IMAGINE ALL THE PEOPLE…

Questo testo fu scritto per la presentazione della mostra dell’artista Donatella Giagnacovo intitolata: “Di bianche spine”. L’inaugurazione è avvenuta nel maggio 2022, ma retrodato il testo perché la prima inaugurazione avvenne l’8 marzo 2020, ultimo giorno prima delle chiusure per covid.

Noi si sperava, un tempo, che non ci fossero più guerre.

Un tempo, ricordate? si intervistavano le miss, Miss Universo e Miss Italia, e alla domanda del giornalista “Ci dica Signorina, se lei potesse esprimere un desiderio, che cosa chiederebbe?”
La pace nel mondo!” gridava lei, con quella ingenuità un po’ sciocchina, con quel modo di illudersi così poco pratico che oggi non fa più sorridere, ma fa audience.

Con la stessa ingenuità di una Miss degli anni Sessanta, oggi, basta esporre una bandiera e mettersela sul profilo per considerarsi attori di una cultura di pace. Siamo tutti Miss Italia.

E invece dovremmo partire dalle strade, dagli ambienti di lavoro, per promuovere LA cultura della pace. Dovremmo abbattere la logica della competizione, della prepotenza, dell’arroganza. Dovremmo isolare tutti gli haters, e tutti i fanatici. Che invece sono sempre più gettonati in quanto “prestatori di idee” per chi non ce le ha.

Amos Oz scrive nel 2001 un testo che dovremmo rileggere: “Contro il fanatismo”. Il fanatismo – dice Oz – è una delle malattie peggiori del mondo moderno. La contrae chi pretende in tutti i modi che gli altri la pensino a modo suo. Il fanatico possiede “quell’inclinazione comune a rendere migliore il vicino, educare il coniuge, programmare il figlio, raddrizzare il fratello, piuttosto che lasciarli vivere”. La guerra è solo la punta dell’iceberg, è molto prima, che il fanatico deve essere fermato. Nell’ultimo capitolo contro il fanatismo, Amos Oz parla del ruolo dell’Europa. Dice che non dovrà più scegliere se essere pro Israele o pro Palestina, dovrà essere per la Pace. Invito a sostituire quelle due con altre due, è uguale…

E aggiungo: quando chiesero a Ghandi come avrebbe fermato le truppe di Hitler che invadevano l’Europa, egli rispose che gli europei avrebbero dovuto stendersi sui binari e non far passare i treni, anche se Hitler quei treni li avrebbe fatti procedere lo stesso.

Uh… non siamo capaci di sederci sui binari, come suggeriva Ghandi per fermare i treni di Hitler.
Ma siamo capaci di farci passare sopra treni invisibili, mille volte più distruttivi di quelli.

Abbiamo fallito? E dove? Un tempo sognammo la libertà di vivere. Sognammo eserciti “di pace”. Uomini e donne che distribuivano cioccolato e latte condensato, salvavano migranti, trovavano dispersi, portavano acqua, spalavano fango, toglievano macerie…

Crescemmo col Viet Nam, il napalm, i reduci. Crescemmo da madri e da nonne che raccontavano gli orrori, la fame, le fedi alla patria per farci i cannoni. E dicemmo “mai più”. Educammo intere generazioni a questo “mai più”. Le canzoni dicevano: “Ehi, ragazzo, sii semplice, sii qualcosa che ami e capisci”. Simple man, Lynard Skynard, e la insegnavo a scuola, un tempo.

Poi ci hanno subissato con le menate sulle prestazioni, con l’efficientismo, l’ossessione per il “risultato”, i quiz, i test, l’educazione civica … e ci hanno tolto quanto di più bello avevamo per insegnare a promuovere LA cultura della pace. Hanno usato la tecnica della rana bollita: la rana, dentro la pentola, si abitua alla temperatura in aumento, e si ritrova lessa senza neanche accorgersene. E di nuovo, come rane bollite, ci stiamo abituando alla presenza della guerra, in forma di tifoseria da stadio.

Imagine…” sussurrava John Lennon.

NOVEMBRE

Le iscrizioni mi piacciono, ovunque si trovino. Mi piacciono i graffiti, le scritte murarie, gli scarabocchi lasciati dai ragazzini sui vetri delle macchine, le incisioni, le iniziali – che certamente rappresentano là per là una barbarie, ma che poi col tempo acquisiscono un ruolo piacevole di testimonianza.

Che sarebbe la Casa dei gladiatori a Pompei, se le ragazze non avessero lasciato sui muri le loro scritte di ammirazione per i muscoli dei lottatori? Un fascino dimezzato. E come potremmo capire la vita quotidiana degli antichi romani, se non avessimo le scritte murarie della gente dell’epoca, per esempio le scritte elettorali?

