IL SABATO POMERIGGIO

Noi aquilani il centro storico ce lo godiamo a turni.
Per selezione spontanea e naturale, lo  popoliamo a giorni, a zone, a fasce, per età, per interessi.
E il sabato pomeriggio è il turno bello, quando ci sono tutti i ragazzini.

Da tanti anni faccio l’insegnante, eppure i ragazzini continuano a darmi l’allegria che non riscontro da nessun’altra parte. Parlo di quelli che prendo al primo anno, i piccoli, quelli che stanno nel periodo strano: voce cangiante, braccia lunghe, postura un po’ dinoccolata e un po’ scomposta. Sono allegri, proprio tanto belli, dei piccoli vulcani attivi.

Se ci cammini in mezzo per la strada, proprio come a scuola, devi stare in guardia. Non sai mai che cosa possa capitare: se ti faranno le boccacce, se vedrai volare qualche carta, un pallone, uno zaino preso per scherzare e poi lanciato in aria, che ti finisce in testa.

I ragazzini sono per i “grandi” una località intermedia, un punto di passaggio. Quasi sempre, guardandoli, vediamo in loro i bambini che non sono più, o i ragazzi che non sono ancora. E cerchiamo di guidarli come le piantine, in questa evoluzione.
Ma il sabato pomeriggio non li puoi raggiungere: il sabato è una boccata d’aria fresca.

Perciò, con tutti i dovuti accorgimenti, al fine settimana io percorro la piazza, i portici e San Bernardino. E il re di questa passeggiata è il mio canuccio anziano: i ragazzini lo chiamano, lo abbracciano, lo accarezzano. Ci sanno fare con i cani, più che coi cristiani. Teo fa tenerezza, con quella faccia bianca. Fa uscire da quei corpi in mutazione l’anima bella che è nascosta al resto.

A  me tutto questo fa allegria. Vederli popolare i portici è una manna, perché loro non sanno quel che c’era prima, per loro è tutto nuovo e bello. Loro abitano case future, come dice il poeta. Non vedono macerie. Non dicono “qua c’era questo, qua c’era quello”, come facciamo noi. Ci sarà tempo, via, per cercare le radici, e gliele insegneremo piano piano. Ma per ora ad insegnarci sono loro: occhi nuovi, parole nuove con cui ribattezzare i posti. Sono specialisti delle parole nuove, loro.

Giorni fa ho interrogato Francesco sui Promessi Sposi. Gli ho detto: “Descrivimi diffusamente Don Abbondio”. Tranquillo e serio, ha esordito in questo modo: “Don Abbondio, secondo me, era un sottone”. Ho riso così tanto, ma così tanto, che alla fine gli ho messo un voto in più.

Meritato. Perché sottone è una parola nuova, che i ragazzini conoscono e capiscono, e io no. Me l’ha spiegata lui, e poi la sera l’ho cercata su Slangopedia. Don Abbondio sottone avrebbe fatto ridere Manzoni, che l’avrebbe interpretato come un modo singolare per far vivere ancora il suo romanzo, per dargli linfa nuova. Ci sarà tempo per spiegare, ma adesso l’etichetta fa allegria.

Il dispiacere puoi trovarlo ovunque: come l’ipocrisia, o la bellezza stupida, la serietà fasulla di chi  non sbaglia mai. Il dispiacere è come la bruttezza, lo trovi ovunque vai.
La gioia, invece, devi andartela a cercare, devi voler scavare.

Spesso risiede nelle cose di passaggio: una città che nuovamente nasce, l’età di un ragazzino che cresce e si colora. Magia di tutto ciò che non è più, e non è ancora.

 

AMICHE GENIALI

Le mie amiche conoscono il valore del denaro e della fatica che si fa per guadagnarselo, perciò comprano vestiti solo se serve, e quando serve.

Mi raccontano ora dei saldi di fine stagione nei negozi griffati, normalmente inavvicinabili. Lo chiamano momento di sciapo, bella definizione per viversi questo strano rito collettivo in maniera consapevole. Ma non trovano quasi mai quello che si aspettavano, quindi alla fine comprano poco o niente in queste svendite.

Le esperienze dei saldi di fine stagione possono ridursi, effettivamente, a due tipologie: autolesionistiche e con gratificazione a soglia.

