LA VITA NELLE COSE

Il testo è un flash-back, scritto in un paio di ore, un giorno in cui ho deciso di raccontare la demolizione di casa mia, avvenuta il 4 ottobre 2011 ad opera dei Vigili del Fuoco.
La mia casa era inclinata di 12 centimetri.

 

Mentre guardavo desolata intorno a me, il Vigile del Fuoco si girò di spalle.
Ebbi la sensazione di quando il veterinario chiede a John Grogan: “Vuole che vi lasci da soli un attimo?” prima di praticare l’iniezione letale a Marley.
Diversamente dal veterinario, il mio Vigile del Fuoco non poteva andarsene, non poteva lasciarmi lì dentro da sola, doveva assistere all’ ultimo saluto alla casa.
Mio fratello mi dice: “Non vuoi portare via qualche altra cosa?”. La voce per rispondere non mi usciva: piuttosto sentivo risuonare, in quel corridoio, feste e voci e giorni di pasqua e di natale, e la figura di mio padre, e i giocattoli, e cose, cose, cose. Di quando Dino sbatté la fronte sul termosifone per colpa mia. Di quando mi comprai due pulcini colorati che scorrazzavano ovunque. Di quando con la mia amica Paola comunicavamo con due telefonini rossi di plastica calando il filo dalla finestra del bagno. Di quando passavamo ore e ore nell’atrio del palazzo a cercare le mattonelle storte…
No, va bene così, grazie” ho detto al Vigile.

Dopo un attimo, Dino torna dalla cucina con due sedie, una per mano: due sedie di castagno, non antiche, solo “vecchie”, come uscite dalla soffitta della Signorina Felicita, due sedie di castagno stile country, un po’ sgangherate, me le ricordo da sempre. E poco dopo, con la stessa espressione di Dino, mi si avvicina anche il Vigile del Fuoco, ma lui ha in mano un orologio a muro, lo ha spiccato dalla parete di fronte, me lo porge, perché io lo prenda. Non dimenticherò mai quella faccia, quella mano che trema, e chissà quante volte gli era capitato di fare la stessa cosa, per altri, prima di ogni demolizione.
Presi l’orologio, mi aiutarono a portare giù le due sedie.
Dissi addio, mandai un bacio, lasciai la porta aperta. Non per la casa, per la vita, che non demolisse con lei.
Poi mi rimproverai un po’: da quando? Da quando questo attaccamento alle cose? Perché? La rifacciamo! La rifacciamo più bella! La rifacciamo che non si inclina più!”. Poi capii che non era quello, era la vita, era chi non c’è più, era i 309, era i palazzi antichi, era gli avvoltoi che mi ruotano in testa da quasi tre anni ormai, profittatori della fragilità e della debolezza, era che non tutti capivano, era che il mio è sempre il lato sbagliato della strada. Era il dolore di mio padre, che sentivo dall’aldilà, per quelle care cose, per quegli oggetti, messi qui da lui a uno a uno, era il dolore di mio padre, che se ne andava un’altra volta, insieme a quegli oggetti che io stavo lasciando lì al macero tra le macerie.

Mi ritrovai per strada, due sedie, un orologio, e non sapere che fare.
E mo’ queste ddò le metto, ché a casetta, se entrano loro, esco io?
E così le portai da Patrizio. “Me le tieni, Patrì? Magari un giorno me li ridai, chissà… “.
Patrizio è uno di quelli che con le cose ci parla. Conosce il legno, il marmo, conosce gli impianti elettrici e l’argilla, i tubi e le tegole dei tetti. Solo gli zotici non capiscono che le sue sono mani di artista e che il suo cuore è un cuore di poeta.
Patrizio mi capisce subito, non devo spiegare niente, non devo giustificare che non sono sedie antiche ma solo vecchie, lui capisce, abbraccia le sedie come due bambini, se le mette in macchina e poi abbraccia me, desolato… Sì che capisce, lui.

Passa un mese.
Ieri sera suonano alla porta di casetta, apro, e davanti a me ci sono le due sedie, belle, lucide, rimesse a nuovo, come appena uscite dal falegname. C’è sopra un biglietto: “Sono contento di aver contribuito, con il mio intervento, a preservare questi due oggetti, che tu, con il profondo rispetto che nutri verso di loro, hai voluto salvare, legata ad essi da ricordi cari e lontani”. Leggo, non faccio in tempo a dire “ma….” che dall’ombra sbuca lui, Patrizio, ridente con quella faccia da birbante. “Ti ho portato a salutare le bambine!”.
Le cose… Le cose, loro, non hanno valore. Ma hanno il pregio di avere un’anima che unisce le persone. O le divide per sempre.

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Bob Dylan – If you see her say hallo

COLAZIONE DA PIZZOLI

Il racconto nacque da uno stralcio di conversazione ascoltato furtivamente in un bar.
 

“Nomina sunt consequentia rerum”. Questa frase, scritta su una targa di metallo, era appesa sulla porta di ogni aula dello stimatissimo professor Domenico Scassa. Era una frase antica, con cui l’anziano professore di Latino probabilmente intendeva stupire i suoi studenti, ripetendola e spiegandola all’inizio di ogni anno scolastico, come fosse la tavola di Shutruk Nahunte. Purtroppo ciò non era sufficiente per ottenergli, come al Signor Hundert, la stima dei suoi studenti, che ridacchiando riferivano la frase esclusivamente a lui, Domenico Scassa, che con il suo latinorum, “scassava” di nome e di fatto. Un po’ per l’età, un po’ per la botta del terremoto, che gli si era preso tutto, fatto sta che il vecchio professore non si rassegnava a vedere a soqquadro la geografia ordinata della vita precedente, e questo lo rendeva assai pesante. Domenico Scassa aveva sempre odiato i cambiamenti, perciò nei due anni seguenti il sisma del 6 aprile 2009 aveva fatto un sacco di capricci. Ma ora basta, avrebbe messo la testa a posto e avrebbe fatto il bravo: hic et nunc, doveva adattarsi, stabilizzarsi, fermarsi, come erano riusciti a fare quasi tutti. In parole povere, sarebbe rimasto a Pizzoli finché non fosse tornato a casa sua. “Casa mé”, diceva ogni tanto, battendosi il petto. “Casa mé… Rivòglio càsa mé…”, diceva emettendo una strana cantilena, quasi in metrica, come, come quei Tityre tu patulae recubans che scandiva da trent’anni. La gente di Pizzoli pensava che non ci stesse più tanto con la testa. Ma “casamé”, per tanti aquilani, era ben più che la casa, “casamé” era un concetto, era il quartiere distrutto. Per lui, per esempio, era la villa comunale, a due passi dal centro storico, appena dentro Porta Napoli, ricca di verde e di case deliziose, gente serena, viali profumati di tiglio, il mini-market “DA LUCIANO”, dove il professore correva prima di  pranzo quando gli mancava il pane o la scatoletta di cibo per il gatto. In questi tre anni Domenico Scassa non si era mai rassegnato ai megastore di periferia, dove gli infilavano la spesa nelle buste mollicce e puzzolenti di plastica biodegradabile. Scassa rivoleva il cartoccio profumato che Luciano gli passava con le mani tozze, dicendogli, con gli occhi che sbucavano tra le foglie di sedano, “… Professò, ecco qua, buon appetito, a Lei… e pure aju jattucciu!”. E lui a mezza bocca biascicava “Eh che te pòzzino Lucià, pure stavolta m’hai fregato un paio di euro, eh, scì ‘mpisu!”. I negozietti del centro avevano sempre i prezzi un po’ più alti dei supermercati, è vero, ma ora avrebbe pagato volentieri quei due euro a Luciano, e chissà dove aveva riaperto bottega, Luciano, magari era morto, chissà, se n’era andato via come il suo vecchio gatto, che se l’era preso il terremoto, e non s’era rivisto mai più.