Le iscrizioni hanno un fascino incredibile, anche quando ti fanno imbestialire perché le trovi sulla croce di ferro della Crocetta, sull’eremo più sperduto, perfino se vai in Tibet – sono certa che in cima ci trovi la scritta di qualcuno che ci è passato prima di te e che ha voluto lasciare un segno.

“Un segno”, ecco. In realtà le iscrizioni hanno il fascino di tutti i segni che aspettano di essere letti. Dicono: Io esisto, e sono passato di qua.

Per fortuna adesso esistono i selfie, quindi i muri si sporcano molto meno. Un selfie non devi neanche lasciarlo là, te lo porti dietro, non sporca e non inquina. Quando non c’erano i selfie la gente scriveva sui sassi, li rubava perfino. Si portavano via i sassi del Colosseo, le tessere dei mosaici, i mattoni delle case.

Ma che fascino avevano, però, e che fascino hanno tuttora le iscrizioni!

Mi piacciono tantissimo perfino le scritte sulle lapidi.

Ce n’è una che mi piace tanto, dal lato Acquasanta: “FORSE CI INCONTREREMO ANCORA, UN GIORNO, NEL BEL MEZZO DELL’UNICA FESTA CHE NON PUO’ FINIRE”. Stop. Non c’è un nome, non c’è una data. Però ci vedi la bell’Epoque, una coppia, e feste da ballo, vestiti eleganti, champagne a fiumi. Il potere di una scritta su un sasso.

Vicino a quel sasso, un paio di anni fa ho incontrato un ragazzo che con accento toscano mi fa: “Oh la mi schusi Signora, sa micha dov’è messo Magnotta?“. Mi metto a ridere, lui ride con me, non ci crederete, ci abbracciamo come due fratelli.

Mi spiega che sta accompagnando la sua ragazza, aquilana che studia a Siena. Mi spiega che sa tutto di Magnotta. Mi spiega che giacché stava lì, ad accompagnare la ragazza che era tornata per il ponte dei Morti, voleva andare a vedere se era vero che c’erano dei pezzi di lavatrice portati lì dai ragazzi.

Mi metto a ridere, gli dico di no, mai visti. E poi ce lo accompagno.

Gli spiego che le lavatrici in posti del genere non sono ammesse, ma che sono contenta che qualcuno che non è di qui lo vada a trovare. Spero solo che non si faccia un selfie macabro.
Ma non sono certa che non se lo sia fatto dopo che me ne sono andata.

Salutandolo gli dico: “Laggiù c’è Libero! Lo conosci Libero?”. Mi dice di no, mai sentito nominare.

Faccio spallucce e bisbiglio tra me, aprendomi a un sorriso: “Davvero non conosci Libero? …. Che mondo!

 

LA VITA NELLE COSE, ANCORA

Ultimo quadro.

Dopo dieci anni, si svuota pure l’ultimo container.

E ti chiedi perché mai non hai buttato tutto, lasciandoti l’ingombro delle “cose”, della “robbba”, mancando la certezza di un dove in cui poterla collocare un giorno.

Quel beauty me l’aveva regalato mio padre, compivo 15 anni e lì ci misi tutto tranne i trucchi, per i quali non ho mai nutrito grande simpatia. Era piuttosto lo scrigno dei segreti, il ricettacolo dei sogni, dei misteri, delle liste nere, degli oggettini strani di una ragazzina.

Non aveva torto Platone, a cacciare i poeti dallo Stato: accumulatori seriali, patologici cultori delle cose inutili, nota stonata nel concerto di motori delle fabbriche che producono “altre” cose, cose nuove, splendenti, à-la-page, che bruciano le vecchie come streghe.

Ed era proprio buffo a vedersi, quel beauty anni Settanta, squadrato come le macchine dell’epoca, sobrio nel suo colore pelle naturale, con le cerniere d’oro, il lucchettino ben protetto, e la chiavetta…

Ma ora, era arrivata la sua ora.

Pieno di polvere, ma in perfetto stato, lo guardo a mala pena per il dispiacere di quell’abbandono, lo metto in una busta insieme a una ventina di vestiti vecchi, e cerco una raccolta di indumenti. Il primo box che trovo è complicato da approcciare, c’è traffico, non c’è parcheggio, allora vado oltre, ne vedo da lontano un altro in mezzo a Via Strinella.