Nelle autolesionistiche tutto ti sta male: vai in cabina, ti provi l’abito, e quasi sempre avanzano cinque centimetri sia alle mani che ai piedi.  Le commesse ti intimano di uscire dalla cabina, e tu da dentro, con la voce di Clint Eastwood rispondi: vieni a prendermi!

La questione del fuori misura è seria. Questi grandi stilisti fanno i vestiti per gli alieni. Ma gli alieni non quelli buoni, tipo E.T., no, gli alieni quelli altissimi, bianchissimi e magrissimi, senza capelli e con due buchi neri inclinati al posto degli occhi. Per indossare una giacca non ci vogliono le spalle, devi essere una stampella. I pantaloni sono concepiti in modo da reggersi sulle ossa dei fianchi, che tu non hai visto sporgere neanche dopo che hai fatto l’operazione alle tonsille. Dovremmo pensare, dunque, che le persone che comprano le firme siano tutte altissime, bianchissime e magrissime, ma di fatto poi non è così, è un trucco: quando aprono bocca li senti dire: “Teleeeefono… caaaasa”. Ma il vestito copre la realtà.

C’è una buona consolazione a tutto questo: gli alieni devono pur spogliarsi, prima o poi. E non dev’essere bello vivere col terrore di doverlo fare.

Veniamo alle gratificazioni a soglia: significa che l’abito ti sta benissimo finché non varchi la soglia della boutique. Subito dopo ti sta da schifo. Si evince, da tutti i racconti delle mie amiche, che lo shopping seasonal sales è come l’amore: cieco. Saranno le luci, sarà lo scintillio dell’arredo, sarà l’effetto Pretty Woman, fatto sta che ti guardi in negozio, e ti sta bene tutto. Sei pure alta e bionda. Poi però esci.

Evviva la mia amica geniale, che se ne infischia delle mode, e compra gli abiti solo quando le servono! Una volta, per esempio, aveva un bell’abito da cerimonia, di buona fattura, costoso e di alta qualità. E – come dice la parola – lo usava per le occasioni speciali. Alla fine di una cerimonia in cui lo aveva indossato con garbo ed eleganza, un’altra amica, però un’amica perfida (insieme alle amiche geniali ci sono sempre anche quelle perfide) andò di proposito a salutarla:

– Ciaaaao caaaara…. Come staaaaai….

– Ah, ciao! quanto tempo che non ci vediamo…

– Sì, non ci vediamo dal matrimonio di Giorgio, tre anni fa!

La perfida pronuncia la frase in maniera infingarda,  lanciando uno sguardo da capo a piedi al vestito di lei, che è lo stesso della cerimonia di tre anni prima.

Senza scomporsi, la mia amica geniale le fa: “Io posso sempre comprarmi un vestito nuovo. Ma tu una testa nuova dove te la vai a comprare?

E dove se la va a comprare? Certi articoli che costano davvero tanto, in termini di fatica. E non vanno neanche in saldo…

 

 

QUANDO VOLAVANO I PIATTI

Sulla fiera della Befana è stato già scritto tutto. Perciò condividerò con voi qualcosa di molto personale. Lo ammetto senza remore: io subisco il potere fascinatorio degli imbonitori che vendono i piatti.

I primi che io ricordi si mettevano a piedi piazza, davanti al palazzo delle Poste e Telegrafi, dove lavorava mio padre. Quella strabiliante abilità nel lanciare i piatti davanti ai compratori, in realtà, è venuta meno nel tempo, e oggi non è bello com’era in antico, quando i piatti volavano, ammonticchiandosi uno sull’altro, in ordine sfalsato, fino a formare una torre tremolante di un servizio da dodici tutto colorato. Capitava che ogni tanto si rompesse qualche pezzo, ma l’imbonitore, senza scomporsi, cambiava servizio e ricominciava l’asta: “E vi ci metto sopra la zuppiera! e vi ci metto pure le tazzine!… E mi voglio rovinare… vi ci aggiungo pure il piatto da portata!… Aggiudicato a quel signore!”.

Di quel servizio, nel corso dell’anno, si rompeva sempre qualche pezzo, e spesso a San Silvestro gli si faceva fare un altro tipo di volo: fuori dalla finestra, per ricomprarne uno nuovo dopo cinque giorni, alla fiera della befana. La mattina di Capodanno vedevi allora sulla strada cocci su cocci, una barbarie che aveva il valore simbolico di fare spazio alla roba nuova, buttando via quella rimasta spaiata.

