CRONACHE FINALI

Si tratta del racconto degli ultimi giorni nella tendopoli di Collemaggio, prossima alla chiusura. Chi scrive racconta le fasi finali dell’assistenza della Protezione Civile,
e l’assegnazione di un alloggio nel Progetto C.A.S.E. Il racconto fu pubblicato dalla rivista “Leggendaria” nel numero 81, un numero interamente dedicato alle “Terre mutate”. Il numero del giornale fu presentato a Roma il 18 giugno 2010. I fatti raccontati, se pure enfatizzati dalle tecniche narrative, sono TUTTI REALMENTE ACCADUTI.

13 novembre 2009 – Sono rimasta sola, la tendopoli è quasi vuota. Ci chiamano “gli irriducibili”, quelli che non se ne vogliono andare, come se fosse una scelta politica, e invece non c’è nessuna scelta da poter fare ora, almeno per me, ho sbagliato tutto in questa storia… Mi vergogno di essere stata così ingenua e sprovveduta da ritrovarmi a novembre ancora sotto la tenda. E non riesco a crederci.. Mi vergogno di parlarne con gli altri, tutti più o meno sistemati meglio, COMUNQUE MEGLIO di me, mi sembra di leggere nei loro pensieri “poverina, ma come fa a stare ancora in tenda? sono rimasti lei e gli slavi ormai, ma come si fa?”. L’importante è che la mia famiglia stia bene, lontano da qui, fa solo tanto freddo. Soprattutto di notte si gela, e sinceramente ho paura di dormire qui da sola. Prima di infilarmi nel letto preparo una specie di trappola: appoggio una rete inutilizzata di un letto contro l’apertura della tenda.. La tenda non ha porta, non si chiude a chiave, e io ho paura, ho paura di tutto qui, una paura indotta più che reale, se ascolto me stessa mi dico che posso stare tranquilla, che va tutto bene, che non può succedere niente e che – soprattutto – finché sono in tenda, il “mostro” non mi può ingoiare. La sera ho sete ma non bevo, non bevo neanche durante la cena per non andare in bagno di notte, il container dei bagni di notte sembra irraggiungibile, una traversata impossibile…
14 novembre 2009 I cani qui fuori fanno da padroni, sembra di stare un film. Stanotte abbaiavano e ringhiavano abbaiavano e ringhiavano, si mordevano abbaiavano ringhiavano finché qualcuno (chissà chi) è uscito fuori, ha urlato qualcosa come BASTA FATELA FINITA e ha sparato un colpo di pistola in aria. Silenzio. Un silenzio di tomba e forse era meglio prima l’abbaiare e il ringhiare. Tra freddo e cani mi viene in mente Zanna Bianca e sorrido, è incredibile come facciano compagnia certi ricordi, nascono da soli, affiorano come bolle di sapone.. Dentro una di queste bolle, vedo la ragazza che mi aiutava nei lavori domestici, il giorno in cui mi ha lasciato il bigliettosul tavolo con su scritto: “Non pulisco in giardino perché il cane BAIA”. Sorrido ancora. Che bello.
Dio quanto, ma quanto era bello e non lo sapevo … Qui il gelo ti entra dentro, le lenzuola sono quasi bagnate, ho foderato tutto di coperte, a terra in alto, mi sono fatta una specie di iglù e non posso più pulire la plastica a terra con tutte queste coperte, ma non mi importa, devo proteggere la mia schiena. Rimpiango Maria di Mestre che per il mio mal di schiena veniva a farmi il Toradol, Dio la benedica, Maria di Mestre, non so come avrei fatto senza di lei. Qui a Collemaggio i volontari della C.R.I. li chiamiamo con la città di provenienza: “Piero di Pavia”, “Barbara di Firenze”, Maria di Mestre”. Ora ci sono Franca e Laura. E Riccardo, 19 anni, fidanzato con una ragazza dell’Aquila salvata dalle macerie. Quante storie d’amore sono nate tra volontari e terremotati… Ma chi se le ricorda più, ormai non c’è più nessuno, ci sono solo io, i cani di Mimmo e qualche straniero, porca miseria. Ma come ho fatto ad arrivare a questo? E com’è possibile? Stranieri, affittuari, avventizi, QUI CON ME, con me, proprietaria storica di appartamento al centro storico? INSIEME? IO E LORO? Vedrai che mi daranno la casetta vicino a questi… Anzi, la daranno prima a loro, perché loro hanno un sacco di figli, ecco come andrà. Chi devo maledire? Chi? CHI? Non ce la faccio più. Io mollo tutto, me ne vado, mi trasferisco.
15 novembre 2009. Mi chiama Piero della Protezione Civile. Dice che ha buone notizie.
“Finalmente!!!” (è incredibile, ma sono ancora capace di provare emozione e riconoscenza).
“Ho trovato una stanza per te in albergo, all’Aquila”
“Caspita!!! – dico io- che notizia meravigliosa! Continua dai!”
“L’Hotel è il migliore della città”
“ACCIPICCHIA! – esclamo incredula – non so come ringraziarti Piero!”
“Però c’è un però”
“Ah. E lo sapevo io. Ok, pago il soggiorno, va bene lo stesso, basta che ci sia una stanza in città.”
“No.. Il fatto è che… Insomma… La stanza è condivisa.”
“…”
“….”
“Pronto? Ci sei ancora?”
“Condivisa?… Condivisa con chi?”
“Una signora rumena”
“…”
“Una signora rumena?”
“Sì… Brava persona, puoi stare tranquilla”
“Ah. … (…) Grazie Piero… Ok. … Lasciamici pensare un attimo ok?”