Accosto. Sul marciapiedi c’è una donna giovane che aspetta l’autobus. Scendo, prendo il sacchetto coi vestiti, lo poggio sul ripiano, tiro il maniglione, glu-glu-glu, e va giù, nel baratro del cesto. Rimetto in asse il maniglione, torno in macchina, e prendo il vecchio beauty impolverato. Come un ostensorio lo tengo in mano, mi avvicino al secchio. Ma la signora fa un piccolo grido, dice: Scusi, per favore! … Mi giro a lei, che è ferma, nascosta dagli occhiali e da un foulard tirato sui capelli.

Se lo deve buttare, lo darebbe a me?

Richiudo il maniglione. Le vado incontro, mentre un groppo mi sale nella gola. “Davvero lo terrebbe?” le dico, con la voce un po’ strozzata, la pelle che mi si arriccia sulle braccia. Volentieri – dice lei. E per alleggerire l’imbarazzo che potrebbe forse avere nel prendere una cosa da buttare, le dico, come fossi un venditore: “Se le piace il vintage, questo qui è perfetto”. Mi avvicino, apro il coperchio, a mostrare la meraviglia dell’oggetto, e come vecchie amiche ridiamo, ammirate come due bambine, poi apro tasche e taschine, le mostro lo specchietto in perfette condizioni. E’ contenta, dice che lo regalerà a sua figlia. La ringrazio più volte, felice che la cosa abbia un’altra vita. Me lo aveva regalato mio padre a quindici anni, dico a giustificare un po’ la mia emozione.

Lei lo prende con cura, lo aggiunge alla sua borsa.
Tendo la mano, la stretta è vigorosa per la gioia, ci salutiamo un po’ commosse entrambe.

Che sceme, eh? Un’adorabile scemenza, che potete capire solo voi che siete qui.

Le cose hanno una vita, hanno una storia, una poesia nascosta. Quel facile buttare che riesce tanto bene a tutti, io non ce l’ho. E – lo vedi? – c’è sempre un modo per riciclare tutto, è il ciclo della vita, le cose devono girare, per tonare vive.

Viaggio leggera adesso, è vero. Dal il terremoto ho imparato a non legarmi a niente. Non puoi perdere quello che non hai.

Ma insieme a quei Trecento se n’è andato via dell’altro, che riaffiora ogni tanto, ed io lo lascio andare, come sa fare la mia testa un poco svaporata.

Lo lascio andare, sì, finché… una voce non dica: “Lo dia a me”.

 

…………………….


Gnaris Barkley – Crazy

SIT KARMA

Certi giorni sono giorni dharma.

Oggi, per esempio. Mi sono fermata all’edicola e ho incontrato una signora che mi ha sorriso e ha fatto una carezza al mio cane, cosa rara e preziosa. Eh, aspettate! Aspettate a dire che è la solita stronzata retorica, non è questo il punto, lasciatemi continuare a raccontare. Cosa rara e preziosa dicevo, ancora più rara e preziosa in questa città, dove tutti sono incazzati, anzi hanno l’incazzatura congenita, gliela vedi nella faccia, nei piedi, nel modo di camminare, nel tono della voce. Certo, per lo più se ne ha ben donde, in questo contesto, eppure io credo che bisognerebbe sforzarsi di sconfiggere questo stato di infelicità, coprendolo con le piccole cose che ci fanno contenti. Vedere qualcuno che ti sorride è una di quelle cose.
L’emozione subito mi si è tradotta nell’allargarsi di un sorriso vero e profondo

Il tutto dura pochi istanti. Poi lei prende il giornale e fa per lasciarmi il posto, ma ci ripensa e chiede un gratta e vinci. Mi chiede il permesso di grattare subito lì davanti, io dico prego si figuri faccia pure. Gratta… e vince! Cento euri. Ci mettiamo a ridere tutte e tre (pure Roberta, la ragazza dell’edicola). Alla signora gentile si scompigliano i capelli, è veramente emozionata, intanto io rido come una matta, sono contenta davvero. Questa bella sensazione me la porto dietro.

Poco dopo sono in macchina, oggi è il giorno del miele e faccio un breve viaggetto per il mio rifornimento invernale.

Per strada un tizio con un bel macchinone luccicante inizia a tampinarmi, spinge, spinge, freme, s’attacca al posteriori. Io quando mi tampinano non accelero mai, anzi rallento per farmi sorpassare, a volte addirittura metto la freccia e accosto, e mentre mi affiancano gli faccio un gesto di incoraggiamento con le mani per dire e passa, passa, vai, vai corri che tanto ci vediamo in fondo alla strada. E così è. Mi affianca, mi lancia uno sguardo dal finestrino, come a dire levati dalle balle.
Non ricambio minimamente. Vai, vai: pur col tuo macchinone, sei e resti un cafone.

Scendo giù giù per la china, la strada finisce a uno Stop.
E lui è lì. Allo Stop ci si deve comunque fermare.
Sorrido.
Ehi, aspettate, pure stavolta non è mica finita.