Oggi puoi ancora trovare gli imbonitori dei piatti nelle fiere, o nelle televendite sulle reti commerciali dedicate, ma non troverai mai più lo spettacolo dei piatti che volano. Nelle televendite, più che i piatti, trovi stracci magici, sbucciapatate, affettatrici, spremiagrumi: tutti attrezzi che nelle mani degli imbonitori appaiono miracolosi tanto quanto nelle vostre saranno aggeggi infernali. Ma il potere ipnotico dell’imbonitore è ancora integro, con i piatti e senza piatti: statistiche alla mano, sembra che chi soffre di insonnia trascorra una buona parte della notte a guardare le televendite, e quello che prima era un rito collettivo, festoso e apotropaico, è diventato un piacere onanistico, notturno e solitario.

A questo punto vi starete chiedendo che c’è di personale in tutto questo.

Ebbene, c’è che ogni giorno, quando io svuoto la lavastoviglie, tiro fuori i piatti e li sbatto ad uno ad uno sul piano della cucina, facendo lo stesso identico rumore che facevano gli imbonitori. E quel rumore mi piace, mi dà una gioia intima e profonda. Sarà l’acciottolìo di cui parla Gozzano nella Signorina Felicita, quando Maddalena tira via le stoviglie? O non sarà piuttosto la sensazione provata davanti allo spettacolo dell’imbonitore della bancarella dei piatti sotto al Palazzo delle Poste e Telegrafi? Non so rispondere a questa domanda, ma quello che so è che svuotare la lavastoviglie, uno dei lavori domestici più noiosi, finisce per farmi sorridere, mi dà allegria, e il suono dei piatti che sbattono uno sull’altro mi coccola e mi accompagna per il resto della giornata.

Beh, a casa si lamentano parecchio, in verità: “Può essere che devi fare quel casino quando svuoti la lavastoviglie?”.

Eeeeh quante storie! – dico tra me – tappatevi le orecchie!
E continuo a sbattere i piatti, con gusto e precisione.

E se ne rompo qualcuno, pazienza.
I piatti in cui si mangia devono fare il loro ciclo.
E bisogna fare spazio, per far entrare i colori nuovi.

HAIR, ANCORA

C’è una tragedia che accade nella vita di tutte le donne, prima o poi.

Accade sempre, anche quando si tratta di donne colte, laureate, preparate, e non importa, accade lo stesso, non puoi farci niente. Ti travolge come un uragano, e ti getta nel panico totale.

Ebbene, oggi è accaduto a me. Ho fatto la cazzata: sono andata dal parrucchiere e gli ho detto la fatidica frase: ” FAI TU”.

Lo so, lo so. Non dite nulla…

A mia discolpa posso solo dire che mi sono immediatamente resa conto, l’ho capito subito… ma era comunque troppo tardi, non sono riuscita a tornare indietro. E ho fatto come faccio sempre: ho chiuso gli occhi, e sono uscita da me, volata via, come se il corpo non fosse più mio.

E quando alla fine ho aperto gli occhi… orrore! Chi era quella? La sorella scema di Amelie? L’ultimo dei Marines, reduce dalla guerra del Vietnam?

Devo essere sbiancata, perché tutti in salone mi hanno circondata amorevolmente, chiedendomi se mi piaceva, e mi hanno offerto un caffè.

Ero senza parole, davanti a tanta arte!
D’altra parte, in quelle situazioni, che cosa fare? La colpa è mia! solo mia! solo mia e della maledetta frase: “FAI TU”. Nessuna donna mai, in nessuna circostanza, in nessun luogo – che sia il macellaio il medico il calzolaio – dovrebbe mai dire a chicchessia A CHICCHESSIA la frase: “fai tu”.

E invece io l’ho detta.

Senza alzare lo sguardo da terra, evitando ogni specchio, mi trascino alla cassa, pago (tocca pure pagare), esco, mi infilo gli occhiali da sole, cerco freneticamente nel bagagliaio un cappello. L’unico cappello che ho in macchina è adatto alla grande nevicata del 2012. Corro alla guida, torno a casa, digito su Google “tagli capelli corti 2019” e sì, sembra un taglio di tendenza, ma porca miseria, io sono contraria alle tendenze, specialmente se tendono verso lo schifo.