Rumena… Ma siamo matti? Ma per chi mi hanno preso? In stanza con una rumena.
Giuda ballerino, è un incubo. Voglio svegliarmi.
16 novembre 2009. Lascio la tenda. Ho deciso di accettare la stanza condivisa con la rumena. Sono pazza lo so, ma non ho scelta. Fa troppo freddo e la schiena mi dà il tormento, devo pensare alla mia salute, devo stare bene, BENE CAVOLO, ho un figlio a cui pensare, DEVO ACCETTARE.
E’ incredibile, ma ho paura a lasciare la tenda, più paura che a restare, e sono proprio due belle paure. Nulla mi è stato risparmiato, ma io voglio stare qui VOGLIO STARE QUI NELLA MIA CITTA’ NELLA MIA SCUOLA CON LA MIA VITA. Accetto. Accetto anche se sono arrabbiata, molto arrabbiata. Una rumena? Che vuol dire una rumena? Una rumena nel migliore albergo della città? E chi è? Che lavoro fa? Con chi mi mandano a dividere il sonno (e il bagno?). Sono furiosa. Mi sembra un incubo, ma non ho scelta, ormai ho la filosofia del “poi vediamo”, e Piero mi ha promesso che è solo per qualche giorno, solo fino a venerdì – mi ha detto – perché ogni venerdì consegnano le casette e io avrò la mia casetta, parva sed apta mihi, la mia bella casetta per dare a mio figlio equilibrio e sicurezza, a me un po’ di tepore. Solo qualche giorno, coraggio. CORAGGIO. Posso farcela.. (ma una rumena… porc… )
Vado.
17 novembre 2009 – Mi stendo sul letto dell’hotel. Ce ne sono tre, di letti, in camera, magari ci infilano una terza, magari un’altra straniera. Magari una cubana. …. (Ma porca miseria… …)

