiava, Erminio, contro i tempi e la malasorte, e se la prendeva col terremoto.
Rideva invece sotto i baffi, di là, Bobo, il “ragazzo” di bottega. Perché era colpa sua se i dolci diventavano speciali, più buoni, più pieni, più freschi sì, ma solo per i poveri. Una laurea in biotecnologie serve pure a qualcosa: chi mai distingue il sapore delle polveri? “Uovo e polvere d’uovo sono lo stesso!” gli gridava sempre Erminio. Ma Bobo sapeva che uovo e polvere d’uovo non sono per niente lo stesso, perciò faceva i suoi bei distinguo, nel retrobottega. I ricchi non si lamentavano, perché le paste erano buone ugualmente, ma i poveri godevano di paste ben più squisite! E quando arrivava Maria, la sarta del quartiere, una bella vedova, Bobo ci metteva del suo, e rendeva le paste davvero magnifiche, dentro, e le torte farcite come non mai. Aveva sempre cura, però, di farle un po’ più bruttine a vedersi, per non insospettire Ju padrò: e gli piaceva da morire quando Erminio si affacciava soddisfatto nel retrobottega e gli diceva con l’aria di chi ti coglie in castagna: ”Certo che quella Bresciana per Maria l’hai fatta proprio da schifo eheheheheheh”. “Eccerto che l’ho fatta da schifo” pensava Bobo ridacchiando col cuore “ma vedrai quando se la mette in bocca…”. E infatti i suoi poveri (così li chiamava Bobo) quando entravano a bottega avevano gli occhi che luccicavano di gioia. I ricchi no, loro erano sempre impassibili e uguali, sempre comunque annoiati. Per loro, una pastarella è solo una pastarella! E lui, tiè, a loro gli metteva le polveri. Tanto, al ricco che gli cambia? Ma al povero sì, oh, al povero una pastarella gli cambia la giornata, e forse gli cambia anche la vita! E Bobo, nel suo retrobottega, si sentiva come il braccio di una brava bilancia.

Mai nessuno ha scoperto il suo segreto, Bobo se lo porta a casa ridacchiando tutti i giorni.
E quando Erminio lo costringe a fare orari da Cayenna, lui è lì che pensa a Maria, la vedova col vestito rosso, pensa al momento in cui lei aprirà il suo pacchetto di pastarelle, a casa, e farà festa, facendo mmmmhhhhh mentre mangia, come fanno i poveri.

            E voi che mangiate le pastarelle, pensateci, se siete ricchi. Se c’è Bobo nel retrobottega, sappiate che quelle pastarelle sono fatte con le polveri. Ma se siete poveri…. ah! allora gusterete uova e zuccheri pregiati, dolci al sapore di marzapane, e impasti con zenzero e cannella. Bobo è lì dietro, che sogna mentre cucina, sogna il momento in cui Maria, la bella vedova, gli lancerà uno sguardo ammiccante dai vetri. Uno sguardo che dice: “Io ho capito!”

 

pastarelle


Jimi Hendrix- Mellow Jam


UN RICORDO DA BUTTARE

I dibattiti di ogni anno prima della Perdonanza, all’Aquila, sono un classico.
La Perdonanza divide gli aquilani, da sempre, ma mai come dopo il 2009.
Qui racconto che cosa successe proprio quell’anno, a cinque mesi dal sisma.
Che accadde, nella prima Perdonanza dell’era post-sisma? Nella tendopoli di Collemaggio ci tremarono le gambe, perché dissero che avrebbero spostato il campo per far passare il Corteo storico della Bolla. E’ storia, tuttora reperibile in qualche archivio, per esempio nell’archivio storico de “Il Capoluogo”
(cfr: http://old.ilcapoluogo.com/tendopoli-di-collemaggio-non-siamo-valigie/8480).
Questa è la mia narrazione, quattro anni dopo.
Panico, indignazione e… come andò a finire.

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“Domani ci spostano”
“Ci spostano? E perché?”
“Passa la Perdonanza”
“Passa la Perdonanza?”
“Sì, passa il corteo della Perdonanza”
“E dove ci mandano?”
“Ci smistano in altri campi”
“Ma che dici? Stai scherzando vero?”
“No, è così, l’hanno detto ufficialmente”
“Ma come? Stanno a pensa’ alla Perdonanza? E a noi ci annullano? Ci sopprimono? E in nome di che?… In nome di … DIO?”
“In nome di Dio e degli uomini, Luì, perché chi perde esce, e il lupo se lo mangia”.

          La fila davanti a noi, nella tenda-pranzo, si muove. Antonello si volta a prendere il vassoio, lo apparecchia, ci mette dentro il pane e le posate, sfila lentamente insieme a me davanti al nastro delle vivande. Il buonumore degli inservienti sembra una presa per i fondelli, in giorni come questo. Pare si divertano un sacco, gli inservienti volontari della mensa, ballano e cantano a suon di musica, come i clown che vengono periodicamente a regalarci palloncini a forma di animali. Ballano, cantano, gonfiano palloncini, tutta roba che può andar bene per chi una casa ce l’ha ancora e sa di poterci tornare, non per me, non per Antonello, non per quelli come noi. Ballano cantano gonfiano palloncini, ci urtano i nervi, ma non puoi dirlo, se no ti danno del menagramo, non puoi dirlo neanche in giorni in cui la beffa tocca il culmine, giorni come questo, in cui si decide di sgomberare il Campo di Collemaggio, il nostro campo.
Arrivati al tavolo, Antonello riprende da dove aveva interrotto, seduto di fronte a me.
“A me non è che me ne frega più di tanto”
“A me sì. E’ uno schifo. Io non lo reggo, uno spostamento”
“Che vuol dire non lo reggi? Abbiamo solo quattro stracci. Allora quando si tratterà di abbattere la casa che farai?”
“Non lo reggo, non lo reggo ti dico. Sono attaccata a questo posto come a una zattera, e non mi voglio spostare, non voglio essere smistata come un avanzo di cucina”
“Ma tu SEI un avanzo di cucina. Ma non lo vedi? Il resto della gente non lo vive come noi. Siamo in pochi, tutto sommato, a viverla così”
“E come la vivono, loro?”
“Come un’occasione. Come la loro occasione, e la coglieranno stai certa. Mettiti tranquilla, è così che va il mondo. Non sarai tu a cambiarlo”.
“Io non voglio cambiare il mondo. Voglio solo che non mi spostano di tendopoli”
“Non è possibile, loro possono quello che vogliono: dicono Pescasseroli e vai a Pescasseroli. Dicono questo si sposta da qui e si mette qui. Semplice”
“Da qui mi sposto solo per un tetto, non per un’altra tenda”.
Rimesto nel piatto, io, mentre Antonello manda giù roba senza sentire il sapore.
“Devi mangiare Luì. Ti aspettano tempi duri… devi stare in forze. Portati una bottiglia d’acqua la mattina, mettici dentro un integratore e mandala giù un po’ alla volta, quando sei al Container 19, dammi retta. L’inverno sarà lungo, anche se avrai l’assegnazione di una casa. Proteggiti, devi tirare la baracca. E cerca di dormire”.
“Sì sì, dormo, ma ci prendono e ci spostano, e io non lo sopporto. Ma non lo capiscono che siamo ancora sotto choc? Che siamo comunque stanchi e destabilizzati? E poi perché? Per far passare il corteo della Bolla? Ma non si vergognano? Una città in lutto, morti, migliaia di case distrutte e loro pensano al corteo della Bolla. Stiamo qui da cinque mesi, la basilica è sempre stata off-limits, e ora all’improvviso diventa praticabile?”
“Mettiti tranquilla, non ci puoi fare niente”
“Oh sì che posso, io non mi muovo da qua. Non sono una cosa”.

Raccogliamo i vassoi e andiamo al distributore di caffè. C’è un cartello: il caffè è stato tolto dai campi, lo considerano una bevanda eccitante.
“Bevanda eccitante? ma che bella novità!”
“Eh… Luì, non guardare al nostro campo. Pare che a Piazza D’Armi ci siano risse continue, prostituzione, spaccio… Devono tirare le redini con gli alcolici e tutto il resto”
“Ah, e perché non smistano quelli, di campi, invece del nostro, in cui queste cose non succedono e c’è gente normale?”
Quando dico ”gente normale” arriva Luciana: solite carte in mano, soliti occhiali sulla punta del naso, solita aria da fricchettona riciclata.
“Allora la firmate questa petizione? Vogliamo il diritto di assemblea che la protezione Civile ci nega. Venite, firmate”. Ci defiliamo mentre lei cerca di inseguirci e Antonello farfuglia qualcosa tipo “ma guarda ‘stra str**za, c’ha la casa agibile e la coccia fresca, perciò sta a pensà a litigà con la Protezione Civile…
Facciamo un pezzo di strada insieme, Antonello e io, verso l’uscita. Nella tenda-cambusa c’è il personale che raccoglie i moduli per le assegnazioni col Programma Gioiello.
“Tu ci credi?” mi chiede Antonello, facendo un cenno con il capo a indicare i moduli.
“Neanche un po’” dico io “e con la storia dell’informatica sistemeranno le cose al solito modo. Sarebbe così anche con la gestione locale”.
“Sarà così anche con la gestione locale, perché è quello che succederà. Ma ora dobbiamo ragionare alla giornata. Dai, in fondo non è male se ci smistano in qualche campo meglio attrezzato”
“Ma Antoné quale meglio attrezzato? io non sono in condizioni di ambientarmi da un’altra parte. Lo capisce chiunque che in queste condizioni meno ci si muove e meglio è. Ma com’è? Agli alberghi mandano gli psicologi e qua ci smistano come pacchi postali? Ah già, noi siamo la feccia, quelli che non si sono lasciati deportare. Le loro beghe politiche sulle nostre teste”
“Falla finita Luì, gioca in economia, dammi retta, non sprecare energie. Per noi la guerra è appena iniziata. Chissà quanti anni dovremo passare, noi, in queste condizioni. Non ce ne abbiamo, Luì, lascia perdere, dammi retta, economizza, economizza, abbassa la coccia e ‘ngrufa”.
“Quant’è vero Iddio io non mi sposto da qua Antonè. Devono venì con le ruspe, per levarmi dalla tenda. Io non c’ho più niente da perdere, l’hai capito o no?”.

Camminiamo verso il posto di blocco all’uscita della tendopoli. Una troupe televisiva sta  intervistando il Capocampo e qualche passante sul problema dello smistamento. C’è un tizio che dice al giornalista: “Non possiamo negare il diritto al ritorno alla normalità, L’Aquila deve volare, i fedeli hanno diritto al rito”. “La tendopoli non si tocca” dice un altro “i terremotati sono trattati come oggetti dai loro stessi concittadini, è vergognoso, e ci tocca pensare che questo sia solo l’inizio. Chi ha perso tutto verrà spostato e rispostato, e chi non ha perso niente vive tutto questo con una leggerezza imperdonabile, accusando gli altri non voler riprendere la vita normale”.
Antonello se ne va sconsolato, mi lancia uno sguardo per dire “lascia fa’, non serve”, mentre io vivo una guerra tutta mia: le gambe tremano, vogliono andare a dirne quattro, i pugni fremono, vogliono battere. Ma la testa dice no. E il cuore è piccolo come una prugna secca.

