LA CITTA’ DEI RAGAZZI

13 febbraio 2017.
Un ragazzo muore suicida gettandosi dal balcone di casa.
Intanto altri ragazzi sfasciano aule universitarie.

E’ cosa brutta, sognare una città dei ragazzi? E’ brutto sognare luoghi sicuri in cui una comunità educante si dedichi alla crescita e alla formazione reciproca in un clima di serenità e fiducia? E’ cosa brutta sognare un modo di fare scuola diverso, specie in zone problematiche, vuoi per problemi geografici, vuoi per emergenze sociali? E’ cosa brutta invocare attenzione, e protezione, per una comunità di apprendimento in cui si apprende… la vita? E’ cosa brutta creare luoghi di aggregazione e confronto, aprire, dialogare, partecipare alla propria autodeterminazione? Creare affezione e appartenenza, invece che desiderio di andarsene? Se è cosa brutta, continuiamo così, facciamoci del male.

Il modo in cui una società considera i ragazzi denota il grado di civiltà della comunità che la abita. L’adolescenza, nel nostro mondo, è davvero un’età critica.

Ai bambini in tenera età, com’è giusto, bisogna concedere tanto, perché non sono autonomi. I ragazzi invece devono imparare la loro autonomia, e non è una condizione facile, né da vivere, né da gestire. La metafora di Alice, che trova il fungo che la rende ora un gigante, ora minuscola, è espressione di questo status e del modo in cui i ragazzi lo vivono.

Gli adolescenti non sempre sanno rapportarsi con gli adulti, parlano in modo strampalato, a volte sono arroganti. Amano, generalmente, mantenere le distanze e non apprezzano chi cerca di tirarseli da una parte o dall’altra, o chi si prende troppa confidenza.

Gli adolescenti non sanno trovare la giusta misura quando si esprimono: o gridano, o stanno chiusi in un silenzio imperscrutabile.

Bisogna cercare di stare lì con la buona volontà ad ascoltarli, e tirar fuori le parole giuste. Il loro cervello, nel momento in cui esprime un concetto, non sempre è dotato di quel ventaglio di possibilità che consente di individuare l’espressione esatta. Chiusi ancora in un mondo magico, per loro ciò che stanno pensando è anche ciò che esce dalla loro bocca quando parlano. Non sanno che “la materia è sorda”, e quando non riescono a esprimersi si considerano incompresi, e chiudono. Quando chiudono, di loro arriviamo a dire che non hanno idee. Pensiamo che non sono in grado di avere un proprio pensiero, e in questo modo non permettiamo loro neanche di avercelo.

L’adolescente lo bacchetti quando grida troppo, perché è arrogante, e lo bacchetti se grida troppo poco, perché non ha carattere.

L’adolescente è un sempre attaccato allo smartphone, è social-dipendente, è malato di branco, fantoccio che si atteggia a fare il troppo buono o il troppo cattivo. E’ l’emblema del sano menefreghismo italiano che gli stranieri attribuiscono allo Stato intero. E’ quello che dice andiamo a comandare seduto su un trattore.

L’adolescente che grida è una testa calda, un rompiscatole. Quello che sta zitto è uno smidollato.

L’adolescente è bravo solo quando è un perfetto replicante. Tutti gli dicono che ormai è grande, ma lui si stacca malvolentieri da pane e nutella e da babbo natale. Abbandonato così, per metà a se stesso, per metà al resto del mondo, lui si cerca. E se si cerca troppo, pratica gesti di ribellione, come assunzione della propria individualità. Se si cerca poco, gli diciamo che in questo modo è passivo, e che non morde la vita.

Noi adulti cerchiamo di capire, sempre diffidenti di questi pericolosi vulcani che ci vivono accanto. Però li accompagniamo ancora fin sotto la scuola, proprio davanti al portone, fermandoci in mezzo alle rototatorie, creando lunghe code di macchine pur di agevolargli l’ingresso: cento metri a piedi sono troppi, per un ragazzo a cui stiamo chiedendo di imparare a gestirsi da solo. Intanto, ci lamentiamo del traffico.