Avrei voluto attaccarmi al suo posteriori per farmi riconoscere – lo vedi? sono quella di poco fa, alla fine siamo arrivati insieme, lo vedi? corricorri, e poi ti devi fermare allo Stop. Ma una Golf blu confluisce sulla strada, si infila tra lui e me, arriva sullo Stop. Il guidatore già arriva lungo, per di più evidentemente si distrae e… CRASCHHHHH……
ENTRA. Entra letteralmente nel posteriore del macchinone. Il cafone di cui sopra scende con le mani nei capelli. Dalla bocca, qualche suono disarticolato: …la … mia…. macchina
Metto la freccia… svicolo lentamente… lo affianco… gli guardo il posteriori completamente distrutto… passo lo Stop e me ne vado.

Una risata incontenibile mi sale dalla pancia alla bocca… rido… rido… rido!

E penso che sì, oggi è stata una bella giornata, un buon giorno per vivere.
Ogni volta che mangerò il miele, me ne ricorderò.

Sarà un miele dolcissimo, quest’inverno.

TWIN

Twin è un pointer bianco e nero.

L’ hanno abbandonato nei pressi del canile e lui è rimasto in zona, con il modo di fare tipico dei cani da caccia: girano, girano, girano instancabili. Twin gira nel parco guardando per aria, in alto, sulle fronde degli alberi, in attesa di un frullo d’ali da inseguire. In quello sguardo c’è un mondo intero, una storia che nessuno sa, ma che mi sono fermata ad ascoltare, in rispettoso silenzio, tante volte.

Stamattina però Twin aveva un padrone, un giovane uomo con un altro pointer bianco e nero, molto simile a lui. “Per questo l’ho chiamato Twin, gemello!” mi dice. Gemello del suo vecchio cane.
“Il mio cane ha tredici anni, questo ne avrà quattro, al massimo cinque”. E mentre dice questo a me sembra che dica: “adesso ne avrò uno uguale, e quando il mio amico mi lascerà avrò il suo gemello. Me l’hanno mandato uguale, e io l’ho preso, me lo sono portato subito a casa”.

L’uomo ha l’accento dell’Est, e gioca sul prato tirando un bastone ora all’uno o all’altro dei suoi due cani gemelli diversi. Il pointer vecchio resta seduto, il giovane corre e corre, e ogni tanto si allontana, e scompare, poi torna quando l’uomo fischia, come fosse il suo cane da sempre. A quel fischio, Twin arriva scomposto, con la lingua che balla a destra e a sinistra.
A un certo punto gli dice “seduto”, gli prende la testa tra le mani, gli apre la bocca. Poi alza la testa verso di me, e mi dice “guarda”. Sotto i lembi delle labbra vedo i canini, da un lato e dall’altro, segati. La bestiola ha i canini senza punta, spezzati, glieli hanno spuntati. L’ultimo tentativo di renderlo buono alla caccia.
Resto senza parole. L’uomo mi guarda e non parla, fa le spallucce, e poi una smorfia. E Twin resta lì, la lingua sempre fuori, gli occhi sempre persi sulle cime degli alberi, attenti a ogni muoversi di fronda, pronti a dare il comando di correre a prendere.

Non era buono a cacciare, Twin, azzannava le prede. Ma segargli i denti… Si fanno cose orribili. Ma c’è poco da scandalizzarsi, si segano i denti anche alla gente, quando “non è buona” allo scopo.

Per un sacco di gente, un cane vale l’altro.
E per ogni cane, c’è un gemello coi denti segati.

Ma ogni tanto c’è pure qualcuno che sceglierebbe sempre lo stesso cane, fedele più di quanto non lo fu il cane stesso, al punto da portarsi a casa il gemello.

Me ne vado.
L’uomo dell’Est resta lì con le sue bestiole uguali e diverse, continuando a giocare sul prato come se il tempo non esistesse, come se non ci fosse niente di più importante da fare.
Malinconiche e felici, le sue mani vigorose raccontano al mondo di aver messo riparo, per una volta, a una grande, grandissima ingiustizia.

 

NOMINA SUNT CONSEQUENTIA GENERUM

E’ che gli uomini devi farli contenti.
Che ti siano compagni, padri, amici, parenti di ogni sorta… gli uomini devi farli contenti e basta.

LUI conosce sempre tutto, capisce sempre tutto, sa tutto di tutte le cose, in tutti i campi. LUI, se non sa, improvvisa. E’ tuttologo.