La tendopoli di Collemaggio non fu mai spostata.
Il corteo si fece con altro percorso: parco, orto botanico, cerimonia all’aperto.
La porta santa si aprì. E io andai a vedere la basilica.
Fu la prima grossa rovina che vidi con i miei occhi, dal giorno del terremoto.
Entrai, alzai gli occhi sull’abside, barcollai, cercai un posto dove appoggiarmi per non cadere. Non piansi, sentii solo un lunghissimo lamento nella testa.
Da allora, altri quattro Ventotto di agosto ho vissuto, ogni anno ricchi e sfarzosi, arroganti e pretenziosi. Da allora, li detesto. E finché non riavrò la mia casa e la mia città, posto per baracconi, per me, non ce n’è.
Vivo da persona danneggiata: non lascio più scandire il mio tempo dalle feste. Mi ascolto. Scelgo solo gente che è come me. Non fingo che non sia accaduto, non parlo mai di ali, evito banalità, non alimento giostre e giostrai per riempirmi la bocca di riso.
Mettiti tranquilla, non ci puoi fare niente” fu l’ultima cosa che Antonello mi disse quel giorno, uscendo dalla tendopoli.
E sì che sono tranquilla.
E no che non ci posso fare niente.
Solo provare a essere felice.
Ma felice veramente.

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tendopoli
 

2009 Perdonanza

RISVEGLI

Fatto reale, accaduto sotto la mia C.A.S.A.
Nacque come Nota su Facebook, e molti aquilani condivisero quello che ho scrissi.
Lo lascio qui, agli Atti…

__________
 

Signora con cane.
Sandali, piedi nudi, aria stanca, cane tranquillo.

Teo mi tira verso di lei…
I cani si annusano.
Dobbiamo farlo anche a noi.
“Benvenuta” dico io con un sorriso, vincendo l’imbarazzo.
“Grazie. Sono ancora in pieno trasloco”. Fa un cenno con la testa, a indicare un furgoncino bianco.
Due nerboruti giovanotti stanno scaricando scatoloni.
“Ce l’abbiamo fatta, finalmente, a tornare in città. O meglio, è mia madre che ce l’ha fatta, io non abitavo più all’Aquila da un sacco di tempo”.

Il cane è un barbone grigio, taglia media, buono.
“Lei invece? da quanto tempo sta qua?” mi chiede.
“Da sempre”
(Davvero ho detto da sempre? Ho detto così?)

La signora sgrana gli occhi e tira giù gli angoli della bocca. Come a dire: “Che coraggio…”.
Ma è evidente che la signora viene da fuori: è totalmente spaesata ed estranea, è in preda a uno smarrimento angosciato. “Stia pure tranquilla, signora” cerco di confortarla. “Si troverà bene qui, siamo una piccola comunità. Nessuno ha voglia di parlare con nessuno, ma parlare non serve, in questi casi, lei capisce…”.

Sembra non aver sentito. “E’ vero che ci stanno gli extracomunitari?” mi chiede poi, quasi piagnucolando. “Non lo so, signora, ma le assicuro che, se hanno la casa qui, sono più aquilani di noi: gente che lavora, manda i figli a scuola…”.
Mi squadra. Sento che mi sbircia quasi di nascosto, dalla testa ai piedi.  Probabilmente si sta chiedendo se non abbia appena fatto una gaffe, se anch’io non sia un’extracomunitaria (il che, a guardare il mio abbigliamento diciamo così selvatico quando sto sotto C.A.S.A. con Teo, è assolutamente credibile).

“Mia madre ha 89 anni” dice sospirando, dopo una lunga pausa. “Stava quasi per lasciarci, ha avuto un brutto crollo, mesi fa”. “Mi spiace” dico contrita. “No, no… poi si è ripresa. Quando le hanno detto che iniziavano a ricostruirle la casa, si è ripresa. E’ voluta tornare qui. E non c’è stato verso… Dice che vuole rientrare a casa sua. Dice che rientra a casa sua e poi muore. Rientro a casa e puoi muoio!, dice!”.

“Ma guarda”penso io “i giovani se ne vogliono andare, i vecchi vogliono tornare”.

La signora emette uno strano mugolio, poi fa un cenno con la testa a indicare una finestra al primo piano.

E così l’ho vista, dietro i vetri, la vecchietta. Dritta come un fuso, piccola e raggrinzita, gli occhi fieri e caparbi. Guardava al centro della corte, nei giardini. Guardava e non vedeva. Occhi di vecchia, rughe, dentro ci potevi leggere il passato e il futuro, la guerra e il terremoto, nessun presente, o un presente senza alcun valore, se non quello del passato e del futuro.

L’ho guardata in modo avido e indiscreto.
L’ho guardata per un tempo interminabile.
L’ho fissata intensamente, e con la pelle d’oca.
E mi è sembrata la poesia più bella del mondo. Altro che libri, altro che teatro.

Quella vecchietta è stata oggi, per me, lo spettacolo della poesia.

 

arcobaleno case

L’ESAME

Questo racconto risale a molto tempo prima del terremoto, ma è stato riproposto nel giugno 2013 su un giornale on-line, nel periodo degli Esami di Stato.

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Entri.
Respiro profondo.
Annusa… Lo riconosci quest’odore?
E’ polvere, è marmo, è carta vecchia.
Sono tutti uguali, i corridoi degli Atenei: hanno pavimenti lisci, muri bianchi, bacheche piene di fogli come multe sul parabrezza. A vent’anni tutto questo per te significa angoscia, sopravvivenza, violenza, gente che ti bracca, smorfia di vecchi maestri che ti ringhiano addosso.

Ma ho più del  doppio degli anni di allora, “ora”.

 Hai più del doppio di quegli anni e non torneresti indietro per niente al mondo, perché tutto è stato così violento, terra leccata, sangue, sale, sale e sale delle lacrime bevute insieme all’inchiostro. I tuoi occhi non sono più quelli, non cadono a terra a ogni minimo sguardo, ora fissano dritti, non sfrontati, solo severi, silenziosi e malinconici come quelli di chi sa e non dice. Il tuo sguardo è ora un tenero, tenero blues…

E vibra  caldo, morbido, dice che è finito il tempo della paura.

 Ora è tempo di ascoltare, di guardare, sentire la musica che si nasconde dentro le cose. Tempo che pulsa nelle vene, nelle tempie.

Non come allora, selvaggio e feroce
ora è dolce, profondo
è una nota di un sax
è il tuo blues che vibra… piano, dolce.

Che dire? Un privilegio strappato con arroganza, un’idea geniale nata quasi per gioco e poi cresciuta sempre più prepotente come una mosca fastidiosa: iscriverti di nuovo all’Università, ora, attempata improbabile matricola dai capelli brizzolati, tu, donna decisa, padrona di un corpo ancora attraente, dal quale non subisci più affronti, un corpo docile, obbediente, capace di imporsi più che di difendersi. Hai sistemato tutte le storie nei loro cassetti e il tuo armadio è perfettamente in ordine. Sei padrona di te, sei ricca del tuo tempo, tutto è già stato dimostrato, tutto è già accaduto, la famiglia, il lavoro, la casa. La tua vita non può più stupirsi di altra vita. E così ti sei scelta il corso di studi più divertente e balordo che possa esistere, di quelli che a vent’anni dici “magari”, poi ti volti da un’altra parte e dici “peccato”.

E invece io ora
POSSO PECCARE.
Posso seguire o non seguire, dare o non dare l’esame, studiare o non studiare…
Tutto ruota unicamente intorno al mio palato sopraffino.
Scelgo libri e giorni e cose da fare come abiti e scarpe
da un magnifico guardaroba a mia completa disposizione.

Nèmesi. Vendetta.
Hai scelto di venire qui per prenderti la tua rivincita sulla paura. Tra un po’ ti siederai su quella sedia, guarderai negli occhi il tizio che hai di fronte, lo guarderai così intensamente e profondamente che lui capirà, saprà che “tu sai”. Sai di lui, di tutta la baracca, della vita intera. Leggerai soddisfatta il suo imbarazzo nel leggero movimento delle sopracciglia. Lui inizierà a parlare, avvertirai un impercettibile disagio, poi vedrai il suo labbro superiore brillare di una minuscola stilla di sudore. Vendetta deliziosa.

Oh, certo, non ce l’ho con te, mio povero professorino
io ce l’ho con i miei vent’anni
con l’ansia che non sapevo gestire
con le sessioni che incalzavano
con i libri che macinavo avidamente
mandati giù turandomi il naso (che orrore)
senza gusto né amore per le pagine, sì,
senza tutto il gusto e tutto l’amore per quelle pagine
tutto il gusto e l’amore e il tempo che posso invece metterci adesso
ADESSO
perché adesso ho più del doppio degli anni di allora
e il mio nome è Nemesi, vendetta.

  … Meraviglioso…
Cammini, te la godi, te la gusti davvero la passeggiata lungo il corridoio, la stessa che allora facevi tremando a denti stretti, biascicando a memoria capitoli, date e titoli. Fulmini con gli occhi chi ti guarda con insistenza, incuriosito dal tuo aspetto agé, e glieli fai abbassare, gli occhi, SEI TU LA PIÙ FORTE ORA, perché adesso hai il tempo per sentire la musica che si nasconde dentro le cose, la musica dei tuoi passi, prima nascosta dal battito del cuore – tump, tump, tump, cavallo pazzo – su quello stesso corridoio che ti faceva tremare di paura.
Ti fermi davanti alla porta dell’aula. C’è un capannello di ragazzi.

Posso sentire l’adrenalina sulla loro pelle,
il cuore che batte, i risolini isterici
che nascondono inutilmente la paura.
Ti ho fottuto, mondo bastardo,
e mi riprendo quello che mi è stato rubato.
Nemesi, vendetta.

 Li guardi: sono proprio le stesse facce da schiaffi di allora, si assomigliano, addirittura. La saputa, la matricola, il timido, la tizia con la scollatura generosa, l’alternativo con i polsini borchiati, l’intellettuale. Proprio le orribili facce da schiaffi di allora. Allora ti facevi da parte, da un lato, non ti piacevano, stavi alla larga. Ora ridi. Socializzi. Parli. Vuoi sfidare, vuoi provare.

 Voglio provare il ritmo nuovo del cuore
 che non batte di paura ma di vita.
 Ho tutte le risposte.
Ma non quelle da dare all’esame
chi se ne frega di quelle
ho tutte le risposte che allora non sapevo dare
e tutte quelle risposte ora ce l’ho a portata di mano
in un bel pacchetto prepagato
comprato col sudore, con la sofferenza
sì, quelle risposte le ho tutte ben in tasca.

…Ed è bellissimo non volerle più dare.
Un ragazzino impacciato arriva nei pressi e si ferma da un lato, sembra assolutamente estraneo al contesto, ma è chiaro che deve dare l’esame. Si muove felpato come un gatto, morbido come la musica che hai dentro di te. Il ragazzo si avvicina a una tizia con i capelli viola, le chiede qualcosa. Vuole sapere se l’esame si tiene proprio lì. La ragazza punk gli dice di sì e gli lancia uno sguardo come a dire “ma guarda ‘sto sfigato ahò”, allora lui si richiude proprio come facevi tu alla sua età, mette le mani in tasca e si appoggia con le spalle al muro. E quel gesto è musica, musica di riccioli biondi che cadono come note di un sole che ride.

Purezza, fragilità, delicato sentire.
Preservare tutto questo
difenderlo dai modi zotici e aggressivi della teppaglia.
Quel gesto sono io, più di vent’anni fa.
Vendetta. Nemesi.