Allora faccio una bella pensata, cerco un taglio di capelli 2019 molto trandy, ancora più corto, da stampare e da mostrare domani mattina a Edward mani di forbice, dicendogli con la voce strozzata, mentre gli lascio intravedere, nascosto nella mia borsa, un coltello da cucina ben affilato: “FAMMI SUBITO QUESTO TAGLIO E GUARDA CHE LO VOGLIO MALEDETTAMENTE UGUALE”.

Quanto a te che leggi, ti avviso: se mi incontrerai, in questi giorni, guardati bene dal dire frasi del tipo uuuhhh…. come stai bene!…. Hai tagliato i capelli?…. No. Non ho tagliato i capelli: ho cambiato sesso e sono andata da un barbiere pellerossa che mi ha fatto lo scalpo, l’ha appeso al suo tomahawk e l’ha mostrato a tutta la tribù. Perciò smettila di guardarmi con quella faccia, so leggere gli occhi. E leggo nei tuoi occhi che ti stai trattenendo dal ridere. Guarda che quando ti ho incontrata io quel giorno che ti avevano fatti i capelli del colore di un alpaca di 58 anni, non ho riso. Ho fatto finta di non vederti. Mi sono girata dall’altro lato, in un gesto estremo di pietas. E quando ti appiopparono quel vestito che ti faceva sembrare una salsiccia strozzata? ne vogliamo parlare? non dissi niente, abbassai solo lo sguardo.
Quindi, cerca di fare lo stesso. Non ridere, non dire niente, girati dall’altro lato.

E sappi anche che ogni volta che ho visto quei programmi televisivi dove i cuochi e i parrucchieri sembrano delle divinità, ho riso di cuore di tutti quelli che si davano in pasto ai Guru della cucina e del salone per capelli. Ho sempre detto: ma guarda che cretini!  E nelle fotografie del “prima e dopo” preferivo sempre il prima.
Edward mi ha colto in un momento di debolezza…

La verità è che siamo in preda alla follia perversa di cuochi e parrucchieri come se piovesse. Tutti grandi artisti! è un delirio, alimentato dai gregari che li circondano.

Per fortuna la scuola è chiusa, e in 10 giorni qualcosa mi verrà in testa (è il caso di dire).

E non dirò mai più “fai tu”.

Se mi diranno “faccio io”, dirò “FANCU’ “.


Sinead O Connor – Feel so different

LA CURA

Dedicato a Paola,
che mi ha chiesto
la parola che cura

 

Dicono che la parola che cura sia “perdono”.
Ma non è la mia.
Che razza di aiuto è, dire a qualcuno: “perdona”?
E’ come dire “ama” o “non amare”. E’ come dire “leggi”.
E’ come quando ti hanno detto “coraggio”.

Io non so dire di perdono.
Sto con gli antichi, che non lo conoscevano. La parola “perdono” sul vocabolario di Latino non esiste. Esistono concetti similari ma diversi, per esempio venia, parente della pietà e della compassione. Oppure excusatio, da “causa”: perdonare significherebbe smettere di ritenere qualcuno la causa di un male.
La causa di un male, comprendi?

Il perdono, in quanto “dono”, si può dare solo con amore.

Tu ti ami, non è vero, Paola? E allora l’unico perdono che puoi dare è a te stessa: perdonati, perché hai mostrato il fianco, quando addirittura non hai goduto della perversione della sottomissione.
Perdonati, liberati, sciogliti.
Prova a dire: per il male che mi hai fatto, io mi perdono.

Per tutto il resto, esiste il “condono”.
Condona, recedi dal contratto, non aggiungere una sola parola.
Per ogni tua sillaba, il vampiro si rigonfia, e anche se è già attaccato al collo di un’altra vittima, poveretta, un collo non gli basta, gliene servono due, tre, quattro. Un collo vale l’altro, purché abbia sangue.
Fa’ che uno di quei colli non sia più il tuo.

Perdona te stessa, e condona il tuo vampiro.
Il condono è il tuo paletto di legno.
C’è liberazione, nel condono.
Condona, riprendi il viaggio.
Chiudi tutto, blocca, filtra, abbassa ogni serranda, esci di casa.
Apri a quel cuore che hai dovuto chiudere in cantina. Quante volte già è rinato? Quante altre volte l’hai visto rifiorire?
Lascia agli altri l’amore liquido.
Cerca la roccia.
Succederà.
E’ la vita: correre il rischio.
Imparare.
Andare, aprire, ma non all’acqua.
Concedersi ancora, ma non all’acqua.
Arriverà.