E’ raro trovare un uomo che riconosca a una donna qualche merito in qualche campo. Devi essere una campionessa olimpica, o un premio Nobel, allora sì, beh… Anche se poi vai a sapere se nel privato non sia lo stesso. Voglio dire, vai a sapere se, per esempio, Federica Pellegrini non debba tacere davanti a un compagno che ha paura dell’acqua, eppure pontifica anche sul nuoto…

Incontro Laura dopo tanto tempo.
Passeggia insieme a suo marito, sottobraccio, bella coppia da sempre, una di quelle coppie che tu dici “funziona”. Ci fermiamo a chiacchierare vicino a un albero con i rami lunghi e cadenti, che oscillano a ogni ventata. A un certo punto lei, per nulla infastidita dalle fronde, dice ma guarda che bello questo ciliegio!

Il marito subito puntualizza: non è un ciliegio, cara! non vedi che è un giovane albero di noce? In realtà non ricordo esattamente che cosa proponesse come alternativa al ciliegio, ma non è importante. E’ importante il modo in cui la contraddice, con assoluta fermezza.

Laura insegna scienze, è una persona molto preparata, e se dice che quello è un ciliegio, è un ciliegio. Ma il marito insiste: noddavvero, quello non è affatto ciò che Laura dice che sia.

Imbarazzo di Laura?

Nessuno. Mi guarda, fa spallucce e accenna sul viso un’espressione che non dimenticherò mai. Un’espressione che … come faccio a descriverla? un’espressione furbetta, come se facesse l’occhiolino senza farlo… una leggera smorfia della bocca… una strizzatina di palpebre… insomma come a dire: vabbè dai, Luì, facciamolo contento, che ci costa?
Caspita. Bel gesto.
Sono quasi tentata di dargli per nome “Amore”.

Ma è proprio sui nomi delle cose che non ci capiamo, uomini e donne. Sembriamo razze diverse, sembriamo addirittura abitare pianeti diversi, pur calpestando la stessa terra. Dai nomi che i maschi danno alle cose si capisce che il loro mondo è diverso da quello delle femmine. Amore? Sarà amore per LUI.

Tu invece su una questione come quella del ciliegio ti ci impunti. A te sembra un gesto di ipocrisia acconsentire a tutto quello che dice, acconsentire come hai visto fare dalle madri e dalle nonne. Una mancanza di rispetto.
E’ un atteggiamento culturale, non di carattere.

Eppure ti trovi in un mondo in cui tutti hanno finito per dire che discutere per un albero è stupido. Bisogna cedere sulle cose poco importanti, per non mollare poi sulle cose serie. Lasciare le prime, e prendersi furbescamente le seconde.
E, soprattutto, non confonderle.

Perciò, se sai stare al mondo, quando il tuo compagno-marito-parente o quel che sia dirà una stronzata, tu sorridigli, sbattendo le ciglia, senza alcun imbarazzo. Esattamente come fai quando il tuo cane fa la cacca per la strada: la raccogli col sacchetto, la chiudi per benino, sorridi soddisfatta per la funzione fisiologica espletata.
Poi, butti orgogliosamente nel cestino il sacchetto con la cacca.

Davanti a una stronzata, gli devi dire che ha ragione. E lo devi guardare con gli occhi pieni di tenerezza. E’ questo che lui chiama Amore.

Allora sì, che le cose funzionano.

IL MERLO

E’ una delle tante storie del primo periodo, il più duro. Avevamo più forza fisica, è vero, ma eravamo tutti sotto choc.
Questa storia era sempre rimasta dentro di me, non ero mai riuscita a raccontarla.
L’ho liberata nell’imminenza del 6 aprile, ed è stato il mio modo di parteciparlo quest’anno.
Perché più passa il tempo, e più, per dire del presente, mi torna in mente il passato…
Mah!

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Giorni duri, quelli dei cartelli rossi che urlavano C.O.M. 1, C.O.M 2, C.O.M 3.

Agosto. L’Ufficio di Vicepresidenza era un container, il Container n°19. La cabina di comando che collegava la mia scuola al resto del mondo era tutta lì, un filo volante portava la luce, un altro portava la rete.