 Una ragazza gli si avvicina, gli chiede qualcosa, lui risponde a monosillabi, lei gli mostra il programma dell’esame. Il cucciolo resta fermo. Restituisce i fogli, si fa da parte, gli occhi che annaspano… Non ha niente in mano, non un libro, non un foglio, né la tesina. Un vero sprovveduto. Lo allontanano per quella sua aria smarrita, gli animali crudeli, i loro pensieri traspaiono chiarissimi dai loro occhi cattivi: “alla larga, quello è il tipo che ti stressa chiedendo suggerimenti, una disgrazia, magari ti spostano di banco perché si mette a chiamarti. Vattene via! via!”

Loro non sentono la musica che viene dalle sue scarpe…

E invece tu ti avvicini. Il tuo passo di donna lo affianca. Sei l’angelo vendicatore.

Lui non sa che io sono Nèmesi,
non sa che oggi sarò Nèmesi anche per lui,
sì, sono l’angelo vendicatore venuto dal futuro per aiutarti,
cucciolo sperduto, sono l’angelo vendicatore,
 era scritto che io fossi qui per te, oggi,
venuta dal futuro per te, per aiutarti.
C’era una ragione per tutta questa follia,
 ed eri tu oggi, ecco,
TU SEI LA MIA RAGIONE.

Ti chiede se hai una penna da prestargli. Ma certo, cucciolo. Sorridi, lui non può vederlo, ma tu sorridi perché sai già tutto quello che succederà.

Vieni, ci penso io a te.
 Non fa niente se non hai studiato
non fa niente se non hai fatto la tesina.
Non fa niente se non hai neanche la penna.
Vieni, non c’è niente da temere.
Io non ho mai avuto nessuno che me lo dicesse, allora
io non ho avuto un angelo vendicatore
che venisse dal futuro per me
vieni, non aspettare il prossimo appello.
Ci sono qua io, ci penserò io, a te.

Aprono, entriamo. Ti siedi vicino a lui lasciando un posto libero, per non destare sospetti.
Inizia la distribuzione del test, con annesse raccomandazioni di non parlare e di non copiare. Inizi a leggere, alcune sono difficili, ma il tuo unico pensiero è aiutare il cucciolo, così lavori nervosamente, hai paura che lui molli tutto e se ne vada prima che tu riesca ad aiutarlo per realizzare anche stavolta la tua vendetta. Ti volti, sbirci con la coda dell’occhio, lo guardi… E’ tranquillo. Lo vedi scrivere.

… Ma che fa? Spunta le risposte
 con cadenza perfetta:
tac, tac, tac
TAC, TAC, TAC…

Smetti di fare il test, non riesci a non fissarlo stupefatta. E’ una macchina da guerra. Sette… dieci… venti… QUARANTA. Finito. … Solo venti minuti e i riccioli biondi danzano felpati a riordinare i fogli, e tu sei ancora all’inizio.
Superi il primo sbandamento, chiudi la bocca allibita…E tutto si trasforma in sorriso.

Quante devi vederne ancora, donna
 che pensi di essere vecchia
e di averle già passate tutte
quante ancora ne devono succedere
perché tu ti avvicini al Grande Segreto, e ascolta
che melodia, ascolta, ascolta
come si muove piano, come un gatto
occhi di animale sperduto.
Il suo passo è ritmo sull’onda del blues
che canta dentro di te, come una sinfonia antica, profonda
dentro di te, l’eterno ritorno
e l’acqua che non è mai uguale…

 Il cucciolo ti restituisce la penna e, prima di andarsene, finge di armeggiare con quello che non ha, e ti chiede se ti serve qualche risposta.

Rido tra me,
 dio quanto rido,
non riesco proprio a smettere.

 “Certo che sì – sussurri – non ne so almeno una decina… dimmene qualcuna…”
Capisce al volo quello che ti serve e te lo regala. Si ricorda l’ordine delle domande, tu gli dici il numero e lui ti dice la lettera: tu dici “15” e lui dice “A” tu dici “36” e lui “D”…. L’operazione non sfugge agli occhi antipatici delle secchione che l’avevano schifato all’ingresso. In particolare quella con la scollatura procace è stizzita e contrariata, si starà rodendo all’idea di aver sbagliato ad esibire la scollatura.

Ah, Nèmesi, quanto devi aspettare ancora!
Vita, sei musica.
Come febbre, come fuoco, come Nemesi che ritorna.
E ogni volta che penso di essere arrivata
lei mi butta giù di nuovo, nella mischia, a combattere.

 Riccioli biondi danzano verso la cattedra per la consegna, morbidi e silenziosi, e lui se ne va, così come era arrivato. Ti passa vicino, alito di vento, lanciandoti uno sguardo complice, lo senti che ti trafigge, con quello sguardo, lui, passo felpato, mistero. E finisci il tuo test ridendo: le tue mani ridono i tuoi piedi ridono e se la felicità esiste, tu ora sei felice, perché sei vecchia sì, ma se avessi avuto vent’anni come allora, non avresti potuto sentire la sua musica, e non avresti potuto danzare il tuo blues, oggi. Saresti sorda e cieca come tanti, giovani e vecchi ciechi e sordi. Assapori quell’apparizione come un miracolo, e ti chiedi chissà dove sarà ora, chissà dove, chissà…

Apri la porta e lui è lì, seduto sulle scale.
Ginocchia abbracciate, sorriso, occhi che nuotano in un cielo felino. Vuole sapere come ti è andata.
Lo guardi, annuisci, accenni di sì, sì, sì e ancora sì.
“Benissimo – dico – il mio esame è finito. E’ stato un esame molto, molto importante”.
Lui ti guarda con aria interrogativa… “Che strana bella signora”, dice tra sé.

Ah, sapessi, cucciolo, che mistero questa musica,
questa danza che sento nel petto,
sapessi come si migliora crescendo,
come non si soffrono più le pene dei tuoi giorni,
quelli che i sordi e i ciechi chiamano “giorni spensierati”.
Sapessi quanto si gode, invecchiando,
sapessi come tutto si sente più nitido e forte…

Addio, Nèmesi.
L’esame è finito.
La vera vendetta è vivere.

 

esame
1979 – Prima degli orali – Foto Francesco Casciola, mio compagno di classe

Revenge Soundtrack: Ep 1. Angus and Julia Stone – For You

LA STREGA

Una storia come tante
se non capita a voi.

Piccola di statura. Gli occhi verdi, i capelli neri, la pelle bianchissima, le curve morbide. Un aspetto per nulla appariscente.

          Il mio nome era Lanfusa, e non ero il tipo di donna che fa girare la testa per strada: nulla avevo di così attraente da catturare l’attenzione degli uomini. Ma se uno sguardo per caso finiva nei miei occhi, o se un orecchio sensibile prestava attenzione alla mia voce, scattava una trappola inesorabile.

         Ancora sento le boccate di fumo acre nella gola: io, Lanfusa, sono morta soffocata prima che il fuoco mi toccasse, perché il boia ha sistemato la pira ad arte. Solo pochi istanti, un po’di bruciore alla gola, qualche colpo di tosse, ma il fuoco non ha toccato me viva, le mie carni rotonde, le cosce, i fianchi su cui si posavano spesso gli sguardi furtivi degli uomini, gli occhi cattivi delle donne. Ha avuto pietà di me, il boia. Chissà perché, visto che anche lui, incontrandomi per strada, evitava il mio sguardo di gatta nera, schiva e affamata, per paura della fascinazione. Strega, abbassa gli occhi, guarda altrove, brutta strega!… diceva tra i denti, e poi recitava il Pater noster, finché l’ultima piega del mio abito non avesse svoltato l’angolo della strada. Eppure ebbe pietà di me, il boia. E questo fu l’ultimo regalo che io ebbi dalla vita.

         La mia vita bambina fu costruita su una frana. Se i grandi si accorgevano di me, cioè se per puro caso i loro occhi si poggiavano sulle mie gambette o sulle mie guance bianche, o sul mio collo esile, ebbene loro non riuscivano proprio ad evitare di allungare le loro brutte zampe pelose. Era evidente a tutti costoro che non avrei chiamato mio padre, che sarei rimasta lì pietrificata, non sarei scappata via, avrebbero preso quello che volevano: un ganascino, un buffetto, uno sculaccione, un apprezzamento sulle tettine incipienti, un bacio che dicevano innocente sulle labbruzze rosse.
E così diventai muta e paurosa. Mi accantucciavo negli angoli, giocavo ad essere invisibile, a uscire da me e a volarmene via, per non sentire la mano che si allungava a pizzicarmi le guance, o quegli occhi che mi rubavano cose senza che io volessi. Quando accadeva lo stesso alle mie amiche, loro scappavano, si rifugiavano sotto i tavoli o dietro le gonne delle madri, urlavano e mordevano… Io non ci riuscivo. Immobile, sapevo solo uscire da me. Facevano di me ciò che volevano, delle mie guance e delle gambette e tutto il resto, mentre io mi dicevo  “Tu non ci sei, tu non sei qui, sei lungo il fiume a contare ciottoli rotondi come piccole mele, uno-due-tre-quattro… Bianchi e lisci come le mele, uno-due-tre-quattro, o a raccogliere erbe per giocare a signore e signori…
Poi tornavo. Rientravo nel mio corpo in tempo per vedere quelle facce rubiconde, e chissà, chissà che cosa era successo mentre io non c’ero, mentre ero sul fiume…

Io, Lanfusa, non ho visto e non ricordo gran parte delle cose che mi sono accadute, per il semplice fatto che non c’ero. L’ultimo ricordo che possiedo è dunque quello di un vecchio che si accostò alla mia schiena dritta, dondolò, canticchiò una cantilena… Poi il calore bagnato tra le scapole, poi più nulla. Crebbi così, muta e nera, senza l’allegra fortuna di chi è aperto al mondo. Schiva, evitando i contatti, evitai ogni male.

“Vivere come un lupo nei boschi,
respirare talmente piano da non farti sentire,
non ti devi far sentire, come quando giochi a nascondino e sei accucciata per terra dentro una buca e senti solo il tuo respiro strozzato,
e un limpido filo di saliva
ti cola dall’angolo della bocca bambina spalancata…
Così… Non ti troveranno mai.”

            Mi chiamo Lanfusa, ed ebbi disprezzo profondo per chiunque a me si accostasse grugnendo. Capii, sentii, annusai, non servirono mai troppi segnali. Quando ho potuto, ho giocato come il gatto col topo, per vederli ai miei piedi. Tutti di me ebbero paura e mi tennero lontana. “E’ una strega” … “E’ una matta, Lanfusa”, oppure “E’ malata!” … Ma la verità è che avevano paura.

Un giorno Oderisi, il suonatore di violino, si fermò in piazza e mi sentì ridere.
Alto, vestito di nero, Oderisi era come le corde del suo strumento, asciutto e vibrante. E aveva gli occhi più profondi del pozzo del Norlot, i capelli lunghi, raccolti sulla nuca. Non aveva mai rubato, il violinista, nella sua vita. Era ricchissimo di tutte cose che gli avevano regalato. Il suono della mia risata, bastò quello, non volle sapere altro: e fui subito nella sua testa. Tese la mano e mi disse di ballare.
E fu la prima e ultima volta che riuscii a non mordere una mano tesa.