Il professor Scassa, ingraziadiddio, si sentiva proprio bene, in quest’ultima delocalizzazione. Dopo Cansatessa, Arischia e Barete, finalmente era approdato a Pizzoli, in una bella casa antisismica. A un paio di chilometri dal centro abitato, verso la statale, c’era uno splendido bar in perfetto stile post-sismico: tetto di legno aerodinamico, gioco di specchi, strane pareti luminose tipo astronave di Star Trek. In questo preciso momento, come ogni domenica, il povero professore stava ordinando la sua colazione, cornetto e cappuccino. “Mmmh… A questo bar manca la stratigrafia!”. Il professor Scassa chiamava “stratigrafia” quel fenomeno per cui un luogo antico, anche quando viene ristrutturato e ammodernato, mantiene l’anima precedente. “La senti veleggiare sul soffitto, l’anima della casa, non è un fenomeno spiegabile fisicamente, ma non c’è da fare, gli ammodernamenti si stratificano uno sull’altro come gli undici strati di Winckelmann, e l’undicesimo mantiene qualcosa del primo! E’ incredibile, la fisica non lo può spiegare, e questo dimostra la superiorità delle discipline umanistiche su quelle scientifiche! Altro che ingegneria!”. Il vecchio professore si sistemò nell’angolino più riparato dell’astronave, su una sedia che Spok avrebbe certamente gradito, contrariamente a lui. La tazza davanti, il cornetto in mano. Abituato alle colazioni storiche dei bar storici, non riusciva a non sentire quello spazio circostante premergli addosso impertinente, proprio come gli succedeva in Autogrill. “Mmmh… Qui c’è solo uno strato! Come si sente… Ma, ohibò ci vuole spirito pionieristico! Verranno altri strati, un domani! Non sarà mica una struttura provvisoria, una di quelle che andranno dismesse quando tutto tornerà come prima?”. Sentì immediatamente un’eco nella testa (“… come prima?… come prima?… come prima?… tornerà come prima?…”). Addentò delicatamente il cornetto proprio nel punto in cui c’era più marmellata. “Probabilmente questo bar è un non-strato che non stratificherà mai. Ma non devo pensarci, devo vivere! Hic et nunc!”. Si impose di concentrarsi solo sulla marmellata di ciliegie… Proprio mentre il boccone iniziava a liquefarsi e ad esplodere in tutta la sua succulenza, rivide in un flash l’antica casa paterna: San Sisto, e suo nonno davanti al ciliegio appena fiorito. Suo nonno che si mette il cappello, la giacca buona e dice con aria solenne: “VADO ALL’AQUILA!”, perché all’epoca era un viaggio assai difficile e delicato, da San Sisto all’Aquila. Ridacchiò,  pensando che poi invece San Sisto era diventato un bel quartiere quasi centrale: la città se l’era mangiato. “Questo è il processo naturale: che la città si mangia l’intorno! Oppure è l’intorno che si mangia la città?”. Poi si ricordò che la città non c’era più. E’ che Domenico Scassa si sentiva sbalzato via come un grave in forza centrifuga, come fosse uscito da un frullatore acceso senza tappo, come un pilota di Formula Uno espulso dall’abitacolo… Per un attimo, si concentrò sullo stato di ubriacatura dettato da questa condizione di sbandamento. “Eh no” si incitò subito “no, no! Hic et nunc! Pensa al cappuccino!”. Magnifico, spumoso, lo girò con il cucchiaino, prima di appoggiare le labbra alla tazza e lasciarsi stupire come sempre. “Tutto deve cambiare, perché le cose restino come  prima!”. Mentre si consolava con la filosofia gattopardesca, si sentì chiamare alle spalle: “Buongiorno proessò, fa colazione?”. Era Giovanni Coccia, un suo alunno.

“Coccia, da dove sbuchi? Stai delocalizzato qui?“

“No, io sto a Tornimparte proessò! Qua ci stanno delocalizzati i miei nonni.”

“Eh, eravamo vincoli e ora siamo sparpagliati, direbbe Totò. E a che Tornimparte stai?”

“Sto un po’ isolato tra San Nicola e La Villa!”

“Tra San Nicola e Villagrande? Coccia, San Nicola è San Nicola, Villagrande è Villagrande: VILLA-GRA-NDE, non si chiama La Villa! Ma perché la chiamate La Villa? Le cose hanno un nome, bisogna dargli il loro nome, è importante! Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus!” recitò, alzando in aria l’indice e sgranando gli occhi “E’ il nome che fa esistere le cose! E’ il nome che le mantiene vive!”. Ma Coccia se n’era già andato imprecando. “Ma sinti che tenga sintì…San Nicola è San Nicola, Villagrande è Villagrande… ma jamo!… Ma pure ecco tà scassà, Scassa?… a quissu non ji basta la scòla, pure fòòòòre…”.

Il professore si ripulì dalle briciole, ultima parte del rituale mattutino. A un tratto, gli si avvicinò un signore che, con piglio confidenziale, cercò di avviare una conversazione: “Scusi… per caso noi… ci conosciamo?…”. Scassa cercò subito di sviare, ma quel signore insistette, precisando qualche particolare. “Io faccio il meccanico”. “Io no!” rispose il professore, un po’ imbarazzato. Si sforzò di trovare qualche aggancio alla conoscenza, ma solo per poter chiudere velocemente la conversazione. “Forse… siamo vicini di casa?” disse timidamente, pensando ai numerosi vicinati degli ultimi due anni. “Ah! Può essere! Lei di dove è?”. Pausa. Questa domanda accese in Domenico Scassa un’emozione fortissima. “Lei di dove è?”: significa nella vita precedente! La speranza, il ricordo… un effetto-Ungaretti (…di che reggimento siete, fratelli?) così evocativo da portarlo a rispondere con entusiasmo, come sperando che fossero stati vicini di casa, una volta, nella vita ordinata, e che per un attimo quell’ordine potesse essere ripristinato nel ricordo comune. “Io sono della villa!” disse Domenico Scassa, quasi abbracciando il meccanico, trattenendosi a stento, e pensando alla villa comunale dell’Aquila, ai giardini pubblici, ai tigli di viale Crispi, a Luciano in mezzo al sedano, e lo ripeté due volte perfino: “Sono della villa! Sono della villa!”. “Ecco, lo vedi, ora si spiega tutto! – disse soddisfatto il signore, dandogli una pacca sulla spalla. “Tu sei della Villa, io so’ di San Nicola!”.
“Eccerto” sospirò Domenico Scassa. E rimase lì, come un pezzo di frullato spiaccicato sul muro luccicante dell’Enterprice. Dopo un po’ si mise il cappello, la giacca nuova, e disse con la stessa aria solenne di suo nonno: “VADO ALL’AQUILA”.

E non lo rividero più.

***

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RICOMINCIAMO LA SCUOLA!

“Ce la caveremo, vero papà?”
“Sì, ce la caveremo.”
“E non ci succederà niente di male.
Perché noi portiamo il fuoco”.
“Esatto. Perché noi portiamo il fuoco.”
(Cormac Mccarthy, La strada)