Arrivo al piazzale della scuola e vedo un camion enorme, snodato, composto da due dinosauri giganteschi. Sta cercando di fare manovra per entrare nel piazzale. Mi avvicino e vedo al posto di guida un autista piuttosto malconcio, scuro, pieno di capelli e di barba. “Deve scaricare”. Così è scritto sulla bolla.
Il camionista è slavo, parla un po’ di Inglese, ma io non capisco e chiamo Anna, che è madrelingua. Discorsi animati, gesticolazioni. Sbrigo altre carte, li guardo dal finestrino del container, alla fine si capisce che è proprio così, deve scaricare per noi. Si tratta di una donazione, sono computer. Computer? Ma è fantastico! Nessuno riesce a capire chi li manda e quanti sono, ma una cosa è certa: sono tanti, tanti, tantissimi scatoloni enormi dentro a quel grandissimo camion, probabilmente non semplici pc, ma intere postazioni. E allora su, diamoci da fare. Il camionista si piazza con i piedi sul cruscotto, mastica una gomma.
Enzo va a telefonare per cercare una ditta di trasporti attrezzata per lo scarico merci. Passa un’ora al telefono, ma niente da fare, pare che tutti i mezzi siano impegnati, la gente sta portando via i mobili dalle case rotte. Il camionista si agita, inizia spazientirsi. Dice qualcosa sbraitando, io chiamo di nuovo Anna per sapere che cosa vuole. “Dice che lui deve ripartire”. “Deve ripartire? Ma stiamo scherzando? Noi dobbiamo scaricare i nostri computer!” “Dice che non è un problema suo, che tra due ore lui riparte, carico o scarico, lui deve tornare in Romania”. “In Romania? Con i nostri computer? Ma siamo matti? Dobbiamo fare qualcosa”. Enzo sembra scoraggiato, provo a fargli animo, a dirgli di cercare altre ditte, io decido di provare con i Vigili del Fuoco. Niente da fare, tutti i mezzi sono occupati, siamo in piena emergenza. Insisto un po’ al telefono con i Vigili, con garbo, vergognandomi in verità, perché forse quei computer non sono quella che si dice “una priorità”, ma io penso ai ragazzi, all’inizio della scuola, alla consolazione di avere quel parco macchine nuovo, a quanto possa essere importante per loro, senza una città, avere una scuola ben attrezzata. E così tento il tutto per tutto, telefonata dopo telefonata.

Mi guardano tutti un po’ scettici, al Container n°19, non capiscono questa ostinazione. Telefonata dopo telefonata, faccio la faccia tosta, voglio parlare con il Comandante, dico, telefonata dopo telefonata, “sta a Roma” mi dicono “riunioni di emergenza”, dicono, telefonata dopo telefonata, passa un’altra ora, telefonata dopo telefonata, il tempo corre e io cerco di correre più di lui. Il camionista sembra essersi calmato. Ha disteso lo schienale, i piedi sempre in alto, poggiati sul cruscotto, forse dorme.

Alla fine riesco a parlare con il Comandante, a Roma. E lui mi ascolta. Non sbuffa, non lo avverto seccato, non lo avverto frettoloso. Anzi, nella sua voce che dice solo “Mi dica, professoressa”, avverto uno spiraglio, un barlume di possibilità. E così vomito nel telefono tutta la mia ansia. “Ingegnere, è assolutamente importante scaricare questi scatoloni, ci aiuti, sarà un anno scolastico duro, questa scuola sarà agibile, potrà essere un punto di riferimento per tutta la città, per tanti studenti, potremo tenere aperto il pomeriggio, potremo tenere impegnati i ragazzi, tenere dei corsi, l’inverno è lungo…”.
Io parlo, lui ascolta. E più lui ascolta, più io parlo. Gli trasmetto tutta la mia disperazione.

Non so dire perché vidi in quei computer la soluzione di tanti problemi, questo non lo so. So solo che sotto quel porticato tutto scorticato io vedevo uno spazio chiuso, un centro polifunzionale coperto per i giovani, con quelle postazioni ben sistemate, il wireless, e tanti ragazzi. E mi sentivo addosso tutta la responsabilità di quello scarico.

Deve averlo sentito, l’Ingegnere Comandante dei Vigili del Fuoco, perché quella voce calma e calda disse: “Quanto sono grandi, questi scatoloni, professoressa?” “Dico “Ognuno più o meno sarà un metro e mezzo per un metro e mezzo, dovrebbero essere delle postazioni attrezzate“. “Mi lasci vedere, la richiamo io”, dice.

Restai in agitazione, non riuscivo a sbrigare altre carte, lo sguardo puntava su quel camion enorme, enorme come la città in macerie, enorme come la speranza che avevo di scaricare tutti quei computer. Circa mezz’ora dopo squilla il telefono. “Professoressa?” dice la voce. “Sì sono io, mi dica Ingegnere, ha buone notizie per noi?” “Guardi, siamo riusciti a conciliare, è possibile interrompere un lavoro per un’ora. Speriamo che sia un tempo sufficiente per voi”. Io pensai disperata che in un’ora ne avremmo scaricato sì e no un terzo. “Badi, adesso le manderò un mezzo adatto. Si chiama ‘merlo’. Vedrà…”. Sentii nella sua voce un tono di soddisfazione ma anche – come dire – paterno. Non lo dimenticherò mai, mai in tutta la mia vita.

