DOMANI VIENE MICHELE

“Domani mattina viene Michele”.
Non mi ricordo che effetto mi fece questa frase detta al telefono dalla voce emozionata di Giuseppe. Di sicuro mi ha gettato nel panico. “Sì… Michele viene domani mattina, viene a scuola a trovarci”.
Oddio. Che gli dico. Come mi comporto. Non ci so fare, non sono la persona giusta, Giuseppe ha sbagliato…
Cosa gli dico io a Michele Gazich?
Faccio un po’ di prove tecniche di trasmissione tipo: “Buongiorno Maestro, Lei non può immaginare che cosa sia la Sua musica per me” oppure: “Buongiorno Michele, è un onore averLa qui, venga, Le mostro i corridoi e la palestra”.
Eccerto. I corridoi e la palestra.
A Michele Gazich.
“Ma dai – mi dico – in fondo sarà lui a parlare. Gli artisti son così, un po’ matti, un po’ narcisisti. Mi parlerà dell’ultimo disco e andrà tutto bene. Anzi, speriamo che arrivi quando sto facendo lezione, almeno lo presento ai ragazzi. Non mi è mai capitata una cosa del genere. Un cantautore in classe”.
Mi figuro la scena.
Lui e Giuseppe entrano proprio quando sto finendo di leggere il “Cinque maggio”. Non so se avete presente: lettura enfatica dell’ode in climax fino alla pausa teatrale d’obbligo, prima della parola “posò”. In genere pochi secondi prima suona il campanello e mi rovina. Quest’anno invece busseranno alla porta e sarà Michele Gazich. Ok. Può andare.
Mi sfugge il seguito della scena. Che faccio dopo? Mi preparo le fotocopie di qualche suo testo? Mi vedo: distribuisco le fotocopie di “Poeta in gabbia” e poi… “Analisi del testo!”. Sacrosanta rivolta di massa della classe.
Cambio film.
Ascoltiamo un brano di Michele, poi intavoliamo una discussione. Sento la voce di Nanni Moretti dall’ultima fila che grida: “Noooo … il dibattito nooooooooo!!”. Parole sante.
Reset.
Altra scena.
Provo a immaginere i dettagli. Com’è fatto, dove lo faccio sedere, come si svolge la scena.
“Dovresti vederlo” mi ha detto un giorno Giuseppe, ben sapendo che non mi sono mai preoccupata di dargli una faccia. “E’ un personaggio, io l’ho conosciuto a Subiaco che girava da solo per le montagne, col suo cappello in testa”.
Quando Giuseppe ha detto “col suo cappello in testa”, ha fatto un gesto come per alzare la mano in aria, così: “CAPPELLO!” E non un gestuccio piccolo, tipo a schiacciarsi la mano in testa, come a dire la coppola di Lucio Dalla, no no, proprio con la mano per aria, alta, con gli occhi in un piccolo guizzo all’insù. Come a dire il cilindro di Zucchero Fornaciari. Vedo un corvaccio nero col pastrano lungo e gli occhialetti da cieco senza cane, salire le scale della scuola.
Brutto effetto.
“Un cilindro. Lo vedi?” mi dico “Dev’essere un tipo strano, e io coi tipi strani mi impappino come con i bambini, perché sono imprevedibili, ti spiazzano con una battuta che per loro è niente, e invece a me mi stende”.

Che poi i miti non si dovrebbero mai conoscere.
E che cavolo, Michele era un mito per me, come gli salta in mente a Giuseppe di trasformarlo in carne e ossa? se ne stava bello bello nella mia teca mentale, mi parlava con le sue canzoni, da lontano, etereo e incorporeo… Come Orazio, Baudelaire, Oscar Wilde, Pirandello. E chi li conosce? Che è ‘sta cosa che si deve per forza impattare col corpo? Sono aquilana verace, porca miseria. Gli aquilani non si smuovono mai per i miti. Una volta mi trovavo a Roma in un bar e mentre telefonavo a casa vidi passare un politico importante, così mi scappò di gridare con entusiasmo a mio padre, che era all’altro capo del telefono: “Non ci crederai, ma è appena passato Tizio!” E mio padre, laconico, da buon aquilano, rispose: “Salutamelo…”
Oh sanguis meus! C’aveva ragione!
I personaggi sono fatti per stare nelle teche.
E invece, domani Michele viene qui.
Esce dalla teca dove l’ho tenuto per tutto il terremoto.
Ma andrà tutto bene: faremo un giro, io, Giuseppe, lui, il suo pastrano nero e il suo cilindro.
Farò gli onori di casa e tutto andrà come deve andare.

Ci siamo, è il momento, sono abbastanza calma.
Sto per terminare la lezione sul “Cinque maggio” come da copione.
Faccio la pausa teatrale, dico ” posò “. Silenzio.
La classe, muta, assapora il momento catartico.
Subito dopo sento bussare, e schizzo in piedi.
La porta si apre di una spanna appena.
Intravedo Giuseppe, che resta fuori: con lo sguardo fa un gesto come per dire “puoi uscire un attimo?”.
Mi precipito, preoccupata. “Sarà successo qualcosa”.
E invece Michele è lì.
Vicino a Giuseppe.

Il cappello è sotto il braccio.

Il cappello è sotto il braccio.

E’ un cappello normale, ed è sotto il braccio.
Niente cilindro, niente pastrano nero, niente occhialetti da cieco.
Dalle finestre del corridoio, una luce morbida.
Pochi secondi. Capisco tutto.
La Endemol Deformation mi ha fatto aspettare un uomo di spettacolo.
E invece Michele è un Uomo. Come quello di Oriana Fallaci.

Lui è ciò che scrive.

Mi saluta affabile, dolce.
La mano è leggera.
La voce è leggera.
Gli occhi chiedono.

Tutto in lui è partecipazione.
Mi chiede del terremoto, vuole sapere.
Mi chiede del campo di Collemaggio.
Io ero al campo a Collemaggio.
Mi chiede di Santa Maria degli Angeli.
Io abitavo vicino a Santa Maria degli Angeli.
Pensavo che venisse per parlare.
Invece è qui che mi ascolta.
Ho davanti a me una persona gentile.
GENTILE.
Avevo dimenticato che esistono persone GENTILI.

Lui è ciò che scrive.

Resta cinque, dieci minuti, poi dice che non vuole disturbare e se ne va.
Nell’alone di luce delle finestre del corridoio.
Resto lì.
Con l’anima piena.

Io non so perché certe cose succedono.
Non so perché certe persone mandano così tanta energia da sembrare angeli. E non so perché tutto questo sia successo a me.

Ho conosciuto un poeta.
O forse un angelo.
Pensandoci bene, non c’è differenza.

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Michele Gazich e la Nave Dei Folli – Collemaggio