IL TERREMOTO DEGLI ADOLESCENTI E LA LOGICA DEGLI AIUTI

Il Liceo Bafile, quest’anno, è stato aperto tutti i pomeriggi per consentire ai ragazzi di avere un punto di studio e di recupero permanente. Ma i ragazzi, a “Scuolaperta”, non ci sono venuti, le aule erano pressoché deserte. Le aspettative su questo progetto erano tante, tante le risorse impegnate: abbiamo pensato che i ragazzi avrebbero cercato nella scuola un punto di riferimento per creare gruppi di studio e di interesse. E invece niente. “Tu come passi il tempo libero?” è stata la domanda che ho posto più frequentemente durante l’inverno. “Quando è possibile andiamo nelle case di chi ce l’ha. Chi ha una casa vera, senza puntini, invita qualche amico, un po’ per volta, si fa a turno”. E già, il tempo libero è libero. E a scuola non ci vengono proprio perché deve essere libero. Liberamente si associano in piccoli gruppi spontanei. “Ma gli scambi, gli interessi, fare musica, passeggiare, incontrare?” chiedevo preoccupata. “C’è il cinema, ogni tanto. E ci sono i locali sul Viale della Croce Rossa, di sera, in genere il sabato. “D’accordo, questo lo sappiamo, ma come può essere che non vi organizzate, che non vi inventate qualcosa di diverso da proporci, per aiutarvi a realizzarlo?”. “Non siamo abituati” mi ha risposto Giacomo. C’era un tono di dispiaciuto rimprovero, in quel “non siamo abituati”. E mi sono chiesta quanta responsabilità abbiamo noi adulti in questa incapacità. Mi è tornato in mente quel consiglio comunale che avrebbe dovuto deliberare la sistemazione del porticato sotto la nostra scuola per uno spazio polifunzionale, consiglio mai concluso per abbandono dell’aula dei consiglieri e conseguente mancanza del numero legale. E mi viene in mente non per fare polemica spicciola, ma solo perché in quella occasione la reazione dei ragazzi attraversò tre stadi: prima si infuriarono e chiesero spiegazioni; poi ascoltarono le spiegazioni in silenzio; infine mugugnarono feriti e non fecero più nulla. Ragionevoli e composti, come abbiamo sempre chiesto loro di essere. “Non avete provato  a proporre qualcosa attraverso i vostri rappresentanti?” indagavo, per pura curiosità. ”Sì sì, certo, eccome! Abbiamo ottenuto un grande successo!” “Bene, questo mi fa molto piacere! Quale?”. “Il sabato sera verrà chiuso al traffico il Viale della Croce Rossa!”. Resto di sasso. Ma come? All’inizio dell’anno il loro obiettivo era smantellare Viale della Croce Rossa! (prima fase). Poi hanno accettato l’ineluttabile condizione di andarci (seconda fase); infine hanno smesso di chiedere alternative, facendoselo pure piacere! (terza fase). Si sono adattati. Perché l’unica cosa a cui li abbiamo davvero abituati, è ad abituarsi. Ad accettare le situazioni, a colorarle con la loro straordinaria fantasia, fino a farsele piacere. “Flessibilità! Flessibilità! Il mercato del lavoro richiede flessibilità!” Li abbiamo cresciuti a gran voce così, per capire poi, in queste situazioni di emergenza, che non funziona, che non è giusto, che non sempre è giusto adattarsi, se ci si adatta al peggio. Ho capito che nonostante tutti gli sforzi fatti dalla scuola, gli adolescenti aquilani sono pressoché costretti a crearsi delle vie di fuga mentali. La scuola non può essere tutto e non va delegata di tutto: ai ragazzi dobbiamo lasciare il sommerso, quello che si fa “sottobanco”: chiacchierare, passeggiare, e perché no anche un po’ bighellonare. Ecco perché guardano con sospetto l’extracurriculare che a scuola gli mettiamo sul banco, come fanno con quello che a tavola gli mettiamo nel piatto. E non lo mangiano. Fanno meno fatica in questo modo, che a cercare di chiedere parola presso gli adulti, troppo “occupati” per ascoltare questi piccoli cittadini. Gli adulti, gli “occupati” di Seneca. Siate seri ragazzi, c’è stato un terremoto, i grandi hanno da fare. Vai ragazzo, lasciami lavorare. In tanti piccoli si sono chiusi in camera, passano il loro tempo a navigare in un mondo virtuale, incontrando i lupi cattivi e girando dentro i vortici di misere trappole mentali. Un mancato