Esco dal container n°19 e inizio a chiamare tutti, dal Dirigente, al Segretario, ai bidelli che stazionano sotto un albero per ripararsi dal caldo. Mi sento fuori di me dalla soddisfazione. “Arrivano i Vigili del Fuoco, arrivano i Vigili del Fuoco, ci aiutano loro, ce l’abbiamo fatta”.

Io non so perché per me era vitale questa storia dello scarico dei computer. Le nostre reazioni non erano sempre normali, in quel periodo, e la cosa certa è che io avevo paura di quell’inverno che doveva arrivare, tanta paura. Sembrava che nessuno ci pensasse, all’inverno dei ragazzi, invece io non riuscivo a pensare ad altro. Ed è ancora così.

Intanto il tempo passava e i Vigili del Fuoco non si vedevano. L’attesa, il caldo afoso di quella mattina, s’erano fatte le due, e io iniziavo a cedere allo sconforto. Forse non avevano potuto interrompere quel lavoro, forse non riuscivano più a venire. Il camionista aveva ricominciato ad agitarsi, a sbraitare, Anna cercava di dirgli che il mezzo stava arrivando, lui le diceva che comunque ormai ci sarebbe voluto troppo tempo per liberare il camion.
E finalmente sentimmo il rombo di un motore.

Non ci fu alcun bisogno di chiedersi se fosse lui, perché aveva ragione l’Ingegnere, era proprio inconfondibile, lui, IL MERLO, creatura stupenda, agile, veloce, scattante, col suo becco giallo, e due Vigili sopra che io vidi come eroi su un ippogrifo. Ho amato quel merlo non appena l’ho visto, ma ancora di più l’ho amato non appena ha iniziato a lavorare. Con un’agilità sorprendente il merlo infilava le sue zampe sotto ogni scatola, la sollevava delicatamente e poi la appoggiava a terra. Riusciva a muoversi in spazi angusti con un’agilità sorprendente, scartando tra gli scatoloni, il camion e il porticato. Erano le quattro ormai, erano andati tutti via tranne il Preside, Enzo, Paolo e io. Vidi il Preside togliersi la giacca e iniziare con Enzo a sistemare gli scatoloni appena appoggiati a terra, spingendoli sul pavimento perché trovassero posto senza occupare tutto lo spazio che avevamo preparato nell’atrio agibile della scuola. Il camionista aveva capitolato, e ormai era rassegnato ad aspettare che finissimo.

Aprimmo il primo scatolone messo a terra: il contenuto era strano… le postazioni erano colorate… Provammo a montarne una. Sedioline piccolissime… Erano postazioni per bambini. Dopo i primi momenti di smarrimento, ricontrollata la bolla, l’indirizzo, il destinatario, tutto giusto, era però evidente che la donazione era per una scuola materna: sicuramente avevano dato il nostro indirizzo per motivi logistici. “Va bene, ancora meglio, saranno per i bambini, che hanno ancora meno strumenti dei ragazzi grandi, per trascorrere questo inverno”.
Come previsto dal Comandante, in un’ora lo scarico fu completato, i due Vigili non smisero un solo secondo di lavorare, alternandosi alla guida. Ci salutammo, alla fine, pieni di soddisfazione.
E noi restammo lì. Distrutti di fame, di stanchezza e di fatica.

Quando andarono via tutti, io restai da sola, seduta sullo scalino del portico, e mi misi a piangere.
Vi sembrerà stupido, ma il momento in cui è comparso il merlo resta uno dei più fulgidi della mia vita.
Non lo so perché oggi ho voluto raccontare questa storia.
Forse perché ogni anno è più forte il peso.
O forse perché non è capitato più che piombasse un merlo dal cielo, come un miracolo.
E che io mi sedessi su uno scalino a piangere.



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LA PUGLIETTA


Questa è la cosa più bella che ho scritto per la mia città.
Era il 12 febbraio 2014, dal Progetto CASE di Sant’Elia.

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“La Puglietta” è quella parte della Piazza dove al mattino batte il sole.
A una cert’ora, infatti, Piazza Duomo si fa di due colori: scura la metà che sta dal lato della Villa, chiara e assolata quella che dà sul lato opposto. Ecco, quella lì, proprio quella a solatìo, è la Puglietta. E’ quella parte calda della piazza dove batte il sole, che i nostri vecchi chiamavano “Puglietta” ironizzando sul comune passato pastorale. Quanto in quel nome ci sia la nostra storia transumante, è facile capirlo.