Fa un bel caldo, tutto è pulito, c’è silenzio, e giù in sala pranzo ho intravisto bei tavoli, belle
tovaglie, belle stoviglie… bicchieri che luccicano, bicchieri a calice, come nella mia casa, come i miei cristalli… Tre mesi di nomadismo, quattro di tendopoli e ora questo….
Sono stesa sul letto e aspetto. Cosa aspetto? La rumena, ovvio. Rum… Rom… Dio non sarà una zingara spero… Ora ci penso io. Chiariamo subito le cose, che deve stare al posto suo. Mi guardo intorno, non c’è traccia di lei, ho guardato l’armadio e i cassetti e lei tiene tutto ben raccolto negli angoli, bene, l’ha capita, è bene intenderci subito, pochi giorni sì, ma che sia chiaro che comunque deve stare al posto suo, la rumena. Bene, ho visto che tiene le scarpe fuori sul terrazzino, bene, l’ha capita, la rumena, meglio che stia da parte ok? Mi esce il fumo dalle orecchie.. Sono qui, avanti, vieni, che aspetti? Dove sei? Che lavoro fai? Che ci fai qui all’Aquila? Come ti hanno dato quest’albergo? Come mai alloggi qui da settembre mentre io ero in tenda? COME MAI??? Sono proprio furibonda e lei non arriva.
Torno da cena, mi aspetto di trovarla in camera ma non c’è. Ah, cena fuori la signora, chissà dove, chissà con chi. La mia immaginazione corre e alimenta leggende metropolitane sulle rumene…
….
LA CHIAVE GIRA NELLA TOPPA.
E’ LEI.
Aspetto, sono pronta.
Non entra.
Sento bussare.
“Avanti!” dico spazientita.
Una giovane donna, alta, capelli lunghi, castani, aria tesa e preoccupata.
“Piacere, Luisa”.. “Piacere, Maria”
Resto zitta. Ha più paura di me. Meglio, così sta al posto suo. Tace. Neanche una parola. Bene, non mi piacciono le chiacchiere.
Qualche scambio di battute tecniche sulla gestione degli spazi, poi nulla.
“Posso spegnere la luce?” chiede.
“A che ora ti alzi?”
“Alle sette”.
“Bene, anche io. Vai prima tu in bagno, poi andrò io. Buonanotte.”
E fine del discorso.

18 novembre 2009 Sette del mattino. Dormito poco e niente, ma lei peggio di me, rotolava nel letto come una boccia da bowling. Ora è lì che parla al telefono, in rumeno, poche parole, scarne, una lingua dura che evoca antichi film in bianco e nero della Russia stalinista o che ne so, il perfido Rasputin. Letteratura. Succede anche quando sento parlare in tedesco, ma non mi era mai capitato di doverci poi dormire a fianco. Suggestioni, libri letti, storia, immaginario collettivo. Transilvania…Il conte Dracula. Erano meglio i cani di Mimmo. Chiedo: “Mangi in albergo a pranzo?” “No. Qui mi sento a disagio. Troppo lusso per me. Mi fanno dei panini, e li mangio dove capita”.
Qualche altro particolare, parla benissimo l’Italiano.
“In Romania non sarebbe mai accaduto tutto questo” mi dice mentre si alza.
“Tutto questo… cosa?…” sono pronta ad azzannarla, immaginando che sia una critica alla gestione dell’emergenza.
“Questo che è accaduto a me, che gli stranieri fossero trattati alla pari. L’Italia è un paese di grande civiltà”.

Fa la doccia, si veste, esce.