Oggi gli zaini sono nuovi come i propositi, i quaderni e i registri sono immacolati come la coscienza, e i diari sono pieni di belle promesse. Ecco perché mi piacerebbe dire qualcosa di bello, vorrei fare tanti auguri speciali di buon anno scolastico a tutti: ma che siano auguri scomodi, come diceva Tonino Bello. Tanti auguri scomodi di buon anno scolastico a insegnanti, genitori, operatori della scuola, bidelli, non docenti, associazioni, agenzie formative, tanti scomodi auguri a tutti di riuscire a stare gli uni accanto agli altri pensando al bene comune, non solo al proprio. Di riuscire ad inventarsi un modo per trascorrere un inverno sereno, creare ambienti rassicuranti, trasmettere agli studenti la fiducia che usciremo da questo tunnel anche grazie a loro. Tanti scomodi auguri ai ragazzi che studiano nella loro cameretta con le collezioni di Dragon Ball sulla libreria, ma di più a quelli che hanno invece il “letto aggiunto” sul poco o niente del loro passato, e che hanno già imparato che la vita non fa sconti, non a loro, almeno. Auguri scomodi a genitori e insegnanti che stanno a casa propria pensando che sia un merito, e che tutti gli altri “non si sono dati abbastanza da fare”: auguri scomodi, perché hanno molto e sono molto poco. Ma auguri scomodi soprattutto a voi, ragazzi, perché è felicemente finito il tempo del campeggio, dei clown, della beneficenza e degli animatori. E’ il momento di pensare con la testa, la transizione è finita, in un modo o nell’altro si è stabili nell’instabilità. Guardatevi intorno: niente è più come prima, resta un paesaggio di macerie, casette e container, cartoni buttati a terra dove dormono operai stranieri e dove riposano i senzatetto. Il tessuto sociale è cambiato, aprite gli occhi. Dovete accettare questa nuova realtà e iniziare a elaborarla in positivo. Dovete rendervi conto che questo non è solo tempo che scorre, è vita che passa. Le materie scolastiche per voi non sono come per tutti gli altri ragazzi d’Italia: l’educazione civica, la legalità, la storia, la poesia per voi devono avere un significato diverso. E’ inutile che vi lamentiate di quello che vi sta intorno, è utile invece che vi impegniate, che pensiate che, finché starete qui, tutto vi riguarderà, e tirerete fuori il meglio di voi stessi solo avendone cura. Fa al caso nostro un interessante esperimento condotto da alcuni psicologi americani: con delle telecamere hanno sorvegliato due parcheggi di supermercati della stessa catena, uno pulito e ben curato, l’altro pieno di cartacce, sporcizia ed erbacce. Ebbene, i clienti che si trovavano nel parcheggio pulito badavano a non buttare niente a terra, guidavano con prudenza e mantenevano un comportamento educato. I clienti di quello sporco non si curavano di lasciare a terra buste rotte, carte e cicche, comportandosi come zoticoni e dando il peggio di sé. Ecco: per voi non è solo un parcheggio, è una città intera. Tanti scomodi auguri a tutti.

E NON LO RIVIDERO PIU’…

E dire che era nato con la camicia. Ottima famiglia, buona condizione economica, laurea, dottorato, buon impiego, vita discreta, famigliola, giardino, cani, gatto, pesci e tartaruga. Ogni cosa era al suo posto quando L’Aquila, la sua città, andò in mille pezzi come il vetro di una finestra sfasciato da un pallone. Ed eccolo lì, con una borsa di stracci raccogliticci, in mezzo a una strada.
Che fare? La polvere dei crolli non si posava ancora, tutti erano attoniti e frastornati dalla tragedia, ma lui non ebbe alcun dubbio: l’unica soluzione era andarsene. “Non passerò neanche una notte in una tenda della Protezione Civile. Mai, neanche per idea”. Piuttosto avrebbe riesumato in qualche angolo del garage l’attrezzatura da montagna di quando era giovane. Sarebbe entrato di straforo in quel dannato garage, nonostante l’assoluto divieto di avvicinarsi agli edifici inagibili e avrebbe recuperato la sua vecchia tenda. Magari, se gli veniva a tiro, avrebbe portato via anche l’armonica e avrebbe iniziato una vita on the road come Jack Kerouack. O avrebbe dato fondo alle sue memorie di birdwatcher, con la sua Vera Tolfa a tracolla avrebbe camminato in montagna, costruito un capanno, si sarebbe nascosto lì… Ma la tenda da otto, da sedici, la tenda con la gente mischiata, la tenda con le mutande degli altri appese in giro, no. Fu tuttavia ragionevole, le prime notti le passò in macchina. Poi si decise e parlò fuori dai denti alla sua famiglia: “Io me ne vado”. “E dove vai?” “In campagna, lontano da qui”. Carlo, come tanti altri, in quel momento vide solo questo. “Allora buon viaggio”, gli disse laconica Alberta, con la quale aveva mantenuto ottimi rapporti e che pure era stata invitata alla fuga. Se mai ci fosse stata qualche speranza di riconciliazione, quella fu l’ennesima e definitiva cesura, con annessa ripetizione di ciò che le mogli dicono sempre ai mariti: “Tu non crescerai mai”.

E così Carlo se ne andò a 50 chilometri dalla città.

Il suo sogno di libertà si infranse poco dopo, quando fu precettato: gli aquilani dovevano tornare a lavorare, non dovevano lasciare le sedi, gli uffici, e dopo una breve pausa di compensazione, tutti ripresero i loro posti di combattimento per impedire la morte della città. Carlo avrebbe avuto pur sempre un’alternativa: farsi distaccare in altra sede, tipo Pescara, Teramo, Avezzano, cosa che fecero in molti, in verità: ma era un po’ difficile, per il nostro, perché il posto più vicino a quello in cui aveva scelto di abitare restava pur sempre L’Aquila. La condanna ricominciava, una condanna senza fine, poiché tutto era stato spazzato via, tranne quel maledetto foglio delle firme di presenza. Non restava che adeguarsi. “Qualcosa succederà”.

E accadde che una strana smania iniziò ad impossessarsi di lui. Senza casa, senza nessun oggetto del suo passato tranne la sparuta attrezzatura da campeggiatore, i libri di Castaneda e Tarantula, Carlo fu assalito prima dal timore, poi dalla certezza, di essere irrimediabilmente cambiato. Le “cose” non avevano più alcun valore per lui: ne aveva perse troppe. Iniziò a vestirsi senza più la cura di una volta, sentiva un piacevole senso di liberazione da tutte quelle trappole sociali che sempre –diciamolo – gli erano state strette. Il terremoto giustificò con gioia l’assenza di cravatte di ogni tipo, e non solo per lui, anche per tanti altri che con ostinazione continuavano ad autodefinirsi orgogliosamente “terremotati”. Solo chi era rimasto in casa propria continuò a fare le gare di habillés tipicamente aquilane. D’altra parte, si dice che “J’Aquilanu non magna pe’ vvestissi”. Non c’è da stupirsi, dunque, se fu una vera liberazione uscire dallo squallore della competizione quotidiana, dell’ostentazione della stupidità delle maglie griffate. Un ritorno all’essenziale. La ridicola corsa al capo firmato, la caccia alle scarpe di Casette d’Ete e alle maglie di Valmontone, apparivano ora ai suoi occhi comportamenti ancora più idioti che nella vita precedente, insulsi, come la riportata dei capelli sulla testa di un calvo. Uno i capelli o ce li ha, o non ce li ha: ogni finzione è assolutamente ridicola.

Passò un anno. Il cambiamento sociale fu sconvolgente. In una città fatta solo di periferie, le uniche coordinate possibili erano quelle di attività commerciali. Tutti i giorni, quando Carlo arrivava davanti al negozio di generi alimentari rumeno, accendeva il navigatore della Volvo. “PERCORRENDO VICOLO”, diceva quasi sempre la mappa. Erano strade senza nome, strappate alla campagna. Vendette il navigatore per cinquanta euro a Zoran, un ragazzo macedone della ditta delle pulizie del San Salvatore, che glielo aveva chiesto tempo prima e che iniziò a sistemarlo entusiasta sul cruscotto, mentre lui se ne andava incurante. “Percorrendo vicolo”. La giornata non gli bastava mai, le distanze erano incolmabili. Doveva tagliare ancora, tagliare, tagliare, tagliare!