Dio come ho voglia di farlo – FIDARMI – se lui ha le braccia grandi se ha una storia di dolore di voglia di Donna se non grugnisce se è disposto a rischiare di affrontare affrontare affrontare affrontare una strega senza metterla al rogo, una bimba senza rubarle nulla, se avesse il coraggio di rischiare di guardarla negli occhi e insegnarle a ballare .. Dio come sarebbe bello…”

               Io, Lanfusa di Norlot, sentii i suoi occhi attraversarmi l’anima e non seppi come.
La mia magia impallidì, perché lui aveva forza, e un potere occulto e nero.
Mi consegnai, ebbi voglia di farlo. E per sette notti danzammo sotto la luna.

“Lupo dei boschi, strega, ora mangi nel palmo della sua mano, perché lui ti ha riconosciuta. Ti ha scoperta, ha capito che Strega non sei, che sei povera ferita aperta, perciò non ha paura di te, non guarda le tue scapole umide. Lui, Oderisi, il suonatore di violino, in un modo o nell’altro, segnerà il tuo cammino”.

      Stette con me Oderisi, stette con me per sette giorni e sette notti, nel bosco di Norlot, sotto la luna. Suonava, ballava, non parlava, guardava me muta, stupita.

Quando Oderisi andò via i miei occhi non furono più schivi e felini, non tagliavano più come una lama puntuta. Egli andò via senza parlare, senza voltarsi.
Fui proprio io, io stessa, che volli così, e per un po’, almeno per un po’, conobbi la vita degli uomini sulla Terra.


Questo racconto, in realtà, non ha una fine.
Certe storie restano sospese così, aspettando qualcosa…
.


Strega-alla-luna

Boozoo Bajou – Night Over Manaus

ZONE DI RIPOPOLAMENTO AQUILANE

Lo scritto uscì sull’AquilaBlog.
Raccontavo come si vive nelle C.A.S.E.
Provocatoriamente, simulai un report su uno studio-ricerca effettuato da una prestigiosa Università totalmente inventata.
Cercai di essere chiara in questa simulazione, inventando dei nomi suggestivi: “Uffinton University di Puddingbay”, “Professor Buffery”…
Ma siamo talmente pieni di prestigiose università che fanno i loro studi qui, per puro intento speculativo, che… un sacco di persone pensarono che era tutto vero!
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Chi abita nelle C.A.S.E.? Quali sono le caratteristiche delle persone che hanno deciso di stabilirsi nelle new-town? Come si relazionano gli abitanti delle case antisismiche con il resto della cittadinanza aquilana? E come si relaziona la cittadinanza aquilana residente in case vere con quella residente nelle new-town? Per rispondere a queste domande i ricercatori della Uffinton University di Puddingbay, guidati dall’esimio Professor Buffery, hanno realizzato uno studio meticoloso in quattro anni di osservazione dello Zeitgeist locale. Dalla prima emergenza a tutt’oggi, camuffati da postini, volantinari, spazzini e macellai, hanno registrato opinioni e osservato paradigmi, pervenendo ad un inventario analitico capace di evidenziare anche le implicazioni mediatiche responsabili dei più diffusi convincimenti. Dal saggio “Zone di ripopolamento aquilane” (in: “Aquilan reforestation areas and population’s behavior against C.A.S.E. project buildings”, Uffinton University, Puddingbay, 2013) propongo, in esclusiva assoluta, un report divulgativo.
Chi abita dunque nel P.C. (leggi: “Progetto C.A.S.E.”, n.d.r), secondo la rappresentazione collettiva aquilana?

  1. La prima tesi è che nel P.C. vivano dei berlusconiani colmi di gratitudine, che – privi financo di una lavastoviglie nella vita precedente – hanno qui trovato quanto da loro sognato. Trattandosi di una sacca popolare ignorante e reazionaria, è bene tenerla a distanza e impegnarla nella sua occupazione preferita: guardare partite di calcio, telenovelas e talk-show. E’ sufficiente garantire un ottimo segnale video per farla “betrayed and stricken”.
  2. In subordine, nel P.C. abitano comunisti mangiatori di bambini. Vivono di spesa proletaria e sono perfettamente mimetizzati da persone normali, pur essendo una risma di cialtroni. Numerose le reazioni contro di loro: “Che diamine. Li hanno rivestiti, gli hanno dato una casa meglio di quella di prima, gli hanno messo il giardino, il laghetto, i vialetti di ghiaia, e loro non ci vogliono stare, e criticano tutti i provvedimenti che vengono presi. E non vogliono pagare né l’acqua dei bei laghetti, né le luci dei vialetti, né la cura dei giardinetti”. La propaganda ne intervista alcuni quando è il momento di dare la caccia al colpevole del deficitfinanziario delle casse pubbliche: la colpa del deficit è del P.C. che pertanto ha il dovere di risanarlo, capro sull’altare del bilancio.
  3. Terza tesi: nel P.C. abitano slavi, albanesi, zingari e nomadi di ogni razza e provenienza che, saputo del terremoto aquilano, si sono riversati in cerca dell’Eldorado e hanno ottenuto degli alloggi per sé e per le loro tribù. Questa categoria è comunemente indicata come “last user“: ricostruita L’Aquila, i P.C. diverrebbero dei ghetti per immigrati, ammesso che le CASE siano in grado di resistere al trascorrere di tre lustri.
  4. Quarta tesi: nel P.C. abitano lavoratrici autonome, di sesso non ben definibile, che esercitano in questi caldi appartamentini la professione che prima esercitavano sulla strada. Nella casistica possiamo far rientrare anche quei personaggi di dubbia moralità che prestano il loro alloggio a colleghi amici per fare festini, in cambio di favori o denaro, quando non di prestazioni sessuali. La propaganda ne parla per consentire che i P.C. siano costantemente controllati per garantire la sicurezza dei residenti (dei residenti fuori dal P.C, naturalmente).
  5. Diffusa è anche la tesi per cui gli abitanti dei P.C. siano anche dei ricchi commercianti della Zona Rossa che, dopo aver trasferito tutti i loro averi all’estero o nelle banche svizzere, vivrebbero mimetizzati da poveri disgraziati, come Paperon de’ Paperoni nel Klondike, per evadere il fisco. A tal fine avrebbero fatto richiesta di un alloggio dei P.C. Si dice che ogni tanto costoro spariscano per una settimana, destinazione Saint-Tropez o Portofino, per controllare lo yatch ormeggiato nella baia. Tali dicerie mirano a scatenare sul P.C. le antipatie della fascia povera dei cittadini che non dormono nelle lenzuola rosse.
  6. Altra tesi: nei P.C. abitano solo gli idioti. Se non fossero idioti, avrebbero già preso delle case in affitto, invece che starsene in quelle di cartongesso, no? Pagherebbero qualcosina ma via! costerebbero di meno alla collettività (sui costi di gestione dei P.C. cfr. “Defects’ management and costs of unnecessary things in the CASE Project of L’Aquila “ibidem, pp. 315-378).
  7. Ultima tesi: l’abitante-tipo delle new-town è uno che pretende assistenza. Chiama la manutenzione per qualsiasi cosa! Se si rompe una lampadina, il rubinetto del lavandino, l’intonaco di un muro, lui chiama l’assistenza. L’immagine, falsa come Giuda, fa riferimento al cliché del meridionale piagnone, tipicamente italiota, abusato dai mass-media e ora utilizzato dagli aquilani contro gli aquilani stessi, cioè contro gli abitanti dei P.C. che continuano a lamentarsi in modo petulante e fastidioso, impedendo a tutti gli altri di riprogrammarsi l’esistenza.
  8. Un discorso a parte meritano gli abitanti dei MAP, bizzarre creature in verità, poiché pare che questi abbiano carattere piuttosto selvatico, amino la vita di campagna e (a quanto si dice) coltivino erba in giardino, in ricordo del loro passato da fricchettoni. Alcuni allevano una gallina, che vien su particolarmente allegra, perché ogni tanto dà una beccata all’erba. Le loro seratine a base di balli rurali e organetto hanno destato l’interesse del Dipartimento di Arti Cinematografiche di Puddingbay che, realizzando il corto “I’m running away from L’Aquila: life, love and hens”, si è aggiudicato il premio “Woodstock d’Italia” 2013. Fatto sta che i MAP appaiono, al resto della cittadinanza locale, autoeliminati dal gioco dell’Oca. In fondo si sono levati dalle scatole da soli, proprio come fecero i fricchettoni.

Ora, scorrendo la cronaca locale (cfr. allegato n. 48 della ricerca) emerge che alcuni episodi assimilabili alla casistica sopraelencata si sono effettivamente verificati, ma si tratta di mere eccezioni. Al contrario possiamo dimostrare che, in buona sostanza, nelle zone di ripopolamento aquilane ci si arrangia con grande dignità e si collabora per sopperire a regolamenti che non regolamentano, contatori che non contano, pulitori che non puliscono, giardinieri che non giardinano. Perché, allora, tali campagne diffamatorie? La vera colpa degli abitanti del P.C., secondo il sentire comune, è che non hanno alcuna intenzione di ricostruirsi la casa. E’ infatti lapalissiano che se ogni abitante dei P.C. si desse da fare, si rimboccasse le maniche e se ne tornasse a casa sua, L’Aquila sarebbe evidentemente già ricostruita! Logica inconfutabile… Gran parte dell’Intellighentia radical chic, insomma, sceglie questa soluzione rudimentale. La vediamo prodigarsi verso i terremotati di tutto il resto del pianeta, e schifare quelli che stanno fuori dalla porta di casa. Logica umana e civile vorrebbe che i cittadini terremotati venissero sostenuti, e i complessi antisismici ben curati. Converrebbe considerare i P.C. come una risorsa presente e futura, vedere in essi futuri alberghi, ostelli della gioventù, alloggi per famiglie dei ricoverati dell’Ospedale Regionale, case per i docenti e studenti dell’Università. E invece no: i più vedono in essi qualcosa che deve andare in malora con tutti gli abitanti. Abitanti così numerosi da avere la forza di un partito, ma così colpevolizzati da non accorgersene. Abitanti che potrebbero, con assoluta potenza contrattuale, chiedere la ricostruzione delle loro case prima di qualsiasi altra inutile velleità, potrebbero chiedere di non dirottare i soldi altrove prima di aver ricostruito le abitazioni, o di coinvolgere gliarchistar in progetti di manutenzione dei complessi antisismici, invece che in preziosi quanto inutili gioielli di Arte Contemporanea. Ma loro (sic!) non lo fanno! Questi cittadini potrebbero essere la risorsa più grande della città dell’Aquila, una risorsa intrisa di rabbia e di stanchezza, e invece ne sono il punto più fragile e scoppiato. Sarà difficile, sostiene il Prof. Buffery, sollevare i P.C. dal limbo gassoso in cui veleggiano: chi ci abita deve considerarli da un lato alloggi temporanei, quando vede risparmiare sulla fornitura dei servizi, dall’altro definitivi, quando i tempi della ricostruzione si dilatano o c’è bisogno di liquidi. Troppo facile per il Prof. Buffery e la sua equipe, addurre l’esempio delle superbollette, accolte con soddisfazione da tanti cittadini che una casa ce l’hanno. L’esimio ricercatore adduce, invece, l’esempio significativo degli isolatori antisismici: rotti, per l’opinione comune, quando serve dire che le case fanno schifo, ma perfetti, se in qualche P.C. spunta un’area di prima accoglienza. Lo studio si conclude in modo sconfortante: finché non si innescherà un circolo virtuoso in cui la soluzione per i terremotati aquilani (quelli che non hanno più la casa) diventerà la soluzione di tutta la città, le cose resteranno in questa schizofrenia collettiva e non ci sarà la spinta utile alla ricostruzione. Fino ad allora i terremotati aquilani (quelli che non hanno più la casa) dovranno rassegnarsi a stare in modo stabile in un alloggio che ha la precarietà del provvisorio e i costi del definitivo. Singolare, vero? D’altronde, si sa che “la Storia è un palinsesto che può essere raschiato e riscritto tutte le volte che si vuole”.