Loro ci guardano, e stanno zitti. Noi parliamo, e poi facciamo il contrario di quello che diciamo. Chiediamo, ma poi non diamo. E quando loro trovano dei piccoli rifugi a questo corto circuito, nessuno di questi rifugi ci piace. I loro rifugi devono essere i nostri. Abbiamo tolto tutti i riti di iniziazione che in ogni società sanciscono il passaggio da un’età all’altra, tutti gli esami, tutte le cose serie, spianando quello che non andava spianato, e creando ostacoli dove non andavano messi.

Agli adolescenti va permesso di esprimersi come sanno fare: poi sta a noi capire e spiegare. Insegnare il giusto codice. E a chi compete la comprensione di una lingua diversa dalla nostra? Il mediatore culturale tra l’adolescente e la società è spesso l’insegnante.

Parlare quando è momento di parlare, e soprattutto trovare le parole per dirlo, e i modi e i luoghi in cui dirlo. Cittadinanza e costituzione è pratica di vita, dentro un’aula che è microcosmo del macrocosmo sociale: il rispetto degli orari, la lotta al bullismo, evitare di mangiare prima della ricreazione, togliersi il cappello quando si sta in classe, non masticare la gomma mentre si parla, non parlare con le mani in tasca, chiedere di aggiustare una tapparella rotta con i modi e i luoghi a ciò deputati, senza sfasciare anche l’altra tapparella, per ottenerlo. Il rispetto della cosa pubblica, che è cosa di tutti, il desiderio di preservarla per lasciarla migliore di come l’abbiamo trovata.

E chi è il mediatore culturale di tutto questo? Qual è il ponte tra la società, la famiglia, e il ragazzo che cresce? La scuola. Ma se il lavoro dell’insegnante viene declassato a quello di esercitatore e di preparatore atletico per una corsa a ostacoli, spacciando la “professionalità” per un cumulo di saperi da dimostrare attraverso le certificazioni, abbiamo perso.

La stessa diffidenza che una società riserva agli adolescenti, insomma, è riservata agli insegnanti. Che non sono e non devono essere dei livellatori, dei misuratori, ma soprattutto degli educatori, in senso etimologico: e-ducere, tirare fuori.

Ovunque ci si lamenta della mancanza di una nuova classe dirigente. Ci si lamenta di essere visti da tutti gli stranieri come un popolo di geni-mammoni, che spesso e volentieri diventano utili idioti. O che, davanti a tutto questo, decidono di andarsene via, in società uguali o magari peggiori della nostra, ma che loro si illuderanno di sentire come “altra” rispetto a quella che non li ha visti.

Una società che non si cura degli adolescenti, è peggio di quella che si cura di loro dandogli il Prozac.

Almeno il Prozac puoi smettere di prenderlo, e riprenderti il carattere. Ma quando il cervello te l’hanno spappolato, annacquato, quando te l’hanno relegato alla mancanza di senso critico, che cosa si può più fare? Quando ti hanno insegnato che ogni tuo pensiero è inutile, e che esprimersi è inutile, che chiedere aiuto, o giustizia, o solidarietà è inutile, perché tanto le cose si sa come vanno, allora tutto sarà inutile.

Vale per tutte le tragedie che potevano essere evitate.
Vale per tutti i genitori che nella scuola più non credono, e che nel loro isolamento finiscono a sparare alle mosche con il bazuka.
E vale anche per noi.

Noi.
E’ cosa brutta, sognare una città dei ragazzi? E’ brutto sognare luoghi sicuri in cui una comunità educante si dedichi alla crescita e alla formazione reciproca in un clima di serenità e fiducia? E’ cosa brutta sognare un modo di fare scuola diverso, specie in zone problematiche, vuoi per problemi geografici, vuoi per emergenze sociali? E’ cosa brutta invocare attenzione, e protezione, per una comunità di apprendimento in cui si apprende… la vita? E’ cosa brutta creare luoghi di aggregazione e confronto, aprire, dialogare, partecipare alla propria autodeterminazione? Creare affezione e appartenenza, invece che desiderio di andarsene? Se è cosa brutta, continuiamo così, facciamoci del male.

Quelli di loro che diventeranno grandi, ma grandi davvero, saranno quei pochissimi a cui la famiglia e la scuola congiuntamente avranno detto: “stai tranquillo, tu te ne andrai, da questa città, da questo Paese. Tu non parti da dove partono gli altri, per te non sarà cosi“.

Già. Per te.

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