Passò un altro anno. Dopo aver preso parte a quarantadue inutili assemblee di condominio, Carlo decise di svendere il suo appartamento alla Società F.o.t.t.e.c.a. Comprò una casetta di legno a 15 chilometri dall’Aquila, tra Pizzoli e Marruci, in aperta campagna, che Alberta amabilmente battezzò “la rimessa degli attrezzi”. Non c’era neanche la linea telefonica. La chiavetta Internet prendeva poco e male, e così Carlo finì per rinunciare anche a quell’unico, ultimo baluardo della sua socialità. Fu fare di necessità virtù, ma apparì a molti come un lottatore, uno che resiste alla sorte a testa alta, uno che “regge i colpi”. “Che mi perdo stasera? – pensava dalla casetta di legno – Minzolini? Saviano? Ah!… Mmmmhh…E ieri? Che mi sono perso ieri? La cantatrice calva? Gli speciali di Quark? Ah!… Mmmmmhhh…”. Mentre i più vivevano studiando le Ordinanze quotidiane e vendendosi per una casa-pollaio, lui, il Tiziano Terzani de noantri, il Mauro Corona de Madonna Fore, voleva solo sparire da lì. Tutto questo lo rese assolutamente trandy. All’Aquila, come si dice, ti invidiano pure la sfiga.

Un giorno Alberta lo incontrò al Cermone, si vedevano sempre più di rado, così lei suonò ripetutamente il clacson e gli fece cenno dal finestrino di fermarsi.
“Come stai?” gli chiese, preoccupata dal suo aspetto inselvatichito. Lo trovò tuttavia in buona salute, abbronzato e tonico, certamente per la nuova vita all’aria aperta. Notò non senza stupore un piccolo tatuaggio che spuntava dalla manica della maglia, ma resistette alla tentazione di guardare che cosa raffigurasse, per non metterlo in imbarazzo.
“Sto benone! E tu?”
“Mi difendo” rispose lei, con malcelata curiosità. Certo lui le sembrò più felice.
“Come mai non passi a trovarmi?”
“Eh… Sai.. Quindici chilometri… il traffico… Tu mi conosci”.
“Hai bisogno di niente?” gli chiese lei, più per forma che per convinzione.
“No, grazie… Tu se hai bisogno chiamami, che arrivo” disse lui a sua volta, più per forma che per convinzione.
“Ma dov’è la Volvo?” chiese lei stupita, conoscendo l’attaccamento del marito a quella macchina.
“Venduta. Si rovinava su queste strade”.
“Ah.. Capisco…”.
Carlo risalì sulla sua Skoda cassonata simil-pickup, e prese a tutta birra per una strada bianca, alzando dietro di sé una nuvola di polvere.

E non lo rividero più.


B B King – You ‘re going to miss me

CENTO GIORNI DI NULLA

Questo articolo è stato scritto come “Nota” su Facebook dopo la giornata dei “Cento giorni”, il giorno di festa pazza con cui i ragazzi delle classi Quinte di tutta la città celebrano il count-down di cento giorni dall’Esame di Stato. In seguito al verificarsi di pesanti atti di vandalismo nel cortile del Bafile, con lanci di uova, cemento ed estintori, l’opinione pubblica si schierò compatta contro i ragazzi autori degli atti vandalici, chiedendo per loro una punizione esemplare. A termine della vicenda, i danni furono risarciti da tutti i ragazzi delle Classi Quinte del Liceo Bafile, che fu teatro della vicenda.

Il disastro dei Cento Giorni davanti al “Bafile” a Collesapone ha giustamente destato le scandalizzate reazioni della città intera, specialmente di chi, da questo disastro, ha ricevuto danni materiali. Da operatori della scuola, da persone che vivono con questi ragazzi e che con loro trascorrono metà della loro vita, abbiamo il dovere di cercare di capire che cosa stia succedendo. La giustizia farà il suo corso, i responsabili segnalati alle Forze dell’Ordine pagheranno personalmente il loro vandalismo, ma ora sta a noi, dopo il grido di scandalo, a mente fredda, portare all’attenzione dell’opinione pubblica la parola “PERCHÉ”, e proporre qualche chiave di lettura. Partiamo dal principio: per i non addetti ai lavori, o per chi non ha figli in età da Esame di Stato, l’orrenda tradizione dei Cento Giorni viene da decenni mutuata dalla tradizione militare del “Mak pi 100”, la fine del reclutamento. Da che io ricordi questa “tradizione” è stata sempre osservata dagli studenti degli ultimi anni, ed è sempre stata strutturata in momenti diversi e distinti, come le personalità del Dottor Jakyll e di Mr. Hyde. Di mattina, a scuola, il perfido Hyde lancia sberleffi e atti più o meno vandalici agli insegnanti e agli studenti “che restano in galera”. In tarda mattinata subentra il Dott. Jakyll: una ripulita e via, il bravo ragazzo va al Santuario di San Gabriele, per il rito della benedizione della penna con cui scriverà la prova d’esame. Poi torna Mr. Hyde, con la scampagnata a suon di arrosto abbondantemente annaffiato per tirare su il morale. A cena torna Jackyll: i ragazzi, belli e in tiro, lindi e pinti, compunti e corretti, giacca e cravatta i maschi, tailleur e tacco-15 le femmine, con garbo ed eleganza accolgono i loro insegnanti (specie quelli che saranno i membri interni all’Esame di Stato) presso locali elegantemente predisposti, con un menù di prim’ordine. Ci saranno scambi di regali, poesie, rime e canzoni in linea con le materie scolastiche. Dopo cena inizierà la fase top-secret: ballare fino all’alba, e nessuno di noi sa più nulla di questo, né vuole saperne. Così è sempre stato, così si è consolidata nel corso degli anni una tradizione che la mia generazione non ha vissuto e che pertanto tollera con un’alzata le spalle, sbuffando e aspettando che “passi”, come una malattia esantematica, come ha aspettato che passasse il morbillo, o la varicella, quando erano piccoli. Così è sempre stato, dunque.

Ma quest’anno, il primo dopo la “pseudo-normalizzazione”, è successo qualcosa di nuovo.
Negli anni passati, le dinamiche Jackyll-Hyde erano identiche: stessi trattori, stessi lanci di uova, stesse balle di fieno, stessi boccioni di vino, stesse galline portate al guinzaglio. Abbiamo forse dimenticato le vetrine dei negozi del centro storico, fracassate dagli studenti delle scuole del centro, qualche anno fa? Noi docenti vivevamo la mattina dei Cento Giorni col terrore: le nostre macchine incartate nella carte igienica, la farina battuta con l’acqua sul parabrezza, i bigliettini non proprio amorevoli lasciati sotto i tergicristalli. E allora? Dov’è la differenza? Che cosa è successo? E’ successo che prima, ogni scuola “passava la sua varicella” nella propria camera: gli studenti rissavano e strafacevano nel PROPRIO cortile, il Carnevale dei maturandi si assurgeva a protagonismo davanti ai PROPRI compagni, quelli di ogni giorno. Quest’anno, invece, l’appuntamento è stato a Collesapone per tutti i maturandi dell’Aquila. Già tempo prima stava succedendo qualcosa. I ragazzi del polo di Collesapone si sono aggregati, e da tempo si sono contrapposti a quelli del “polo” di Pettino. Diciamo che i pianeti L’Aquila Est/L’Aquila Ovest, già da qualche tempo si guardavano di sottecchi. Alla prima occasione di gridare “E’ qui la festa?”, la situazione è sfuggita clamorosamente di mano a tutti. Si è “combattuto” al cortile del Bafile, e i carrelli della spesa servivano a portare le munizioni sul luogo della battaglia. Significativo il tipo di munizioni, adeguato all’era post-sismica: quest’anno brillavano 32 (trentadue) estintori sottratti (mi dicono) al Progetto C.A.S.E., e il cemento (sic!), al posto dell’innocua farina. Devo interpretare, o ci si arriva facilmente da soli? La lettura che propongo è la seguente. Scarso o nullo senso di appartenenza. Refrattarietà ad adeguarsi ai nuovi equilibri di dispersione sul territorio. Opposizione in poli. Inasprirsi della competizione. Emergere di problematiche sociali (polo di Pettino significa Liceo Classico, polo di Collesapone significa Scientifico ed Istituti Tecnici). E poi desiderio di superare il decentramento. Desiderio di fare tanta più baldoria quanto più si è repressi. Desiderio di esplodere. Desiderio di divertirsi appena capita, ma con premeditazione, meticolosa preparazione fin nei minimi dettagli. Troppo rare le occasioni di divertimento per i ragazzi all’Aquila. E credetemi, sono sempre loro, sono gli stessi, sono i nostri ragazzi, quelli che abbiamo cresciuto, quelli che hanno spiccato gli estintori dalle C.A.S.E. non sono i figli del vicino di casa, non sono i figli degli altri, sono proprio i nostri figli. Quelli che prima del terremoto giocavano a Ji guerrieri de ju Torriò, e che invece adesso si ritrovano senza volere a giocare proprio a Gangs of New York, dando voce inconsapevolmente a un disagio prima lontanissimo dalla nostra piccola realtà provinciale. Possiamo gridare allo scandalo, stupirci della loro immaturità. Anzi dobbiamo.