invito a una festa diventa un affronto insuperabile che scatena rancori orribili, perché a quella festa non c’è un’alternativa da contrapporre per consolarsi. E noi abbiamo troppo da fare per capirli. Ci siamo illusi che concedere la “normalità” scolastica bastasse a dar loro un equilibrio. A scuola abbiamo dato un esempio di grande serietà, continuando a lavorare “come se”, e fornendo psicologi di sostegno. Bello, quel “come se”. Come se non ci riguardasse, dico io. Come se inchiodarli al libro fosse una soluzione. Ci siamo girati da un’altra parte per non vedere tanta sofferenza. Anche dopo un terremoto, noi continuiamo a considerare gli adolescenti dai 14 ai 17 anni come dei cretinetti che non si vogliono impegnare e cercano divertimento facile, pub e discoteche. Fastidiosi che sono, a quest’età, vero? Né grandi, né piccoli. Come Alice, ora si sentono giganti, ora nani. Perciò, non avendo loro stessi una reale percezione di sé, non li vediamo “seri” e degni di essere ascoltati. Da una prima, semplice ricognizione dei lavori presentati dai ragazzi per il Progetto “L’Aquila 2019”, ideato e bandito dai docenti del Bafile, (l’unica cosa che la scuola possa fare, come sempre, è “impegnarli” in positivo) è emersa tanta sofferenza, specie nei piccoli di 14-15 anni. Tanta nostalgia e anche tanta voglia di fare. I lavori, per ora solo raccolti e numerati per la imminente consegna alla giuria, presentano un’immagine del passato della città prepotentemente superiore all’immagine del futuro. Perché questi adolescenti la città l’hanno vissuta, se la ricordano bene. Tra le righe si legge solo un doloroso vorrei che non fosse mai successo. Troppo grande per loro. Non riescono a gestirlo. Nei progetti architettonici, invece, tante proposte costruttive: vogliono spazi di cultura, spazi per leggere, guardare DVD, discutere, trovare angoli di ristorazione con cucina straniera, ricostruire una piazza, un passeggio… Un passeggio. Che ne sarà di questi loro bisogni? Accadrà che “caleremo sopra” ai ragazzi le nostre scelte adulte e serie? Mi viene in mente la storia di certi interventi umanitari in Africa: gli evoluti paesi ricchi videro che in un villaggio africano le donne dovevano percorrere 10 km di strada, alla sera, per andare a prendere l’acqua in un pozzo. Gli aiuti misero su una task force e in breve costruirono un avveniristico e costosissimo acquedotto. Ma le donne continuarono, alla sera, a prendere le giare, a mettersele sulla testa e farsi i loro 10 km a piedi per prendere l’acqua dal pozzo. Furono mandati degli antropologi, per cercare di capire il perché. E si scoprì che quei dieci chilometri, per le donne del villaggio, costituivano l’unico momento di riposo, di chiacchiera, di passeggio. E’ quello che faremo? Costruiremo anche noi acquedotti inutili per i nostri ragazzi, dove loro si rifiuteranno di andare? Apriremo le scuole tutto il giorno per vederle poi deserte? Li abitueremo ad abituarsi? Suggerisco da sola i commenti, li so già. “Eh, questi ragazzi, vogliono sempre la pappa pronta! Non è vero niente, per loro abbiamo fatto questo e quello, gli abbiamo dato questo e quello…” Certo, anche noi li abbiamo scarrozzati e impegnati. Ma è sufficiente? E poi, la madre di tutte le repliche: “Che educatori sono quelli che incoraggiano al passeggio invece che a studiare!”. E io allora dico che noi adulti, il nostro passeggio, a quell’età, lo abbiamo avuto. I portici, la colonna, lo “struscio”, la piazza, li abbiamo avuti. Siamo onesti, avete già dimenticato? la giornata non era passata, se prima non s’era fatto “un giro”. E conoscevi le persone per caso, non perché ci andavi a sbattere col carrello della spesa. Le incontravi e basta. Ora
che cosa succederà? Gli costruiremo nuovi posti per spendere meglio la loro paghetta? Costruiremo per loro tanti begli acquedotti costosi? Non so che cosa augurarmi: che si adattino a girare il rubinetto che gli metteremo davanti, o che trovino un modo per andare a prendere l’acqua dove gli pare. A piedi.

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