 

case neve

L’ACQUA DAVANTI

Questo testo nacque in occasione di un Memorial per Franco Corsi, nell’ottobre 2012. Non sono stata un granché come nuotatrice, ma ho respirato l’atmosfera della piscina sin da piccolissima: mio padre, Valerio Nardecchia, fu Giudice di Gara ed ebbe incarichi dirigenziali all’interno della FIN. Inoltre mio fratello Dino fu un vero campione negli anni Settanta.
Senza nulla togliere a Franco, il testo risente di tutta l’emozione che provo nel ricordare mio padre. Ciao papà.

La Piscina Comunale, per noi aquilani nati negli anni Sessanta, non è solo un impianto sportivo, è un vero e proprio monumento: non c’è stato bambino aquilano che non sia entrato in vasca, foss’anche per un breve corsetto di galleggiamento. E non c’è stato medico di famiglia che non abbia prescritto dosi massicce di questo sport, considerato all’epoca il toccasana contro ogni male: curava il rachitismo e l’obesità, la tosse e il raffreddore, l’inappetenza e gli attacchi di fame, l’acne e la pelle secca. Erano i favolosi anni Sessanta e Settanta, quelli in cui tutto andava bene, quelli di Carosello, delle lavatrici e del “boom” economico. I tempi di Novella Calligaris e di Mark Spitz, il campione con i baffoni alla Tom Selleck. Da non crederci, oggi, per atleti che si depilano pure i peli del naso.

Il primo tuffo l’abbiamo fatto verso i quattro, cinque anni, a ranocchia, all’acqua bassa, con  l’istruttore che ci teneva a galla. Affondavi come un sasso e lui ti diceva “su il sedere! su il sedere!”. Allora davi un colpo di reni e imparavi a star su piano piano, come un piccolo ragno che annaspa in una pozzanghera. Imparavi la fatica e la disciplina, la fiducia verso gli adulti, la certezza illusoria che non ti avrebbero mai fatto affogare. Eri orgoglioso della tua borsa azzurra con la scritta bianca C.O.N.I., e dello stemma di “non classificato” sul costume ascellare nero, di tessuto pesantissimo. La prima cosa che ti insegnavano era il “morto a galla”, poi da lì iniziavi a imparare il dorso, e a dorso battevi le gambette mentre con lo sguardo giocavi con le robe che vedevi sul soffitto: grate, traverse, linee nere, lampade. Il respiro nelle orecchie, il ritmo cadenzato delle bracciate, l’acqua che entrava e usciva dal naso, dalle orecchie, dagli occhi… La voce dell’istruttore ti incitava, allora tu ordinavi alle gambe e alle braccia di battere più forte, perché lo diceva lui, lo diceva il tuo istruttore, ti urlava “GAMBEEEEEEE!”.
E’ lì che abbiamo imparato che tutto deve avere un respiro. E che il respiro dev’essere lo stesso del cuore.

A quell’epoca gli istruttori avevano dei lunghi bastoni neri che terminavano a manico di ombrello, e ti sostenevano la nuca da bordo vasca mentre viaggiavi a dorso. A un certo punto sentivi che il manico d’ombrello si sfilava da dietro la nuca, così battevi e battevi le gambette e andavi per un po’ liscio come l’olio, ma solo per poco, perché senza l’ombrello iniziavi ad affondare e sentivi l’acqua salire sugli occhi e sul naso. E mentre colavi a picco come un sasso nello stagno… lui ti ripescava come una trota. Perché dovevi provarla nel naso, l’acqua, dovevi capire che va rispettata, e non va mai subita. Quei venticinque metri non finivano mai, salvo poi distrarti proprio quando arrivavi, e picchiavi la testa sul bordo. Non ti avvisava, l’istruttore, dovevi stare attento. Dovevi conoscere la vasca a memoria, ogni quadratino del mosaico del fondo, ogni piccola crepa nella vasca, ogni sfumatura del canaletto poggiamani che correva sottobordo, dove, negli anni Sessanta, qualcuno ci sputava dentro.

Di anno in anno, i distintivi sul costumino cambiavano: “Cavalluccio marino”, “Delfino”, “Pesce spada”, “Squalo”. Il cloro profumava, aveva un buon odore, come quello del vapore caldo che ti investiva all’ingresso, quando aprivi la porta. E quando finiva l’allenamento e uscivi dalla vasca, l’aria non era più il tuo elemento: fuor d’acqua ti sentivi pesante, cercavi a tentoni le ciabatte, te le infilavi barcollando, la testa girava per la stanchezza, gli occhi bruciavano, andavi quasi a tentoni nello spogliatoio. E quello spogliatoio in cima alle scale era il regno delle mamme. Ah! le mamme del Club L’Aquila Nuoto, pronte con gli asciugamani, il fon, la merenda. Le mamme che ci accompagnavano in trasferta, le mamme che a momenti si buttavano in acqua con te, per darti una spinta di più. A stropicciarti la schiena con l’accappatoio, a farsi la sauna nei vapori di docce bollenti, ad asciugare i capelli e a dire ogni volta che dovevi tagliarteli. Le vedevi urlare sugli spalti, incitare e sudare: in ogni trasferta l’aquilano era figlio di tutte, solo lui contava, per tutte, allo stesso modo.

“… Aaaaa pòstoooooo!”. Quante volte ho sentito mio padre, giudice di gara, intimare questa frase, e ho visto il fremito sulle gambe tese degli atleti! Dino, Claudio, Mirella, sul dado di partenza, aspettavano lo sparo che dava il via alla gara, indiscussi campioni. Molti di quei bambini nuotano ancora oggi. Perché nuotare è un po’ come volare, se lo hai fatto una volta non ci rinunci più, neppure da vecchio. E se hai i reumatismi, o se proprio non ne puoi più dell’acqua, nuoti comunque con il pensiero, perché un nuotatore vive come se nuotasse: acqua in bocca, poche chiacchiere, fare, non parlare, sentire il ritmo del cuore e del respiro…sciafff, sciafff, sciafff... Solo nuotando senti il ritmo che batte.

Se mai hai nuotato nella tua vita, quando incontrerai qualcuno che è stato un nuotatore, saprai di avere qualcosa in comune con lui. Forse il silenzio. O quella pelle da delfino. Se mai incontrerai qualcuno che è stato un nuotatore, all’Aquila in particolare, dove si nuota in mezzo alle macerie, forse ti sembrerà un po’ burbero e solitario, perché lui è come una conchiglia deposta dal mare sulla sabbia. Un nuotatore è come un Terranova: nuotare, salvare, tirare, è un istinto naturale. Egli sa che l’acqua, quella, non tutti se la possono permettere, non tutti sono come lui, non sanno nuotare. Galleggiano, galleggiano, si può essere assolutamente certi che galleggiano. Ma muovono la testa a destra e sinistra, sgrullano i capelli, fanno un sacco di schizzi. Il loro gusto non è nell’acqua, è fuori. E’ negli occhi di chi li guarda.

Il nuotatore prende la sua corsia, si tuffa, fende l’acqua in silenzio, la taglia e la cavalca. E guadagna la vasca. Un nuotatore guarda solo l’acqua, davanti.

acqua

Florence – What the water gave me
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Quando vuole pregare
lei va alla piscina comunale
mette la cuffia e gli occhialini
entra nell’acqua ma non è capace
di domandare, o forse non ci crede.
Allora fa una bracciata e dice
eccomi, poi ne fa un’altra
e ancora eccomi. Eccomi dice
ad ogni bracciata. Eccomi a te
che sei acqua e cloro

e questi corpi a mollo come spadaccini.

E nello spogliatoio, dopo, alla fine
prova sempre una gioia –
quasi l’avessero esaudita
di qualche cosa che non ha chiesto
che non sapeva. Che mai saprà
cos’era.

Mariangela Gualtieri

IL PRATO

Questi fatti sono tutti realmente accaduti.
Anche i personaggi (quasi tutti) nascondono persone vere.
Con un po’ di arguzia, si riconoscono 🙂
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“Dio ci ha creato la memoria per farci avere le rose anche a dicembre”

(James Matthew Barrie)

Sant’Elia s’era ingoiato il progetto C.A.S.E. con tutti gli sfollati come un boccone amaro. La ridente frazione alle spalle di Collemaggio, famosa per le fave saporite, aveva visto tutt’a un tratto piombare, dopo il sisma, ruspe, betoniere e cingolati pronti a ritagliarsi due fette belle grosse di montagna.

Un colpo di tosse, una smorfia di disgusto, e Sant’Elia se l’era ingollato tutt’intero, quel boccone, turandosi il naso. Ma quello le si era piazzato in mezzo allo stomaco, e ora lei lo digeriva con un senso di pace rassegnata, aspettando qualcosa che, prima o poi, lo assimilasse o lo espellesse pian piano, per altra via da quella da cui era entrato…

Tre anni erano passati, e il grazioso paesetto, distrutto anch’esso nella parte più vecchia, non s’era tuttavia mai fuso con le nuove case. La tenuta del Barone De Curti, antico signorotto del paese, dominava dalla collina la piana rigata dal fiume. La casa nobiliare, memore di antichi splendori, era adesso poco più che un cascinale di campagna, danneggiato qua e là dal tempo e dal sisma. Pietro faceva il possibile per mantenerne l’aspetto decoroso, ma quel cascinale era ormai solo l’ombra degli antichi fasti, troppo grande da gestire, costoso e impegnativo. La macchina di Pietro, la bella moto, l’intera tenuta, erano ormai votate a un utilizzo pressoché campagnolo, ma lui viveva tutto questo in allegria, con la rudezza del vecchio giocatore di rugby e una gentilezza quasi orientale verso le persone e verso gli animali. Mai mancava, davanti al grosso portone di legno con i battenti d’ottone del cascinale, un piatto di cibo per i gatti randagi, né l’offerta di un caffè a chi si fosse trovato a passare lì davanti.

Ma gli sfollati erano ospiti scorbutici, per quanto discreti e silenziosi. Catapultati dalla città in aperta campagna, non avevano cercato di adattarsi, e non s’abbrancavano né tra di loro, né con i santeliesi. Non mollavano le vecchie abitudini, s’affannavano a ritrovare a tutti i costi i vecchi negozi, i vecchi punti di riferimento. Testardi e ostinati come tutti gli aquilani, non volevano rinunciare ai brandelli di vita precedente, e neanche guardavano la meraviglia che li circondava. Quello splendido colle si stava offrendo generoso alla ricostruzione della loro vita, prima ancora che della loro casa, ma i più uscivano al mattino e tornavano la sera, considerando quegli alloggi niente più che un dormitorio. Se solo si fossero affacciati di notte alla finestra, avrebbero potuto conoscere i versi dei rapaci notturni, o visto brillare gli occhi delle volpi, o intravisto le grosse ali dei gufi. Ma il cuore non cancella ciò che ama, e per nulla al mondo essi avrebbero sostituito, con questi, i rumori del vento nei vicoli stretti, o gli odori umidi dei muri antichi, o i luccichii dei lastricati delle piazze cittadine.