Ma subito dopo, da adulti maturi, abbiamo il dovere di comprendere, per aiutare a cambiare quello che c’è da cambiare. Io credo che inconsapevolmente tutta questa violenza sia dettata dalla difficile situazione esistenziale della nostra città, ma anche da un’ansia più generalizzata. Tra cento giorni, dopo gli esami, inizierà il loro percorso di vita vera. Finora li abbiamo seguiti e coccolati, protetti e tutelati anche dal terremoto. Tra un po’, lì fuori, dovranno avanzare con il coltello tra i denti. Circostanza che certamente non li giustifica, ma che potrebbe spiegare la loro voglia indescrivibile di cretineria.

Noi adulti siamo mortificati da quanto è accaduto. Pagheranno solo i ragazzi del Bafile? Pagheranno anche gli altri? Puliranno il cortile? L’ultima lezione va data.

Purché linciare, punire, gridare allo scandalo contro quei quattro bambacioni che hanno più visibilità e deficienza degli altri e che dovranno come sempre prendere la lezione in vece di tutti gli altri, finti innocenti, gli altri che hanno saputo nascondersi bene, non sia un modo per evitare, ancora una volta, di mettere a fuoco i problemi veri, quelli che devono essere risolti.

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DIECI PROPOSTE PER GLI ADOLESCENTI AQUILANI

“…Certo, magari a diciassette anni
speri che le tue domande siano qualcosa del tipo
‘Che università prenderò? Che combinerò nella mia vita?’
Se sei, poi, in vena di filosofie, ci metti anche qualcosa tipo:
‘Che ci sarà dopo la morte?’ Oppure, che ne so,
‘Come posso dare un senso alla mia esistenza?’
Poi, in un istante, cambia qualcosa.
… è l’urlo della terra”.
(da: “Centesimo giorno”, di Filippo Iapadre)*

Come vivono gli adolescenti tra i 14 e i 19 anni, in una città senza i vecchi punti di riferimento?

I ragazzi di quest’età sono cresciuti all’Aquila com’era, e avevano appena consolidato le proprie conquiste, quando all’improvviso è venuto meno il textus, il tessuto relazionale. Come tutti noi, questi ragazzi avevano acquisito prevalentemente in centro storico le coordinate essenziali della loro identità collettiva ed etnologica, quella parte del sé che scherza, parla in dialetto, si schernisce, si relaziona per strada, va al cinema, fa musica, saggia i propri limiti e quelli sociali. Come vivono ora?

Possiamo dire con assoluta certezza che quel tessuto appena conquistato è stato sostituito. Ovviamente quello nuovo non ha lo stesso spessore culturale del precedente e non garantisce gli stessi risultati, ma tutto ciò ai ragazzi non interessa. Loro vanno avanti: il loro istinto diciamo così primitivo li spinge a sopravvivere. Davanti a un problema troppo più grande di loro, a meno che non siano espressamente incitati e stimolati, o vivano un ambiente familiare engagé, sopravvivono.

Bisogna riflettere su alcuni dati di fatto: gli adolescenti non godono dei trattamenti di favore riservati agli studenti universitari (sconti, tesseramenti gratuiti), non sono autonomi negli spostamenti, non votano, con tutto ciò che questo comporta, e pagano caro, con i soldi di papà, tutto quello che vivono e che a loro interessa. Insomma, un diciassettenne, che “non è più” qualcosa e “non è ancora” qualcos’altro, non si sente proprio bene quando, uscendo, si chiude alle spalle la porta di casa. Ovvio che, nel migliore dei casi, si metta le cuffie dell’I-Pod e inizi il trip verso lidi lontani.

Dunque, la maggioranza degli ingrati adolescenti, figli degli ingrati aquilani, summa delle ingratitudini, ha imparato da Internet un messaggio elementare: “Ignora”. Si condividono tra loro e ignorano tutti gli altri e i nostri non sappiamo. Quanto di quell’ ”ignora” riesca a non ferirli, non è dato sapere, ma, come si dice, ci si abitua a tutto, e loro ci si sono abituati. Ben pochi trovano la forza e la capacità di raccontare i loro pensieri.

Guardate insieme a me la meravigliosa fotografia di Denis Suvorov (17 anni), che allego a questo scritto: non vi dice niente? L’ombra di sé va “Oltre” il disagio sociale, salta la staccionata, vola oltre le C.A.S.E., le braccia protese, nera, notturna, un sogno intoccabile di fuga, un superamento proiettato in un’immagine. Ragazzi vuoti? Non sembra proprio. Perdiamo il tempo a volerli diversi da come sono, li vorremmo più grintosi, e vediamo la loro non-partecipazione alla NOSTRA ricostruzione come imbecillità, sciocchezza, pochezza culturale. Poi, quando scrivono, ci lasciano senza parole. “…Ti chiederai quanti anni dovranno passare prima che, di quelle mura, scompaiano anche i ricordi. Quanto, prima che non riuscirai a ricordare come erano in origine, come erano esattamente, il loro colore, l’edera che le scalava… anche, semplicemente, la loro forma. Ti chiederai se sarai in grado di descriverle ai tuoi figli”….

Dovremmo riflettere sul fatto che i nostri ragazzi non sono come tutti gli altri del resto del mondo, perché oltre alle solite domande e alle solite paure dell’ età, loro hanno anche QUESTE domande e QUESTE paure, chiuse nella loro testa: cercano risposte, cercano qualcosa che li tranquillizzi.

Al momento, non sempre si attinge ai professionisti della materia per parlare loro di legalità, e l’unica cosa che alla fine risulta chiarissima è che di legalità “si parla”. Altro errore diffuso e incomprensibile è che non ci stiamo affidando ad esperti, non consentiamo che i fatti sociali vengano letti da un sociologo o da un antropologo, lo lasciamo fare a chi non è del mestiere, sicuramente illuminato dal buon senso comune, ma non esperto al punto da trovare soluzioni che non siano sbrigative. L’uomo della strada cerca analisi che “chiudano” il problema in termini comprensibili e dunque non ansiogeni. Purtroppo non è la pratica genitoriale che garantisce la competenza in tema di problemi educativi o formativi. Ne derivano letture approssimative, grossolane, con soluzioni altrettanto approssimative e grossolane. Sarà per questo che i ragazzi più attivi, quelli che hanno gli strumenti intellettuali per farlo, stanno cercando aiuto fuori dall’Aquila, addirittura fuori dall’Abruzzo, per “sensibilizzare a quella che è la reale condizione della gioventù aquilana” (cito dalla dichiarazione di uno studente). La nostra collettività si è accorta che i ragazzi dopo due anni si sono “stancati di tavoli tecnici e di promesse mai mantenute” (stessa fonte)? Non dovremmo limitarci a delegare la scuola e scrollare le spalle, perché la scuola attraverso i progetti li impegna e li fa esprimere, indica, segnala i loro bisogni, ma non può gestire il loro tempo libero, è la comunità che deve farlo, avendo a cuore la loro sicurezza. “Pensare a studiare” non può essere considerato una forma di prevenzione, perché studiare è un punto di arrivo, non un punto di partenza. Se non ci sforziamo di indirizzare la loro esuberanze, curando il senso di appartenenza, creando luoghi adatti a loro, e soprattutto coltivando un’idea di città in cui possano riconoscersi e in nome della quale possano impegnare il loro futuro, presto andranno a cercarsi un altro contesto, perché senza il senso di appartenenza alla civitas l’Uomo che è in loro vivrà una vita minore.