Se non ti chiami Lee Holloway (quella di Secretary) o Justine (quella di De Sade) e non provi alcun gusto nella sofferenza, funzionerà.

Dai.
Levagli dalle mani il giocattolino.

Lascia il deserto in cui ti ha ridotta.

Sarà facile, non ci vorrà tanto.
Un gesto varrà più di mille parole.

 

 

 

 

 

IL GRANDE SAM

terremoto l’aquila ricostruzione

Al “doc” Samuele Di Giovanni, “IL” dottore.
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Quando c’erano macerie, io vedevo i palazzi.
Ora ci sono i palazzi, e vedo le macerie.

Ovunque io vada, l’occhio si ferma negli angoli dove s’annicchiano mucchietti di fiori marci, davanti a gigantografie con facce di ragazzi, davanti a una bandiera greca ormai sfilacciata da dieci anni di piogge e di vento.

Però stamattina c’era il sole, un sole buono, e me ne stavo per tornare a casa tutta contenta. Poi Teo mi tira da una parte, su un prato dove pascolano due cagnetti al guinzaglio.

L’uomo che li porta lo conosco, è Samuele. Ma non so se lui conosce me, perché Sam è un professionista molto noto in città, e quelli molto noti non sempre ti si ricordano.
Invece no, Sam è un grande, mi si ricorda: come tutti i grandi non se la tira, sembra uno qualunque, normale direi, normale nel parlare e nel vestire. E così ci sediamo su una panchina della Villa Comunale, e scambiamo due chiacchiere, e come sempre si finisce a parlare del terremoto.
Non resisto, e glielo chiedo: dov’eri quella notte? se eri qui quella notte, raccontami, dai

E lui racconta.
Non c’ero, sono corso qui da loro nel giro di cinque minuti. Proprio qui, in questo punto, ho incontrato mia figlia senza scarpe col pigiama strappato, ha detto solo “mamma è morta”. L’ho lasciata su questa stessa panchina dove stiamo seduti, è incredibile, proprio su questa panchina… Corro lì, vedo il palazzo imploso, mi metto le mani ai capelli, di 22 persone che abitavano lì mi dissero che ne mancavano 14. La polvere non si posa, brancolo un po’ sul cumulo di macerie, non so che fare, provo a scavare, e a un certo punto da lì sotto sento prima un guaito, poi un abbaio, l’abbaio di un cane, il mio cane che chiama, è vivo! e se il cane è vivo… c’è nessuno lì sotto? Chiamo i soccorsi… no… Impossibile contattare chiunque, chiamo aiuto, grido aiuto, vedo arrivare due ragazzi, uno di questi è un gigante, è enorme, gli dico “lì sotto, lì sotto”, lui comincia a scavare a mani nude, le mani due pale, una bestia, non si è mai riposato e mannaggia non so neanche come si chiama, so solo che era di Teramo, perché glielo chiesi, un volontario, emmannaggia, ci penso sempre, che non l’ho potuto mai ringraziare… è scomparso subito… è andato a scavare da un’altra parte con le sue enormi pale…

Qui Sam tradisce un piccolo singulto nella voce, una strozzatura, ma si riprende subito, dice è scomparso, scomparso subito dopo che ha tirato fuori mia moglie e i due cani, s’era creato un piccolo varco che li aveva protetti, lei s’è rotta il bacino ma l’ha tirata fuori, l’ha tirata fuori, anche i cani, e poi è scomparso…. scomparso. Guarda!

Mi dice guarda! e mi indica il braccio libero dal guinzaglio: i peli sul braccio sono tutti dritti, a fatica riesco a guardare perché… cavolo, dev’essermi andato qualcosa negli occhi.

Guardiamo il suo braccio, poi ci guardiamo in faccia, increduli nel vedere quell’orripilazione da sola memoria, e poi cominciamo a ridere, a ridere, e guarda il braccio, e guarda la faccia che ride, la faccia che ride e il braccio… e continuiamo a ridere, finché lui non lo abbassa lentamente. quel braccio.