C’erano, però, due categorie di persone che erano riuscite ad integrarsi meravigliosamente nel paesaggio: i bambini e i padroni di cani. I primi giocavano scatenati e un po’ inselvatichiti, come mai era stato possibile negli antichi quartieri urbani, i secondi godevano di altrettante libertà, prima inimmaginabili: uscire senza paletta, usare il guinzaglio lungo, non dover prendere la macchina per andare a cercare un parco. Non s’erano mai visti così tanti bambini e così tanti cani tutti insieme nello stesso posto. E quando calava la notte, e tutti rientravano, c’era da chiedersi dove si infilassero, per tanti che ne erano. S’era poi stranamente creata tra queste due categorie, non sempre affini, una bella armonia. Quando Teo, il mio cane, usciva a fare la passeggiata, i bambini gli si riversavano addosso come una nidiata di anatrelle. Lui si faceva strapazzare un po’, per niente dispiaciuto, poi proseguiva. Certo, c’erano anche cani che non ispiravano alcun tipo di effusione: un grosso alano nero, per esempio, che i bambini chiamavano “Attila”, camminava impettito ed arrogante, tal quale il suo padrone, fieri entrambi di essere guardati con paura. Allo stesso modo si comportavano i tre terribili dobermann di Gino, nati subito dopo il terremoto. Gino se li era portati dietro ovunque, li aveva nutriti e cresciuti dentro quella piccola casa. Poi, al momento di separarsene, non era stato più capace: e se li era tenuti tutti e tre, con i loro occhi infuocati e i loro denti affilati. Era certo di poter tornare presto nella sua bella casa e di poterli tenere in giardino come cani da guardia. Erano due maschi e una femmina, e Gino aveva dato loro dei nomi bizzarri: “Fintecna” la femmina, “Cineas” e “Reluis” i due maschi. Era uno spasso sentirlo urlare in modo marziale: “FINTECNA!….. SITZ! CINEAS, RELUIS!…. RRRRAUS!PLATZ!!!”. Quando li portava a spasso, pareva governare un cocchio tirato da tre cavalli. Tutti i cani della zona portavano i padroni un po’ dove il naso li guidava, ma c’era ben poco da scegliere: facevano per lo più il tondino intorno alle C.A.S.E.

Con non poco dispiacere, cani e padroni camminavano lasciandosi sulla destra o sulla sinistra del loro percorso abituale splendidi prati verdi interdetti dal filo spinato. Il più bello di questi prati si stendeva proprio davanti alla cascina De Curti: era verde d’erba medica e puntinato di fiori colorati. I cani ci infilavano il muso con insistenza vogliosa, attratti da colori e odori straordinari. Bisognava tirarli via con la forza! La tappa davanti alla cascina De Curti era obbligatoria, e non solo per quel magnifico prato profumato, anche per le irresistibili tentazioni che provenivano dalle ciotole che Pietro riempiva per i gatti. Dovevi tirar via il tuo cane di lì e promettergli di portarlo nella piazza vicina, dove una brutta chiesona post-moderna demolita dal sisma implorava pietà. Quel ripido tratto di strada, dalle C.A.S.E. alla chiesa, specie in inverno, era assai pericoloso. Il buio, due curve strette, i muri delle case addossate, le macchine che sfrecciavano frettolose, costringevano cani e padroni alla massima prudenza.

La primavera del terzo inverno iniziò col disgelo delle abbondanti nevicate di quell’anno. Oltre ai normali disagi della strada c’era anche lo sciogliersi della neve: i rigagnoli di acqua imboccavano vorticosi la discesa. Ma un bel mattino di quella primavera, un bel mattino tiepido in cui l’erba era già verde e profumata, accadde una cosa straordinaria: proprio davanti alla cascina i paletti di quel bellissimo prato di erba medica erano stati abbattuti, e il filo spinato era stato reciso per consentire il passaggio. Al nuovo varco c’era un cartello con una scritta fatta a mano che diceva: “INGRESSO LIBERO AI CANI E AI PADRONI”. Dentro al prato, felici come tre mustang, correvano Fintecna, Cineas e Reluis. Il padrone, Gino, li sorvegliava soddisfatto, agitando il guinzaglio come un lazo, con gli occhi luccicanti di soddisfazione. Al sopraggiungere di Lilli, la cagnetta di Sabrina, Gino richiamò i tre mustang e li portò via, lasciando campo libero alle due nuove arrivate. Decisi di fermarmi anch’io, e mentre toglievo il guinzaglio dal collare di Teo, sentii alle mie spalle la voce di Pietro che mi chiamava dalla macchina: ”Buongiorno! Hai visto la novità? Entra, entra! Godetevi il prato! E guarda un po’ che passeggeri porto a bordo oggi!”. Affacciato al finestrino posteriore della macchina di Pietro, con un sorriso a 72 denti, Attila sporgeva la testa fino al collo, felice, con le orecchie come due bandiere al vento. Dietro di lui spuntava la faccia del suo padrone, con un sorriso imbarazzato per la  condizione poco marziale del suo terribile cane. E anche sua.

Da quel giorno capimmo che non esistono cani buoni e cani cattivi, uomini buoni e uomini cattivi; ma solo uomini e cani felici o infelici. La differenza la fa un prato. Un prato sul quale correre liberi.

 

prato-fiorito


High Hopes-Pink Floyd

MARIO IL DIRIMPETTAIO

Mario è il vostro dirimpettaio. Perciò ne conoscete bene l’aspetto, il mestiere, le abitudini e tanti altri dettagli insignificanti. Il resto, invece, sto per dirvelo io.

La dipendenza – Mario sembra una persona normale, invece è un uomo molto molto impegnato nel sociale. Per esempio, è un for causes-dipendente, un miliziano degli appelli on-line, delle petizioni su web. Non gliene sfugge una: dai mustelidi della Patagonia alle stazioni eoliche, dai campi magnetici alla mattanza delle platesse, dall’aglio rosso all’uranio arricchito, dai licheni del Niamar alla patata gialla, Mario si fa carico una volta al dì, generalmente dopo cena, del suo bisogno di appartenenza globale. “WE HELP PASSIONATE PEOPLE SHARE IDEAS, FIND SUPPORTERS, RAISE MONEY, AND MAKE AN IMPACT”.Mario non può vivere senza avere un impatto. Non può proprio.

Sorvegliante solerte del web, ogni sera firma e diffonde viralmente appelli di ogni tipo e provenienza: li stana, li caccia, li scova, li intercetta e li spamma ad amici e conoscenti. Sorveglia giornalmente i suoi gurue si tuffa come un kamikaze su ogni segnalazione. Che poi, scusate se è poco, ma per un aquilano che ha sopportato un terremoto decimo grado Mercalli, diventare un combattente for causes non è, se permettete, come donare due euro con un sms! Mario, potenziale destinatario di causa, ne diventa invece promotore! Non è meraviglioso? Fa fratelli. Fa sangue. Fa figo. Fa che uno dice: “Vedi? Quello non guarda solo al suo, quello è immerso nella cacca fino al collo, ma pensa alle disgrazie degli altri”. Che animo nobile e generoso! Il senso di benessere che si diffonde dalla pancia allo stomaco dopo un clic è ogni volta per Mario pari a un bacio d’amore, a un amplesso a lungo desiderato. A volte quel clic ha il sapore dell’appagamento del neonato dopo la poppata, dello scolaretto a cui la maestra dice bravo. Altre, invece, sa di rabbia, ha il sapore freddo della vendetta. Clicchi e dici “ladro”. Clicchi e dici “Fate schifo”. Un “clic” è un fare prezioso. Anche se è un fare che non fa che questo: “clic”.

La “coccia”- In realtà è solo un lusso. Ci vuole la coccia fresca per dedicarsi allo sport del clic. Non deve mica raccogliere i suoi quattro stracci dispersi, Mario. Dopo il terremoto è rientrato a casa. La sua casa non si è mica sgretolata come un tozzo di pan secco! Solo qualche danno alle tamponature, così, robetta, ora sta meglio di prima, senza quel cappotto di cortina, con le pareti tutte nuove, nuove perfino le tegole, e le grondaie, quelle in rame, proprio belle! Giura e spergiura di averle comprate a spese sue.(Mamo’ va a ssapé). Perché lui s’è dato da fare immediatamente, non è un cialtrone, lui. Per il poco danno che era, ha comunque fatto mettere le reti elettrosaldate. Che fai, non metti la casa a norma? “Il terremoto allora non ci ha insegnato niente?”. Adora questa frase, Mario, e la ripete spesso. “Sono stato sempre sul punto, sempre vigile, ho seguito tutte le pratiche, l’ingegnere, la ditta, i materiali, e tutto il resto. Me lo merito, me lo sono guadagnato”. Con queste parole Mario vuole dire che è diventato solerte e attento. Ma la gente, a sentirlo, lo fissa con un’espressione scettica e rancorosa, tipicamente aquilana, che significa: “Tu te sci saputu vedé solo ji caxxi té”.

Io sono io, e voi…” – Per Mario sono tutti dei coglioni. Amministratori, politici, quelli che avevano deciso all’inizio, quelli che avrebbero deciso dopo: tutti coglioni. Solo lui capisce sempre tutto. Clic, Clic, Clic… Il suo grilletto virtuale. La sublimazione cibernetica di Sfida all’Ok Corrall.

Però in effetti bisogna dire che è vero, accidenti. Mario ha fatto proprio tutto bene, per filo e per segno, non ha sbagliato una mossa. Guardate, guardate che bella casa! C’è uscito pure il disimpegno insonorizzato. Giacché ci si trovava, s’è ricavato pure l’agognato bagnetto vicino alla camera, tanto comodo! Lui giura e spergiura che l’ha fatto a spese sue. (Ma mo’ va a ssapé). Peccato solo per il paesaggio: sparato come uno scandalo, il progetto C.A.S.E. gli si staglia davanti come un treno merci, lungo e bianco come un ospedale. “Pidocchiosi” pensa Mario ogni volta che ci passa davanti. “Io non avrei mai accettato di andare al progetto C.A.S.E. Eh, ma gli hanno fatto trovare la lavastoviglie, i giardinetti fioriti, a ‘sti pidocchiosi… Questi parassiti continuano a farsi assistere. Questi stanno meglio qui che a casa loro, te lo dico io!”.

La storia – Mentre sta rincasando, Mario vede sulla strada una vecchia con le sporte della spesa, direzione Progetto C.A.S.E. La vecchietta, immobile sulle strisce pedonali, lo guarda con gli occhi da Giocondor e con l’espressione indescrivibile che assume il nostro popolo quando vede i macchinoni deipeócchi resatólli. E’ chiaro che la vecchia gli sta chiedendo strada. “E vabbé, passa!” dice Mario contrariato. “Ma guarda –pensa lui – una vecchia, a piedi, con le sporte pesanti, con questo caldo!”. Mario gira la testa contrariato: è troppo sensibile, certe scene non le sopporta. La vecchia ci sta impiegando un secolo ad attraversare la strada. Ansima e sbuffa come una locomotiva. Mario brontola, la guarda, indovina un paio di chili di patate dentro una delle buste. La vecchia finalmente arriva oltre la sua metà della carreggiata, l’auto di Mario avanza per intercettare il verde al semaforo… ma il rosso scatta e lo blocca all’incrocio. Stop. La vecchia lo incalza alle spalle. Lui gira la testa e pensa. “Ma guardala! Il popolo dei morti viventi! Incapaci di reagire! Eh… Non c’è niente da fare… Le pecore non fanno il parmigiano!”.