Le proposte che vado a formulare per una città che abbia a cuore i propri ragazzi sono queste:

1) Concedere loro alcuni spazi di aggregazione libera e gratuita, ora, prima dell’estate, subito, e in questo senso mi riaggancio a quanto ebbi a dire lo scorso anno con l’articolo Il
terremoto degli adolescenti: dopo un anno le condizioni sono rimaste le stesse. Questa richiesta emerge forte e chiara da tutte le attività condotte nelle scuole superiori, dal Progetto del Bafile, L’Aquila 2019 a quello Regionale, Partecipi-AMO. In fondo non è una grande spesa pensare a un maquillage per zone raggiungibili e familiari, tipo Piazza d’Armi, tipo Parco del Sole, con qualche stand, qualche zona musica, zone di cucina etnica, zone wifi, magari con la ronda del poliziotto di quartiere, che consenta a tutti di sentirsi tranquilli, oppure ronde di volontari anziani, pensionati, per abbinare il discorso “anziani inutili” e avvicinare generazioni diverse.

2) Potenziare i collegamenti, creare o valorizzare l’esistente: i ragazzi non vogliono dipendere dai genitori per raggiungere posti di svago, chiedono di pagare i biglietti dei trasporti, pur di avere un servizio funzionale ai loro orari e ai loro bisogni di relazione.

3) Favorire centri dove andare a chiacchierare, a leggere fumetti, a fare musica e cineforum. Migliorare la qualità della vita di chi è destinato a restare nei nuclei abitativi chissà per quanti anni. Modificare l’esistente, come un albero che, per quanto brutto, ci sia cresciuto nel giardino, continuando tuttavia a curare “la casa” dove dovremo tornare, il centro storico.

4) Costituire presso ogni scuola superiore delle associazioni di ex-alunni: ingegneri, economisti, bancari, agenti di commercio, avvocati, costruttori, medici, docenti universitari potrebbero avvicinare i ragazzi, raccontare le loro esperienze, com’era L’Aquila ai loro tempi. Insomma, investire di più su di loro (in tempo e denaro) e lamentarsi di meno.

5) Le stesse associazioni di ex-alunni potrebbero promuovere borse di studio per il migliore studente in specifiche discipline, perché non sempre chi ha la media più alta è il migliore in una materia. I premi attuali puntano su un merito scolastico che alla fine coincide con una buona condizione familiare di partenza, e non va a incentivare le attitudini.

6) Inventarci stage di formazione, magari solo per i neo-maggiorenni, che diano qualifiche specifiche in ambito del commercio e del turismo. I ragazzi sono pieni di idee, riuscirebbero a vendere perfino le macerie.

7) Tentare l’esperimento, già ben avviato in realtà urbane del paese, dello Junior-Sindaco, eletto dagli studenti delle Scuole Superiori, che si faccia portavoce delle idee e delle istanze giovanili per la città futura.

8) Creare istituti specifici all’interno degli enti locali, che entrino nelle scuole durante le assemblee di classe e di istituto e valorizzino i Decreti Delegati, che ormai sono ritenuti da
tutti gli operatori una “perdita di tempo” e che invece costituiscono sempre il migliore esercizio di democrazia e di partecipazione attiva degli adolescenti alla cosa pubblica.

9) Dare un esempio di dibattito serio: invitare sociologi, antropologi, esperti che li aiutino a razionalizzare i fatti che accadono e a seguirli. Gridare di meno, usare meno reticenze, essere chiari, diretti: “Questo si può realizzare, questo non si può realizzare”. E poi farlo. Non promettere se non si potrà mantenere.

10) Umilmente, ogni tanto, interpellare anche gli insegnanti, che – è vero – non sono sociologi, non sono psicologi, non sono pedagogisti, non sono neanche assistenti geometri, però non hanno pretese, non sporcano, e hanno su tutti un grosso vantaggio: conoscono gli studenti uno per uno, e non li vivono come un’unica faccia da schiaffi.

E lascio a Filippo l’ultima parola:

“… Tutto è esattamente il quantitativo di cose che puoi perdere.
E può succedere da un momento all’altro, letteralmente, in pochi secondi.
… Sono passati cento giorni da quando le mie domande si sono moltiplicate…
Cento giorni che vivo facendo finta di niente, in loro inevitabile compagnia.
E, dopo cento giorni, ancora non ho sentito né letto nessuno
che, davvero, potesse convincermi”.

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NB: le citazioni del racconto di Filippo Iapadre sono tratte dal libro “Immota Manet”, Iapadre Editore, L’Aquila, 2009. La foto di Denis Suvorov, “Oltre”, ha vinto il Premio della Critica al concorso fotografico “A.Bafile” (maggio 2011).


DE INCURSIONE CIVICA

Il racconto è la storia di una violazione di transenne. Ecco perché la premessa.
 
 

ATTENZIONE: QUANTO QUI NARRATO E’ DA CONSIDERARSI RACCONTO DI FANTASIA. ENTRARE IN ZONA ROSSA E’ INFATTI UN REATO PERSEGUIBILE.

 

“Non ho mai infranto deliberatamente la legge in vita mia.