Un bel calduccio c’era, alla Puglietta, come il caldo che sentivano i pastori che portavano d’inverno le greggi al Tavoliere. Gli anziani, proprio come i pastori che dall’Abruzzo scendevano alla Puglia, migravano da un lato all’altro della piazza. Appena il sole usciva a stagliarsi su quei muri, i vecchi lentamente andavano a disporsi lì davanti, usciti non sapevi mai da dove.
Mentre la piazza, al centro, era il regno delle donne e del mercato, la Puglietta era il regno dei maschi, l’androceo dei vecchi, un piccolo senato. E mentre le femmine si davano da fare a commerciare, a contrattare, a sistemare le povere granaglie al centro della piazza, i vecchi, belli e incappottati, quando il sole usciva, spuntavano anche loro, e andavano a stagliarsi contro il muro. Il muro piano piano iniziava a riscaldarsi, e faceva la funzione di un bel termosifone. Così gli anziani gli stavano da presso, faccia alla piazza, e schiena sui palazzi, spalla contro spalla, in lunga fila: sembravano piccioni lungo una grondaia. Ciarlavano, guardavano i passanti, commentavano, cercavano notizie l’un dell’altro. Alla Puglietta i vecchi maschi, a modo loro, spettegolavano del più e del meno.
Secondo un uso medievale e antico, per nominare qualcuno, non usavano il nome, né il cognome. Usavano il paese dei natali, il luogo dell’origine dei padri. Per esempio, invece di “Giovanni”, dicevano “quiju de Marana”. Oppure, invece di dire “Antonio”, dicevano “quiju de Bagno”. Era la frazione a dare identità a quel Giovanni, a quell’Antonio, nomi comuni di persona, che solo dalla terra traevano la giusta identità. E così i campanili, in un modo o nell’altro, se li portavano dovunque, i vecchi, e cercavano per loro il giusto posto, anche sulla piazza, alla Puglietta.

Quando non parlavano de “quiju de Campotosto” o de “quiju de Paganica”, tacevano, i vecchi. Potevano star lì con le spalle incappottate al muro anche tutta la mattina, senza dire niente, contenti dell’appoggio. Poi si faceva ora di pranzo, e piano piano, la migrazione seguiva il flusso opposto, se ne tornavano al loro chissà-dove.
I più colti parlavano di affari, di politica, di sport, di personaggi in vista. Chi era del contado, invece, si accontentava di guardare e commentare quello che capitava intorno. E le dinamiche dei vecchi alla Puglietta erano quelle dei bar, dei circoletti di ricreazione. Ma invece che stare dietro a quattro tavolini, avevano davanti il cuore vivo di tutta la Città.
Rari erano gli anziani che uscivano di sera. Troppo freddo. I più, invece, amavano vedersi di mattina, alla Puglietta. E lì si ricontavano le pecore. Quelle che c’erano, e quelle che già erano partite. I vivi e i morti. E la giornata non era passata, se al mattino non eri stato alla Puglietta.

Ora gli anziani, quelli stessi, non hanno più una Puglia che li scalda. Sparpagliati come sono, hanno pagato il prezzo più pesante della disgregazione. In tanti sono morti sulla costa, in tanti nelle case di riposo, in tanti li vedi, appena il sole esce, migrare dalle CASE ed iniziare a fare il giro, intorno intorno. Ma non ci sono muri che si scaldano, come alla Puglietta, nel Progetto CASE. Il cortile è il regno dei bambini, e i vecchi stanno sempre dietro ai vetri, alla finestra, quasi si scusano di essere presenti, di dare tanta pena, così tanto disturbo. I più in gamba li vedi uscire a mezzogiorno: giornale, spesetta, ritorno. I lottatori non si sono mai arresi, hanno tenuto insieme le famiglie fino all’ultimo respiro. Altri trascinano quei piedi stanchi e vecchi sopra al marciapiedi, fanno un giretto, s’imbucano di nuovo dentro casa.

Mario cammina con fatica. E’ come spento, da quando Maria, due mesi fa, se n’è volata in cielo. I vasi di Maria, dopo due mesi, si sono già seccati, nessuno ha più la forza di curarli.
Una sera mi suonano alla porta. Era Mario, non lo vedevo da prima che Maria se ne volasse via. Mi dice: “Addò abbita Giorgio?”. Io, dopo un breve convenevole di affrante condoglianze, gli chiedo “Giorgio chi?” E lui: “Quiju de Rojo!”. Dice proprio così, “quiju de Roio!” e mi guarda, convinto che io capisca, convinto che io sappia. Convinto che Giorgio io non lo conosca dal cognome, ma dal fatto che è di Roio, la terra, unica certezza per trovarlo ancora.

Allora io sorrido, e poi lo abbraccio forte.
Per un poco, ripenso alla Puglietta.
A come, senza piazza, si torna ai campanili.
A come le giornate vanno in fretta.

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