A colazione mi sento gli occhi addosso, in sala pranzo. Li sento, che mi guardano e pensano “ma come fa quella a dormire con una rumena?”. So leggere negli occhi e nei pensieri. Mi sento in imbarazzo, sono seccata. Qualcuno attacca bottone “Buongiorno signora, come va? … Da dove viene? Dalla costa?” Non mi va di dire che vengo dalla tenda. Quando ero sulla costa, all’inizio, la gente del posto si tappava il naso quando passavano gli aquilani. “Puzza di tenda” dicevano, una puzza che ti resta attaccata addosso per un sacco di tempo. Così bofonchio qualcosa e me ne vado, rispondendo un generico: “Vengo dall’Aquila”. Che sciocchi. Come se non fossimo tutti nella stessa barca.
Lei torna alle dieci di sera, più o meno. Stanca morta, si butta sul letto. “Ti senti bene?” butto lì. “Mi fanno male le ossa – dice – oggi ho lavorato tanto” “E dove lavori, se non sono indiscreta?” “Vado a servizio, cerco di lavorare più che posso, ho bisogno di soldi”. Le guardo le mani, rosse, screpolate. E all’improvviso Rasputin e Dracula se ne vanno al diavolo. E al loro posto resta una donna come me, che lotta come una tigre per avere un futuro migliore.
20 novembre 2009 Oggi avrebbero dovuto consegnarmi la casetta, ma ancora niente. Mi hanno chiamato, scala tutto di una settimana. In fondo non mi dispiace, qui si sta da dio. E alla sera Maria mi racconta la sua vita, a poco a poco. E’ molto riservata. In questi cinque giorni di condivisione abbiamo entrambe aggiunto parecchie tessere al nostro reciproco mosaico. Non è niente male. A parlare con uno straniero non ti senti mai invaso, né inchiodato. Me ne ero dimenticata. Ai tempi dell’università succedeva spesso, perché a Perugia c’è il passaggio obbligato degli stranieri, avevo vent’anni. Non c’erano slavi, però: soprattutto arabi e greci, e gli arabi dicevano tutti di chiamarsi Alì. Di quei brevi frammenti di dialoghi mi restano le stesse sensazioni che ho con Maria: un parlare con garbo, con gentilezza, senza che ogni cosa detta sia una sfida per dimostrare all’altro qualcosa di sé. Succede a vent’anni, e poi mai più: poi lo straniero diventa un concetto ostile, qualcosa che ti minaccia nelle tue sicurezze, a meno che… a meno che in mezzo non ci sia un terremoto che ti sbalza indietro di trent’anni, ai tuoi vent’anni.
Maria ha due figli all’università, un ex marito alcolista, un sogno di riscatto. I racconti più belli sono quelli della sua infanzia in campagna nei pressi di Costanza, con gli animali da fattoria. Mi racconta di Ceaocescu, di quello che è successo dopo la caduta. Maria sa discorrere di politica, legge il giornale ogni giorno, è molto più informata di me, che dal 6 aprile sopravvivo e basta, non leggo più e non guardo più la televisione.
Ieri sera, prima di spegnere la luce, mi ha chiesto: “Tu credi in Dio?” Così, a bruciapelo. “Noi siamo ortodossi” ha detto in tre parole, con una sintesi tutta pratica. “Le differenze con il cattolicesimo sono poche”. L’ho ascoltata parlare, mi mostra una catenina con un’immagine sacra e la mia testa vola, e mi sembra la scena di Orlando che disteso a terra col nemico pagano discorre di dio, della famiglia, dei figli…. Accidenti, maledetta letteratura, ti filtra tutto.
21 novembre 2009 Ho convinto Maria a scendere giù a fare colazione con me. Non voleva, ha fatto un sacco di storie, dice che non sta bene che io mi accompagni con lei. Per tutto il tempo ha guardato a terra o al massimo nella sua tazza con yogurt e miele. Ma si vedeva che era orgogliosa di stare a tavola con me. Voglio raccontare un po’ di lei a qualcuno oggi, mi va di dirlo a qualche amico… Lo so, lo so che mi diranno quello che già ho sentito qui dentro “non ti fidare, i rumeni dicono un sacco di bugie, hanno questa prerogativa: all’improvviso scompaiono, non li vedi più, e scopri che ti hanno detto un sacco di stupidaggini”. E’ un ritornello, me lo dicono tutti. Ma io non ci credo. Voglio fidarmi, voglio seguire il mio istinto. Scelgo io con chi stare. E scelgo lei.
Mentre finiamo la colazione le chiedo: “Ma perché resti qui, che tutto è distrutto? Perché non te ne vai? Affitto per affitto, perché non cambi città?” E scopro che è qui da dieci anni, che ha scelto questa città come sua città, che tra poco arriverà sua figlia, sta solo aspettando i documenti di equipollenza per la laurea. Quando parla di lei le brillano gli occhi. Studiare per Maria è molto importante, tiene molto all’istruzione dei suoi figli.
27 novembre 2009 E’ arrivato il momento, ho in mano le chiavi della casetta, devo andare. Due settimane sono passate, e di Maria so tante cose. “Ti telefono domani”.
Lascio sul comodino la crema per le mani, le sue mani rosse e screpolate.
Ci abbracciamo come due vecchie amiche, ma con una malinconia tutta nuova.
Una breve parentesi, non sappiamo cosa accadrà domani.
Maria ora ha le mie chiavi di casa. E ha anche quelle della mia amica Stefania e quelle della mia amica Cristina. E fa il suo lavoro in case dove la rispettano e le vogliono bene, qui, nella nostra città che rinasce.

La mia casetta è calda calda, sto rinfrancando il gelo della tendopoli. Ogni sera mi chiedo se Maria prende ancora l’ Okipirina, se ha ancora il mal d’ossa.
Il terremoto in pochi mesi mi ha disegnato sul volto dieci anni.
Ma dentro sono molto più giovane di prima.

 

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