Le leggi tutelano i cives, le leggi sono espressione di democrazia. Le leggi sbagliate devono essere cambiate dai cittadini che in esse non si riconoscono, con gli stessi strumenti che quelle leggi hanno emanato. La testa mi ripete tutto questo, ma stavolta non ce la faccio. Annalisa mi dice: “Andiamo”, e qualcosa nei piedi non riesce a fermarsi, qualcosa nei piedi mi porta senza che la testa riesca a fermarli. Quel qualcosa nei piedi mi porta e non riesco a dire di no, come ho fatto finora. Le leggi tutelano l’incolumità dei cittadini, ma io ora non voglio essere tutelata, la mia salute ha ora un’altra priorità, e la priorità ora è VEDERLA. E’ passato troppo tempo, lei mi manca. Voglio passare dove prima passavo, voglio camminare lì in mezzo, mi manca, mi manca come l’aria buona, mi manca come un pomeriggio di shopping tra i vicoli antichi, mi manca come la biblioteca, mi manca come la sala Patini, mi manca come il pane uscito dal forno, mi manca come una vita precedente. Mi manca. E i piedi vanno, come portati dai pedali di un bicicletta in discesa. Gli occhi vogliono vedere, le mani vogliono toccare. I miei concittadini lo fanno da sempre, voglio farlo pure io. E’ il mio turno, e mi va di raccontare com’è. La pioggia torrenziale di questi giorni avrà fatto altri danni, starò attenta ai balconi e ai cornicioni, non posso farci niente, e più cammino più aumento il passo, il cuore è già dentro. La transenna lascia un varco giusto per infilarsi, chissà in quanti l’hanno varcata prima di me e quanti lo faranno dopo. Basta, è fatta, sto dentro.
Vengo ingoiata dal buio, uso la luce del telefono. Lei è morta, sventrata, puntellata come il cadavere del capo di una tribù italica in battaglia, sostenuto sotto le ascelle per incutere coraggio all’esercito, timore al nemico. E’ incazzata. E’ nera di rabbia, o così io la “sento”. Le strade sono pulite, le macerie sono ammucchiate ordinatamente in piccoli punti di raccolta. Sarà piena di veleno per i topi, immagino, oltre che di ethernit volante. Esploriamo una piccola zona. Sto meglio. Come quando vai al cimitero, è una cosa che non serve a niente ma se ci vai ti senti meglio, ogni tanto devi farlo, per te. Un piccolo giro, sapevo già tutto, ho visto tante foto, ma toccare è altro, non si manda qualcuno al cimitero al posto nostro.
“Ok, il giro è finito, usciamo, dai…”. L’ultimo flash della macchina fotografica… Troppo sparato, si vede lontano un miglio… Ci beccano. “ALTOLÀ!!!!!”. Da lontano, qualcuno grida. Restiamo impietrite. “Porc…Ecco fatto. Ci vanno tutti, ma beccano solo me, porca miseria”. Ci giriamo lentamente, scena vista in tanti polizieschi, tanto ormai qua è tutto un film. Da lontano, una torcia puntata sulla faccia. “Fermatevi!” tono secco e deciso, ma non da far paura. Pensiamo: “E chi si muove?”. Si avvicinano. “E’ fatta, una denuncia, che vergogna, è la mia fine. Ma venderò cara la pelle, farò una crociata che se la ricordano a vita, mi incateno ai cancelli del Tribunale (ma dov’è il Tribunale?) mi incateno al Comune (ma dov’è il Comune?) mi incateno all’Aquilone.. (azz… all’Aquilone???), insomma da qualche parte mi incateno e mi lascio morire di fame…”. Tutto questo mi vortica nella testa mentre loro si avvicinano. Li vedo: due ragazzini in mimetica, avranno vent’anni, mi sento ridicola, giocare a guardia e ladri, una signora attempata che infrange la legge, ma non ho la minima paura, sento la città pronta a sostenermi, le carriole mi difenderanno a spada tratta, Santa Carriola del Presidio proteggimi, dirò 3.32 preghierine…. I due ragazzi mi fanno tenerezza, chiedono scusa, bene educati, quasi mortificati per quello che sta succedendo. “Perché non vi siete fermate prima, al posto di blocco?” “Ma quale posto di blocco?” “Ah, allora non eravate voi” dice uno, rivolto più al collega che a noi, un po’ preoccupato. Mi viene in mente un flash di fuggi-fuggi di aquilani che girano come topi, infilandosi nei vicoli a destra e sinistra e ‘sti poveri ragazzi che li inseguono, investiti del doloroso ufficio della pubblica incolumità.
“Documenti”
“Non li portiamo dietro, stanno in macchina”
“Andiamo in macchina allora. Non lo sapete che è pericoloso stare qui?”
“Sì”
“Non lo sapete che ieri è crollato un balcone?”
“Sì”
“Non lo sapete che ci mettete nei guai?”
“Sì”
“Non lo sapete che dobbiamo proteggere dai saccheggiatori?”
“Sì”
“Siete dell’Aquila?”
“Sì. E dobbiamo rivederla, ogni tanto”
“Lo capiamo, ma non si può”
“Ma si deve”
“Se non siete dell’Aquila sono guai per voi”. Il ragazzo verifica la residenza.
“Bene… Siete fortunate perché siete dell’Aquila!”
“Eh… Che culo?”
Ridiamo.
Ci lasciano andare dopo un cicchetto.
Dentro, il cuore che dice: “A domà”.

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Tom Petty – Maty Jane last dance

IL DIALOGO DEGLI ADOLESCENTI CON LE ISTITUZIONI


Riporto qui il mio contributo al Convegno
“Rischio e resilienza negli adolescenti esposti ad eventi traumatici – 10/11 Ottobre 2011”
(Pubbl. su “Quaderni dell’Osservatorio sulla devianza minorile in Europa”
– Centro europeo di studi di Nisida) http://cdn.ais-sociologia.it/uploads/2011/09/seminario_AQ3.pdf

La fase dell’emergenza è finita: dopo due anni e mezzo si parla di resilienza, di ritorno alla normalità. In qualità di insegnante ho preso più volte pubblicamente una posizione precisa in merito alle necessità degli adolescenti aquilani, ma alcune mie previsioni sono state smentite dai fatti. Dissi, nell’estate 2010, che i ragazzi si sarebbero adattati nelle periferie, si sarebbero abbrancati in modo scomposto e avrebbero popolato nuove zone, creato nuovi equilibri, si sarebbero inventati nuovi divertimenti. Ma così non è stato: la città dei ragazzi è sempre una città parallela rispetto a quella degli adulti, ed essa ruota come un satellite intorno ad alcune stelle fisse che hanno caratteristiche sempre più globali. La generazione del “be hungry, be foolish” ruota intorno a ciò che più di tutto porta una boccata di ossigeno e di apertura mentale alla città intera: la vita degli studenti universitari. E gli studenti universitari hanno deciso che nessuna periferia vale un centro storico, se pure disastrato, se pure a cumuli di macerie, se pure chiuso quasi per intero. Sulla scia di queste abitudini universitarie, anche gli adolescenti si incontrano nei pochi nuovi/vecchi locali del centro, neanche a loro importa la scenografia post-atomica: prendono il loro drink, lo consumano nella zona antistante il locale stesso, una piazzetta, una strada, e lì parlano, ascoltano musica, fanno quello che fanno i giovani, finché alcuni escono dalle righe, bevono troppo, fanno danni, lanciano bottiglie contro i muri, smaltiscono i postumi fisiologici del troppo bere nel primo angolo o portone che capita, suscitando il giusto risentimento dei pochi che in quella zona sono riusciti a rientrare e vi abitano. Il fatto ha acceso un pesante dibattito cittadino, e la soluzione trovata è quella di non consentire l’ulteriore apertura di locali in centro storico. A questo punto c’è da chiedersi: ci interessa davvero la capacità di resilienza dei nostri ragazzi? I nostri ragazzi sono “normali”, sani e pieni di vita, pure in una condizione depressa come la nostra, pure con genitori schiantati e famiglie a pezzi. Ma siamo proprio sicuri che ci interessi quello di cui realmente hanno bisogno? Da profana, da semplice insegnante a cui sfuggono i meccanismi scientifici del processo di resilienza, mi chiedo: questa dei ragazzi va considerata come capacità di reazione? E’ un’energia che va assecondata, o è un fiume a cui vanno creati degli argini? E in questo caso: come fare per incanalare quest’acqua scomposta, come fare per non creare, al posto degli argini, dighe che generino ristagni paludosi? E’ possibile una resilienza dei ragazzi che sia imposta dagli adulti per modalità e direzioni? Chiudere una strada senza indicare un’alternativa alla strada chiusa, che cosa genera in una mente in età evolutiva? Daniel Pennac diceva che solo due verbi non possiedono l’imperativo: il verbo AMARE e il verbo LEGGERE. Non si può ordinare a nessuno né di amarci, né di leggere un libro. Io aggiungerei anche il verbo “resilire”. Non possiamo imporre il nostro modo di reagire, non possiamo negare il loro, senza quantomeno ascoltare, senza offrire una alternativa. E mi chiedo: il “No e basta” è uno di quei “no che aiutano a crescere”? E vengo dunque alla mia proposta: noi qui all’Aquila potremmo avere un modo privilegiato ed esclusivo per rafforzare la fiducia che i ragazzi hanno nello Stato e nelle istituzioni. I ragazzi apprendono dal fare oltre che dallo studiare, e fare democrazia vuol dire concedere loro degli spazi in sicurezza, spazi adeguatamente gestiti da facilitatori di iniziative. La scuola fa quanto è possibile, parla di normalità, parla di valori e sentimenti solidi e costruttivi, dirige il vortice emozionale degli adolescenti, canalizzandolo. Ma mi sento di dire che questo non basta: abbiamo una grande occasione qui all’Aquila, dettata proprio dall’emergenza e dal rischio. Non basta riempirci la bocca di celebrazioni per i 150 anni, non può passare il messaggio di uno Stato esattore che delega altri nel momento del bisogno. Senza entrare nel merito delle recenti vicende di cronaca locale legate a questo problema, noi siamo qui, noi siamo lo stato, noi siamo la città, noi facciamo il nostro lavoro, anche noi ugualmente terremotati e proprio perché terremotati. E vengo al punto. Contrariamente a ogni previsione, i ragazzi la città non se la scordano, inutile provarci, non se la scordano e basta: e non se la scordano ancora di più i ragazzi dei paesi e delle periferie, rispetto a  quelli che abitavano in centro storico e che adesso magari hanno trovato nuove esperienze e nuovi vantaggi nella vita in campagna. Io li vedo, parlo, discuto con loro. I ragazzi dei paesi trovavano nella città l’unico trampolino possibile che potesse sollevarli dal campanile. E mentre quelli della zona rossa “si godono” (si fa per dire) ora la campagna e quando si annoiano praticano escursioni settimanali sistematiche a Roma e a Pescara, centri che non solo non negano loro il vantaggio della città, ma addirittura offrono più occasioni di prima, trattandosi di città ben più ricche rispetto a quanto non fosse L’Aquila prima del sisma, i ragazzi dei paesi, quelli che hanno difficoltà ad allontanarsi e a muoversi, non hanno più nulla, e rivogliono l’Aquila, perché una città significa qualità, cultura, scambio di mode e pensieri diversi. Le due realtà, STRAPAESE e STRACITTÀ, devono esistere in assoluto dialogo e scambio reciproco.