“Siamo diventati come quei vecchi che parlavano sempre della guerra… ” dico io, ridendo e stropicciandomi gli occhi. Si mette a ridere ancora di più, annuendo, il grande Sam, e ridiamo, ridiamo ancora…

In mezzo al cinguettio di tutta quella gente che vuole dimenticare, noi ridiamo e pensiamo silenziosi che dimenticare non solo non è possibile, in fondo non è neanche giusto. E ogni giorno voglio incontrare un grande Sam, che mi racconta la sua storia.

Son quasi dieci anni.
Quando c’erano macerie, io vedevo i palazzi.
Ora ci sono i palazzi, e vedo le macerie.

C’è un andare nel mio restare…  c’è un restare nel mio andare…

SHIT!

Abbiamo tutti una certa pratica di stronzi, perché di stronzi è pieno il mondo. Chi non ne ha intorno? Tutti! E al contempo siamo tutti lo stronzo di qualcun altro. A questo non ci avevate pensato, eh, confessatelo. Epperò ci sono quelli veri, e quelli per modo di dire, dunque l’argomento è complesso.

Io sono laureata in stronzologia.

Lo stronzo nutre nei miei confronti un particolare tipo di attrattiva e di attaccamento.

Diciamo pure che io attiro gli stronzi come una calamita attira il ferro.
La mia faccia ingenua gli piace parecchio. La mia espressione costantemente difensiva mi fa apparire fragile, vulnerabile, manipolabile, anche se in realtà non lo sono. E lo stronzo è miope,  si ferma sempre alle apparenze.
Diciamo pure, per onestà, che io lo stronzo NON lo evito, anzi lo sfido, me lo vado a cercare, e su questo ci sarebbe molto da dire.

Anyway, la prima regola, caro il mio lettore, è questa: fidati di quello che lo stronzo ti dice all’inizio, perché è prassi comune che egli si dichiari. Appena lo conosci, lui dice “Guarda che io sono stronzo”. Non lo fa per te, lo fa per sé, sa benissimo che potrà sempre dirti che te l’aveva detto sin dall’inizio. Ma tu – che stronzo non sei – fatichi parecchio a credergli, proprio per il fatto che te lo dice. La prendi come una battuta, un motto di spirito: invece ti sta dicendo la verità. È uno stronzo! Poi le cose vanno avanti: collega amico o parente che sia, quando lo stronzo dopo un po’ inizierà a fare lo stronzo sul serio, non lo dirà mai più! Lo sarà e basta.

Ma sarà… che cosa? Beh lo sappiamo tutti, lo stronzo non ha altro Dio al di fuori del suo io: esiste solo lui. È incapace di ascolto, incapace di qualsiasi tipo di scambio, prende tanto, dà poco o nulla, si ama fino al disgusto. Non fa differenza che tu ci sia, tu sei assolutamente sostituibile, non c’è nulla di tuo che sia singolare e speciale per lui. Ama ciò che prende, non chi glielo dà. E di ciò che prende fa un leit motive, la sua unica compagna di vita, i nomi cambiano, si dimenticano, quello che importa è che la costante “k” sia davvero costante: energia, denaro, amore, lavoro, sesso, qualsiasi cosa, ma è una cosa. Non è mai una persona.

Incapace di uscire da sé, chiuso nel suo piccolo grande mondo, lo stronzo non saprà mai che cos’è il perdersi in un universo completamente diverso dal suo, non saprà mai che cos’è un viaggio in un pianeta inesplorato, rischioso, un viaggio da cui potrebbe anche non tornare mai più. Come il pesciolino nella boccia, non vede altro che il suo piccolo mare. Eppure, pateticamente, si dichiara un grande marinaio, ha un’immagine di sé GRANDIOSA, da cui tu vieni letteralmente risucchiata, solo perché ti piacciono le storie, le narrazioni, le fantasie.

Finché un giorno, dai e dai, il velo si squarcia, vedi l’omino del Mago di Oz, vedi lo scenario di cartone del Truman Show, e scendi dalla giostra.

Non devi restarci male: il tempo che hai investito, l’energia che ci hai messo, per te sono Vita, e nulla andrà sprecato, ti hanno reso migliore.

In Oriente si pensa che le sofferenze rendano belli. Pensa quanto sei bell@. Sì, sei una meraviglia, ogni frattura oro colato, un kintsugi.

Perciò, caro lettore, ogni giorno della tua vita, ringrazia di avere incontrato l@ stronz@ di turno, e prega Dio che non ci sia giorno in cui non ne incontri un@: potrai apprezzare chi sa vederti e sceglie di perdersi, e di dimenticarsi.