Bruno l’Amministratore (parentesi) – In un certo senso ha ragione, Mario. Molti zombie, dopo tre anni, sono stanchi perfino di andare alle riunioni di condominio. Bruno, l’amico di Mario, Amministratore di Condomini, dice che neanche le convoca più, le riunioni: ormai fa un po’ tutto di testa sua. “E che li chiamo a fare? Tanto le norme cambiano, loro non le capiscono, le situazioni si complicano”. E quando i condòmini gli chiedono qualche informazione sullo stato dell’arte, lui ripete sempre: “Vigilantibus, non dormientibus iura succurrunt!”. I poveri condòmini, a sentire il latinorum, pensano a chissà qualebusillis, e tacciono. Lui, intanto, sistema le cose in modo da succurrere i vigilantes. E vigila niente male, Bruno. Come Mario. Vigiliano, vigilano. Temporeggiano, attendono norme nuove, aggiustamenti, congiunture, condizioni vantaggiose. E il tempo passa.

I ricchi, tanto, di tempo ne hanno un sacco. Anzi, è il tempo la loro arma migliore. Loro riescono ad averne sempre il doppio o il triplo della gente normale. Infatti vivono due o tre volte. Quello che loro chiamano “tempo”, per i poveri si chiama “vita”. Vita che se ne va e non ritorna più. La vita dei ricchi, invece, si consuma altrove. Non si sa di preciso dove, ma altrove. E il ricco non perde neppure un minuto: guadagna sempre tempo e soldi. E’ sul punto, si informa, tratta, chiede, gira, conosce, vede gente. Clicca…

Gli zombie – Quello che Mario non riesce a spiegarsi è come mai gli zombie non se ne vanno dall’Aquila. “Ma che ci restano a fare? Pensano di poter ritornare a casa loro? Ahahahah… Non capiscono che usciranno da lì con i piedi davanti? C’è l’”acquisto equivalente”, inventato dal legislatore proprio per loro! Possono ricomprare dovunque vogliano, in tutta Italia! ma loro… no! Qui vogliono restare! Ma che diamine, si rifacciano una vita altrove, suvvia, lascino fare chi ha il capitale per far risollevare la città, chi fa ripartire l’economia! Ma… tzé… quelli non hanno una coscienza civile”. Sfugge a Mario il fatto che ogni piccolo movimento, per chi ha perso tutto, comporta emorragie di denaro. Chi ha perso tutto sa bene che bisogna stare fermi, immobili, respirare appena, risparmiare le forze, tenere la testa bassa. “Pecore! La coscienza sociale richiede fatica, impegno, partecipazione. Non è fatta per le pecore! ci vuole coraggio, bisogna investire, darsi da fare, rischiare, seguire!”. Clic, clic, clic.

Dei famigerati regolamenti di condominio – Il semaforo ha una durata interminabile: il caldo è afoso, lo spettacolo desolante, e la testa di Mario continua a rovistare pensieri e preoccupazioni. “Tre anni sono passati e la popolazione assistita è ancora di 17mila persone. Diciassettemila persone. Guarda, guarda che tristezza le C.A.S.E! Bambini che strillano a tutte le ore, cani che seminano i bisogni per strada, panni stesi a destra e a manca, paraboliche grosse come funghi atomici che sbucano dalle ringhiere dei balconi, tutti i sottoscala zeppi di roba vecchia. Dio che spettacolo indecente… Questi all’anarchia ci sono abituati! Ci sguazzano! Questi sanno solo delegare. Delegano ai politici! E i politici fanno ciccia di porco!”. Quando dice così, Mario fa gli occhi piccoli piccoli. Mario odia la mafia e la politica, e lascia intendere che siano la stessa cosa. Sfugge a Mario che la povera gente non ha che la politica, per essere difesa. Non ha che una X da segnare nel segreto dell’urna, per sperare di riprendersi la vita.

La cattiva coscienza – Scatta il verde. La vecchietta con la spesa ha percorso pian piano la strada e ha raggiunto la macchina di Mario, gli sta proprio alle spalle. Chissà perché (sono i casi strani della vita), la donna appoggia a terra le sporte, alza la testa e lo fissa nello specchietto retrovisore. Solleva lentamente un braccio e lo tende davanti a sé, dritto come una spada. Forse sta tirandosi su una manica. O forse ha dolore al braccio per via del peso delle sporte, chissà. Fatto sta che la vecchia punta il braccio verso di lui. Mario la guarda, ha un sussulto, è infastidito da quella presenza nel suo specchietto. Si ravvia i capelli, si tira su i pizzi del colletto della polo. “Anche io sono un terremotato, eppure, guardate signori, io ho una coscienza civile, io vigilo”. Ma la vecchia ricompare nello specchio, sempre più cupa. Braccio alzato, bocca chiusa, sfatta di caldo, sudata, due chili di patate nella sporta, sembra dirgli: “Idiota, dov’è che vigili? Io sono qui”. Ma lui non capisce. Pensa agli appuntamenti di domani, pensa ai “Condividi” di stasera. Clic. Clic. Clic.

Conclusione – Mario, il dirimpettaio, è un miracolato. Scampato casualmente alla sorte, è convinto che il merito della sua sopravvivenza e dei suoi buoni affari sia solo il suo, che solo lui è bravo, e che gli altrisono tutti coglioni. E’ anche convinto di darsi molto da fare per la sua comunità.

E siccome il da fare non è mai troppo, ha creato una pagina feisbuc: “Gli aquilani non sono pecore”. In poche ore raccoglierà più di millecinquecento “Mi piace”. Tanto gli zombie non sono iscritti a feisbuc.

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LA TRAVERSATA

Nonna Ester era sempre contenta quando suo nipote poteva accompagnarla dove lei aveva bisogno di andare. Lorenzo, poi, era il nipote preferito: fresco fresco dei diciott’anni e fresco fresco di patente, non aspettava altro che la madre gli dicesse: “Oggi devi portare la nonna dal dottore”. Una frase che gli provocava un nonsocché, una strana effusione di calore dallo stomaco fin sopra le orecchie. “E non farle venire un infarto” raccomandava laconica la madre. “Offréchete, vai tranquilla mà!”. Ultimamente l’orgoglio dialettale di Lorenzo era divenuto prepotente, per non dire insopportabile. La nonna, in questi casi, era arcicontenta. Sarà stata l’incoscienza, sarà stata l’età, sarà che i vecchi non si aspettano di essere eterni, ma la nonna era l’unica persona al mondo felice di salire in macchina con Lorenzo, e sfidare la morte. “Vieni qua giovanotto, ché ci divertiamo!” gli diceva strizzando tutti e due gli occhi. Scattante come un virgulto, prima di uscire di casa apriva il cassetto del comodino, prendeva un mazzetto di soldi senza contarli, e faceva capire al nipote, con una smorfia di aumm-aumm, che sarebbero andati “a sfrusciarseli”. “Nonna, vedi che oggi ti levo dieci anni!”. “Sì, i dieci anni che ti restano da vivere… “ farfugliava alle spalle la madre, certa che la nonna, mezza sorda, non potesse sentire. “Ma noooo…. la faccio ringiovanire di dieci anni!” precisava il ragazzo, che non arrivava mai a capire il sarcasmo materno. E nonna Ester, con la scusa del dottore, schizzava giù per le scale, agile e secca come era sempre stata, ragion per cui all’Aquila era nota come “La Marescialla”. Vedendoli uscire a braccetto, chiassosi e pieni di energia, c’era sempre da pensare: “Chissà come torneranno, anche stavolta…”. Già. Come si fa a stare tranquilli, quando un neo-diciottenne neo-patentato deve attraversare una neo-città? Troppi nei. Per non dire che non era una città qualsiasi, ma una città di nome L’Aquila, una Signora Città Terremotata. Da Marruci, dove erano sfollati, a San Gregorio, dove stava lo studio del dottore, era una vera a propria traversata: 35 chilometri, 7 euro di benzina e 55 minuti di macchina. Un sollucchero, la città diffusa. Che poi Lorenzo non sceglieva mai le higways, preferiva lebackstreets che scorrevano nel traffico limitrofo alla città vecchia, per fare un po’ di pratica di guida in qualcosa che somigliasse a una città vera. Adorava, per esempio, passare per viale della Croce Rossa, oppure per via XX Settembre: strade con un lontano odore di città, dove guidare si faceva interessante e ti illudevi di sfilare tra le case, invece di sentirti un pastore in un presepe. Sulle strade della città vecchia, per quanto penosa, la vista dei mazzi di fiori e dei poster con i volti dei ragazzi morti era venerata da tutti: passarci davanti era un modo per sentire i morti ancora vivi, tutti e 309. Gli aquilani avrebbero voluto vedere anche quelli della Zona Rossa. “Ci mandano i turisti con la guida, a guardare, e a noi, sangue del loro sangue, non ce li hanno fanno vedere!” si inalberava la nonna, facendo tremare un po’ platealmente la voce, quando diceva questa frase. Partivano come se si trattasse di un viaggio. Velocità di crociera: 40 all’ora. Climatizzatore: acceso. Percorso mentale: preciso ma, pronto a immediata, estemporanea revisione. Il ragazzo attaccato al volante, la nonna appesa alla maniglia del finestrino, per non volarsene via da una curva.

“Accosta annonna, quando vedi Alberto”. “E chi è Alberto?”. “Ma come, Loré, Alberto è il farmacista, devo comprare subito la colla per la dentiera!”. “E no, nonnaaa! Ma che ne so io, dove sta Alberto? Telefono a Chi l’ha visto?Dai, accontentati di un altro farmacista “. “Eh, ‘sti giovani… non conoscono i capisaldi della città!”. “Caposaldo della città? Il farmacista? Nonna jamo su!”. “Oh, Lorè, Alberto era meglio del dottore! La colla per la dentiera che compravo a Capopiazza…” “Scì scì, nonna, Capopiazza non c’è piùùù! C’è stato il terremoto, te lo ricordi? Tra venti minuti però c’è una bella farmacia! Non hai voluto cambiare dottore, almeno cambia il farmacista!”. Non c’era stato verso di farglielo cambiare, alla nonna, quel dottore. S’era faticato per farle cambiare il supermercato, il pizzicagnolo, il parrucchiere, il fruttivendolo, il pesciarolo, ma il dottore, quello, non ci fu verso. Nelle nuove zone, nei nuovi negozi, nei nuovi giardini, la nonna si guardava intorno spaesata: “E tu chi sei? Il mio parrucchiere si chiama Daniele! Come mai non viene lui a farmi i capelli?”. Tutti le mentivano pietosamente: Daniele era andato al bar, era in ferie, era andato un attimo a casa… Lei si lasciava prendere in giro, faceva l’aria piccata e usciva dicendo: “Se Daniele non torna, io cambierò parrucchiere! Lui sì che sapeva come prendermi per i capelli! Ahahahah…”. Era la sua battuta preferita. Poi, la volta successiva, docilmente si lasciava portare dal parrucchiere sotto la nuova casa, per non dare troppi fastidi ai parenti. Ma Lorenzo era certo che stesse fingendo. “Preferisce sembrare rincoglionita, ma io lo so che sta prendendo tutti per i fondelli”, pensava sempre con aria di complicità. Il dottore, medico della famiglia da trent’anni, s’era rovinosamente trasferito a San Gregorio. E la nonna, testarda, ci si faceva accompagnare al bisogno, e se nessuno voleva, chiamava un bel taxi. Ma ora c’era Lorenzo che voleva! Certo, era una bella traversata…

Ogni volta, arrivata alla quarta rotatoria, la nonna diceva sempre la stessa, fatidica frase: “Certo che prima L’Aquila era piena di salite e discese, mo’ è diventata piena di curve, ahahahah!”. E rideva di gusto, per poi aggiungere: “Ma com’è? ‘sto terremoto ha cambiato la conformazione del terreno, eh, Loré?”. “Sci scì, no’, ha cambiato la conformazione del terreno!” la prendeva in giro il ragazzo. “Mo’ però è pure bella, L’Aquila, ve’ Loré?” “E certo che è bella! E’ bella, è bella! A me mi piace lo stesso! Guarda!… Si fila che è una meraviglia! Pare tutta ‘n autostrada!”.

“Ecco la farmacia, no’, vedi che ce l’abbiamo fatta? Mo’ guarda come parcheggio eh, no’, ti faccio un parcheggio da manuale!”. Lorenzo sistemava la sua Fiat Uno nell’ampio piazzale davanti alla farmacia come se si trattasse di un trattore da infilare in una rimessa troppo stretta. “Ma addo’ sta’ la farmacia, Loré?” “Qua, nonna! Dentro al container, dai, vieni, ti accompagno”. “No, aspettami qui annonna, faccio da sola!”. Non voleva mai essere presa sottobraccio, La Marescialla. Per questo i figli la sgridavano sempre, mentre Lorenzo la considerava una gran figa. “Bella no’, non ci sta nessuno, evvai!”. I container, qualsiasi cosa vendessero, pure le medicine, davano sempre un’impressione di disordine e di sporcizia. La nonna, uscendo, esclamava: “Temé, come sta messa la farmacia di Capopiazzaaaa!”. “Eddaje co’ ‘sto Capopiazza, nonna, stiamo ancora a San Sisto!”. “Loré, mi devi portare al Bersagliere! Mi servono le canottiere e pure le mutande!” “Ma dai, nonnaaaa, il Bersagliere no, per favore!” “Sì invece! Dove sta Renato? io lo voglio rivedere! fai contenta annonna, su”. Così dicendo, gli allungava un bigliettone da venti euro, che Lorenzo accettava, simulando un accenno di reticenza, come vuole la buona educazione. Per incoraggiare la guida timorosa del giovanotto, la nonna aggiungeva poi qualche commento del tipo: “E’ ancora bella, L’Aquila, eh Lorè? Vedi come si fila? Si fila proprio bene”. “Seee… dici che si fila? Ah no’, ’sto tizio qua davanti avrà 108 anni, e porta pure il cappello, altro che si fila!” “Eh, se avessi la patente io! Anch’io porterei la macchina, e mi vedresti sfrecciare proprio come questo signore!” “Sfrecciare? Nonna, questo va a 20 all’ora! Abbiamo una coda dietro che arriva fino a Tornimparte! Altro che signore, questo è Mister Magoo!”. “… La porterei pure io…” continuava tra sé la vecchietta “la porterei eccome, la macchina. Mica si può dare fastidio ai figli, dopo quello che è successo!”. Alla rotonda del Torrione, la nonna riconosceva sempre con entusiasmo il paesaggio, che non era molto mutato da prima del terremoto, anzi sembrava migliorato. “Rallenta rallenta! Ecco la statua del Terremoto!” e si faceva il segno della croce. Alla rotonda successiva, regolarmente diceva: “Ma qua non ci siamo già passati?”. Però notava bene la nuova statua, e si segnava ancora, un po’ intristita. “Su su, nonna dai, mo’ nonripiàgne eh, mannaggia!”

A Lorenzo piacevano, i vecchi. Erano proprio belli. Gli mettevano allegria. Tutto il contrario di quelli che lui chiamava i “quasi-vecchi”. I “quasi-vecchi” erano quelli abbastanza vecchi da essersi dimenticati dei calci nel sedere che avrebbero voluto sferrare ai loro figli quando erano adolescenti. Calci che, ora, da quasi-vecchi, riservavano con piacere, confusamente e senza scrupoli parentali, ai figli degli altri, Così, per pura, inconsapevole vendetta. Soltanto una meravigliosa presbiopia senile avrebbe poi aperto i loro occhi, tra qualche annetto. Con un po’ di fortuna sarebbero potuti diventare perfino come nonna Ester. “Eh, devi avere pazienza con i vecchi, Lorè! Hanno i loro tempi, e non possono chiamare per ogni cosa figli e nipoti, sparpagliati come stiamo, uno a destra, uno a sinistra…. Oh oh… Rallenta rallenta! Ecco un’altra statua del terremoto! Vedi, vedi quant’è bella?… ”. Altra croce. “Oh, nonna! La fai finita co’ ste croci? Mi innervosiscono la guida, eddai! E poi mi viene da togliere la mani dal volante, porca miseria!”. “Eh, figlio mio! Su, vai, vai, che sei tanto bravo!”

Solo la nonna diceva a Lorenzo che era bravo, solo lei, specie dopo il terremoto, dacché Lorenzo aveva iniziato a studiare poco e niente e a scuola andava proprio male. Così, senza nessun motivo, andava male e basta, non c’entrava niente il terremoto, né il centro commerciale, né i portici o la sua cameretta senza più le collezioni di Dragon Ball Zeta, disperse anche loro sulle strade della California. Era solo che non gli andava di studiare. I quasi-vecchi, ogni tanto, guardavano lui e i suoi compagni con gli occhi che dicevano: “Mah”. Faceva comodo lasciar credere ai quasi-vecchi che la colpa era la mancanza della casa, ma era il copione. Ogni tanto qualcuno in città se ne usciva a chiedere “ai ggiovani” di che cosa avessero bisogno. Locandine, fotografie, strette di mano, qualche progettino, articoli sui giornali, poi tutte le promesse si spegnevano come un cerino sotto a uno sputo. I ragazzi stavano al gioco: intervistine, due o tre foto in atteggiamento da macho, e gli adulti erano tutti contenti di aver fatto il loro dovere, poveracci. Però qualche quasi-vecchio in gamba, ogni tanto, da cui sentirsi capiti, si trovava. Come il professore di Scienze. Quello sì, valeva la pena accostarglisi. Gli bastava guardarti in faccia al mattino per capire se era aria. E poi sapeva sempre come tirarti fuori dal sacco. Ci riusciva sempre. Non diceva mai “i ggiovani”, lui. A volte Lorenzo ci passava la ricreazione in cortile, a vederlo fumare e a chiacchierare: ci stava bene perché a lui non usciva dagli occhi la frase: “Questo non combinerà mai niente”. Era l’unico come nonna Ester, che qualche volta gli diceva addirittura che era tanto bravo, e lui si sentiva gonfiare piano piano come un tacchinello.

“Non c’hai paura di venire in macchina con me, nonna?” “Paura? E di che? Sei proprio bravo, guai a chi dice di no! Fai questa bella traversata per portare la nonna dal dottore!”. Una volta arrivati, la nonna scendeva e faceva la sua visita. Lorenzo, nel frattempo, se ne stava prudentemente nascosto. Nei giardini davanti all’ambulatorio, infatti, c’erano sempre un sacco di bambini a giocare, e con loro inevitabilmente c’era l’altra categoria di persone dalle quali Lorenzo rifuggiva con lo stesso terrore con cui un gatto scappa via da un asilo: i “Genitori-di-figli-piccoli”. I Genitori-di-figli-piccoli aborrivano i ragazzi della sua età, li guardavano con disprezzo profondo. A trovarseli davanti, infatti, e a vederli darsi spintoni, fare gli scemi, vestiti come i parenti poveri di Naruto, sbrindellati, scaciati, con le maniche sempre troppo lunghe e i pantaloni sempre troppo calati, i Genitori-di-figli-piccoli si innervosiscono sempre. Stringono a sé le loro creature, come per paura di un orribile contagio. “Via, via, brutti fannulloni! A studiare, via! Alla vostra età, io… ehmmm… mio padre… ehmmm… mio nonno… Insomma, via!”. I ragazzacci, sghignazzando, nella stupidità che caratterizza l’età ingrata, ci credevano, alla storia del padre e del nonno, che invece erano stati adolescenti pure loro, e magari pure peggio di loro. ”Ah, se fossi io vostro padre!”, aggiungevano i Genitori-di-figli-piccoli. Non immaginavano mai che lo sarebbero stati molto presto. E allora sì che avrebbero iniziato a ingoiarsi quei calci che ora prudevano sulla punta dei piedi.

La nonna usciva sempre dall’ambulatorio con un mazzetto di ricette e la faccia soddisfatta: e così iniziava la traversata al contrario, sulla via del ritorno, rotonda dopo rotonda, pensiero dopo pensiero. “Ecco la statua dell’angelo!” diceva a un certo punto la nonna, spiccando la mano dalla maniglia, come per segnarsi di nuovo. “A nonna che fai? quella è l’aquila di bronzo del reggimento degli Alpini!” “Uh, e che ne so! Loré… A volte non mi ci raccapezzo… Non mi ci raccapezzo più”. La stanchezza, a quel punto, creava un piccolo corto circuito nel cervello della nonna. Faceva una lunga pausa e poi tirava una specie di singulto, con lo sguardo perso nel finestrino: “L’Aquila s’è spallata, Loré!”. Solo in quei momenti di confusione la nonna sembrava realizzare lucidamente l’evidenza. “L’Aquila s’è spallata”. Lorenzo, nel suo primitivismo, avvertiva che dopo questa frase la nonna sentiva una cosa allo stomaco che la tirava giù giù verso il tappetino di gomma, così cercava di distrarla come meglio poteva. “Guarda no’! Guarda che bei cantieri! Le case sono tutte incappottate, no’! Piano piano si rifanno, lo vedi no’? Sei contenta?”. “Oh, che bello, Sì sì, piano piano! Ci vuole il tempo suo. Certo io casa mia… chissà se la rivedo, eh Loré… Mi ci porti a fare un saluto? Dai Loré, poi ci prendiamo le pizze!”. Ma Lorenzo era incorruttibile. Come ce la portava, d’altra parte, in via Tre Spighe? E ogni volta se ne inventava una nuova. “Nonna, lascia perdere la casa, andiamo a prenderci il gelato!”.

Tornavano che era tardi. Come sempre, il quadretto si presentava uguale a se stesso: Lorenzo distrutto di fatica, la nonna con la faccia stralunata dal paesaggio straniero, e infine la mamma che, con il solito pessimo umore, saltava alle conclusioni, le solite, sbagliate.“Lorenzo, ma come devo fare con te? Guarda come hai ridotto la nonna!”. Ma Lorenzo sapeva, nei suoi stupidi diciotto anni, che la colpa toccava comunque e sempre a lui. E sapeva anche, con assoluta certezza, che la tristezza della nonna, l’amarezza della madre, stavolta, almeno stavolta, non erano tutta colpa sua.

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DRIVING WITH JIM!!!!!