Ci sono pesci convinti di nuotare nel mare, e invece nuotano nello scarico dove alla fine tutti li buttano. Tirando subito l’acqua.

“AULULARIA” IN AULA MAGNA


Presento con orgoglio la mia ultima esperienza di lavoro: la lettura recitata dell’Aulularia di Plauto. Il
 “reading” di un testo latino, in questo caso una commedia, consente di sviluppare competenze straordinarie nei giovani allievi. Continue reading ““AULULARIA” IN AULA MAGNA”

IL CILIEGIO

 

Puoi averla amata o combattuta.
Ma a quella nonna scopri un po’ alla volta di rassomigliare, mentre pian piano invecchi. Ti specchi, e con dei lampi brevi dell’immaginazione riconosci qualche tratto, un piccolo dettaglio d’espressione. Capisci allora che te la porti nella carne, pure se è morta prima che nascessi, pure se ormai è quarant’anni che non la rivedi. Continue reading “IL CILIEGIO”

ALESSANDRA

E ti ritrovo su You Tube,
amica mia d’adolescenza
che partisti
mentre noi scappavamo tutte via.

Fosti trauma,
fosti schiaffo non compreso.

“Vai in Africa!” noi ti dicevamo
“almeno, fatti missionaria!”
ribelli ad irrequiete a quindici anni.

“No. Mi chiudo”
tu dicesti.
E ti chiudesti.

E ora, quasi quarant’anni dopo,
ti ritrovo uguale
amica mia dolcissima,
che stai a Gerusalemme in mezzo al fuoco.

E vedo dove vivi,
quando ti svegli e vedi
l’orto degli ulivi.

Ci sei andata, infine,
in mezzo ad una guerra
e sei rimasta uguale,
allegra e spiritosa e col sorriso.

E mi dimostri
che uno più si muove
più non capisce dove.

alessandra

Roger Waters – Mother (In The Flesh CD 1 – 2010)
 

REQUIES TIBI, PATER

E mi lasciasti sola in una piazza.
Ti nascondesti,
e mi tenesti d’occhio.

Quattr’anni avevo,
ed un gelato in mano.

Ma non piansi.

Mi dissi: “io sono invisibile!”
ed a passetti andai verso quel Vigile.

Allora tu venisti, sorridente,
e mi prendesti in braccio piano piano.

“Sei stata proprio brava, sai, e sono fiero!”
dicesti, a me che non capivo.

Capisco ora, padre.

E se sapessi
quanto più grande adesso è questa piazza.
Quanti pericoli,
quanto sentirmi persa.
Quanto gelato a terra m’è caduto.

Tu lo sapevi,
lo sentivi, allora,
e provasti per primo l’abbandono.

Riposa in pace ora,
padre mio:

il vigile urbano,
adesso,
sono io.

papà


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U2 – October

D’AMORE, DI CORAZZE E D’ALTRO ANCORA

Questo scritto è dedicato a Gianpaolo,
che ha ripristinato il blog dopo l’attacco pirata.
Gianpaolo che ho seguito per soli due anni,
orsono ventisei,
Gianpaolo che da allora pensa
chissà perché
di essere in debito con me.
Grazie

Io non faccio un mestiere.
Non trasmetto sapere.
Aiuto ragazzi e ragazze
a forare corazze.

A loro sembra bastare.

Ma per bucare li devi amare,
è cosa essenziale,
non si può fare senza questa,
io amo di loro ciò che altri detesta.
Generazioni passano,
i loro capelli cambiano
cambia la loro musica,
ma le paure, oh,
sono sempre le stesse.

Io insegno solo
a lasciarsi amare.

E a loro
(almeno a loro)
sembra bastare.

 

il_bacio
 
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The years after – I’d love to change the world

AFFRONTARE LA PAGELLA

La fine dell’anno scolastico è un momento delicatissimo per tutte le componenti attive della società, dai diretti interessati, i ragazzi, alle famiglie e agli insegnanti, che raccolgono in questi giorni il frutto del proprio lavoro. Didatticamente è un momento cruciale, che i docenti vivono con quella leggera emozione che si prova nel vedere i propri ragazzi cresciuti, sia come studenti che come persone, perché di anno in anno i ragazzi apprendono non solo nozioni e contenuti, ma anche comportamenti e capacità fondamentali, come l’autocontrollo e la correttezza di relazione con l’autorità e le istituzioni, che deve essere disinvolta ma non sfrontata, obbediente ma non servile. Ed è a fine anno che la valutazione di uno studente diventa “complessiva”, atta cioè a valutare non tanto la singola performance, quanto un processo durato un anno intero. Questo  concetto non è sempre chiaro, spesso ci si lascia attrarre da una considerazione sbagliata sia delle ultime verifiche, sia dello scrutinio finale o dell’Esame di Stato, che vengono erroneamente vissuti come momenti in cui “cala la mannaia”. I ragazzi devono comprendere che la funzione della scuola non è quella di una caraffa graduata, che misura “quanta” acqua è entrata nella brocca. Ogni studente ha una sua storia, un suo percorso scolastico e uno stile di apprendimento che devono progressivamente affinarsi e maturare nel tempo. La fine di un anno scolastico si pone come tappa fondante per orientare, indirizzare e indicare, attraverso un giudizio, come questo stile di apprendimento  si stia evolvendo o possa diventare sempre più funzionale. Bisogna spiegare ai ragazzi che lo “sprint finale” su cui molti di loro fanno affidamento non può che cercare di riempire un po’ quella brocca di acqua, raccogliendola fortunosamente da qualche pozzanghera, ma a nulla servirà ai fini del processo valutativo o di crescita culturale. I ragazzi dovrebbero avere segnali chiari: le verifiche degli ultimi giorni, la pioggia dei compiti in classe e degli “interrogatori” (così loro definiscono in gergo scolastico le ultime interrogazioni) disorientano, creano false aspettative. Senza nulla togliere a chi intenda migliorare la propria posizione, bisognerebbe cercare di far comprendere che la prestazione finale realizzata in prossimità del nastro di arrivo in modo ansioso e compulsivo non è un sistema funzionale. Naturalmente il buon senso dei docenti gioca quasi sempre a favore dei ragazzi e i consigli di classe valutano sapientemente le diverse situazioni, anche perché spesso succede che a fine anno emergano fatti prima sopiti, che i ragazzi decidono di condividere con gli insegnanti solo quando si rendono conto di non riuscire più a “riprendere le redini della loro vita” (questa è l’espressione più diffusa). Il debito scolastico è un’opportunità per recuperare quanto irrisolto o confuso, e non va vissuto come un fallimento, ma come una crescita, come accettazione di una regola volta al recupero. Certo, diverso sembra essere il caso della bocciatura, più raro ed estremo, a cui comunque si giunge dopo una serie di richiami sistematici, di avvertimenti, di convocazioni a colloquio dei genitori. I fallimenti scolastici devono essere vissuti, per quanto possibile, come una tappa di crescita, e va insegnato anche il modo con cui reagire ad essi. In questo periodo finale tutti i ragazzi devono essere assistiti e confortati dai genitori, sia in caso di successo che di insuccesso: non è superfluo raccomandare ai genitori di congratularsi con i ragazzi promossi, con serietà e soddisfazione, per l’impegno profuso e per i risultati ottenuti, per procedere insomma al “rinforzo”. In caso di insuccesso, invece, i genitori e i docenti dovrebbero procedere in sinergia, dare lo stesso segnale, indicare a una sola voce che il modo in cui il ragazzo ha lavorato e studiato non è stato produttivo e cercare con calma di individuare le motivazioni che hanno portato all’insuccesso. In questo modo, quello che si presenta come un momento drammatico potrà trasformarsi in una rara e preziosa fase di crescita e di condivisione. Il debito o la bocciatura non arrivano quasi mai inaspettati, ma in certi casi alunni e genitori confidano fino all’ultimo nella benevolenza del Consiglio di Classe: bisogna insegnare che non è un bel vivere fare affidamento sulla “comprensione” o dipendere da essa. Richiamarli alla dignità, al rispetto di se stessi, credere nella loro capacità di recupero. Un ragazzo richiamato da un insegnante o da un genitore stimati, cercherà da quel momento di dare il meglio di sé e pian piano imparerà a farlo per compiacere se stesso, non l’insegnante o il genitore che l’ha richiamato. E così diventerà un circolo virtuoso. Ma la capacità di iniziare la virtù del circolo, gli strumenti per farlo, li possiede l’ adulto: il ragazzo li sta ancora cercando, e li impara da noi.