Vorrei chiudere con la parole del Presidente Napolitano, pronunciate pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno scolastico al Quirinale: il suo discorso sembra calzare in modo impressionante a noi aquilani: “Penso che nelle vostre case (per noi, leggi: C.A.S.E., con i puntini) il peso delle difficoltà si sia fatto sentire. Voglio esprimere l’augurio che il nostro incontro l’anno prossimo si svolga in condizioni migliori di quelle in cui ci troviamo oggi, ma perché questo accada bisogna essere in tanti a fare ciascuno la sua parte.” E poi, rivolgendosi ai ragazzi, Napolitano dice: “E voi, RICHIAMATE TUTTI NOI AL DOVERE DI DARVI LA SPERANZA”. Parole straordinarie, parole di fuoco: prima un appello agli adulti, a chi ha potere, ma poi un appello anche ai ragazzi, perché si sentano ascoltati dalle istituzioni e proprio per questo riescano a farsi attori, protagonisti, portatori di istanze concrete, senza arrivare né a pretese arroganti, né a rinunce frustranti. Ma tutto questo può avvenire solo se essi verranno realmente ascoltati, attraverso un dialogo istituzionale autentico e costruttivo.

Foto di DENIS SUVOROV

 

 

PIU’ FORTI DEL TERREMOTO

Questo articolo è stato pubblicato
dal giornale nazionale della Gilda degli insegnanti
nell’Aprile del 2011.
Racconta il modo in cui gli insegnanti aquilani hanno vissuto l’immediato dopo-sisma.

Aprile, il più crudele dei mesi, all’Aquila è più crudele che altrove.
Due anni dopo il sisma del 6 aprile 2009, abbiamo forse la lucidità per raccontare le cose con una certa distanza, senza retorica da adrenalina e senza il dolore della ferita che sanguina. E raccontare ciò che è stato ci riempie di orgoglio: la scuola aquilana si è fatta pilastro, colonna, protezione civile.
Ha militato nelle tende, nelle scuole della costa, ha ricreato comunità, ha concluso l’anno scolastico regolarmente, col dolore della morte di alunni e colleghi scritto sulla faccia, in un grande esempio di civiltà e di capacità di reazione.
L’umile lavoro dei docenti è diventato “servizio” in senso ben diverso dal solito, senza gli onori della cronaca riservati ad altre categorie e senza la possibilità di smentire l’immagine di un’Aquila “meridionale e piagnona” che pretendeva assistenza negli alberghi. Gli insegnanti aquilani hanno riaggregato i ragazzi dovunque si trovassero, dando fondo a tutta la loro forza d’animo. Splendida, sì, l’organizzazione dei C.O.M. (Centri Operativi Misti) e dell’Ufficio Scolastico, bisogna dirlo, ma chi ha militato in prima linea senza casa, senza vestiti né libri, senza città, nella mortificazione di una città che non era la propria città, di una scuola che non era la propria scuola, sono stati gli insegnanti.
Gli sfollati aquilani hanno inserito i propri ragazzi nelle scuole ospitanti, per lo più città della costa abruzzese. Si girava, in quel periodo, a cercarsi l’un l’altro, si vagava nelle classi a cercare le nostre facce spaurite. Spesso i Dirigenti locali hanno ricreato piccole classi di alunni aquilani, dove docenti aquilani tenevano insieme i pezzi di una comunità in diaspora. Chi ha scelto di non allontanarsi dalla città ha fatto servizio nelle tendopoli: le maestre hanno allestito laboratori semplicemente mettendo in circolo bambini, e con forbici e scatole di cartone, costruendo, disegnando mattoni, muri, case, in una istintiva, commovente compensazione immaginaria della terribile distruzione. I docenti delle scuole medie hanno portato libri, quando li avevano, per far ascoltare, leggere, scrivere, condividere, spolmonandosi, sbracciandosi. I colleghi degli istituti superiori hanno richiamato i ragazzi grandi alle loro responsabilità, tenendoli inchiodati ai loro compiti, dirigendoli verso l’Esame di Stato, verso la vita futura, continuando a parlar loro di tappe, di organizzazione, di vita, per superare il disorientamento e lo sbandamento. La scuola aquilana ha tenuto insieme le famiglie ovunque si trovassero, ha sostenuto grandi e piccoli, ravvivando in loro l’amore per la città ferita, il senso di appartenenza al territorio dei padri, e richiamando in modo energico all’accettazione di quanto accaduto e al suo equilibrato superamento. Anche durante l’anno scolastico successivo al sisma i docenti delle scuole aquilane di ogni ordine e grado hanno attivato fondamentali progetti di sostegno, come solo gli insegnanti sanno fare: con una delicata e incisiva arte maieutica hanno “impegnato” i ragazzi nel quotidiano, insegnando loro che dopo un disastro del genere si reagisce ’ngrufando, come si dice all’Aquila con espressione rugbystica, cioè restando testardamente al proprio posto, al proprio banco, al proprio dovere, nella mischia, ovunque sia la mischia, anche lontano dalla propria città, insegnando ad inserirsi silenziosamente e attivamente, restando legati alla memoria e alla storia.

E’ qui che emerge, in tutto il suo splendore, il valore della scuola pubblica: LA SCUOLA PUBBLICA RESTA. Non scompare con disinvoltura per seguire il flusso del denaro e ricomparire due anni dopo, “a cose fatte”, a comunità ricreata, a vita più o meno apparentemente ricominciata. La scuola pubblica assiste ai disastri, similmente alla protezione civile, ci mette del suo, in termini di energie, di responsabilità, di amore per il proprio lavoro, di buona volontà.
Gli insegnanti aquilani, così poco celebrati, per nulla saliti agli onori della cronaca, come invece è toccato ai politici, agli imprenditori, ai giornalisti, perfino ai parroci, hanno militato in silenzio ed umiltà, come hanno fatto anche i medici, gli infermieri, i Vigili del Fuoco.
Categorie “socialmente utili” di cui nessuno si ricorda, se non con un “bravo” subito dimenticato, magari sotteso a un risolino di compatimento: ciò che fanno è considerato dovuto, sono “pagati per questo”. Ciò che gli insegnanti aquilani hanno speso in termini di energia emotiva, di passione, di forza d’animo, è stato fondamentale per la città ferita.
Davanti alle disgrazie gli insegnanti ci sono sempre, lo considerano un dovere morale senza aver fatto giuramenti, senza alcuna iscrizione ad Albi professionali, senza alcun codice deontologico se non quello che sanno darsi da soli, vivendo nelle scuole, che non sono e non saranno mai “aziende”, ma fucine di formazione dove si scambiano pensieri, emozioni ed esperienze, magari ci si confronta con valori diversi, nell’obiettivo di formare adulti consapevoli, che effettueranno scelte consapevoli. Quale prezzo hanno queste doti, messe in campo anche quando si è colpiti in prima persona? La scuola pubblica non si imbosca, lega il passato al futuro, lavora sul territorio e sulla memoria storica, educa al rispetto dei padri e dei padri altrui, coltiva valori collettivi che una società civile dovrebbe imporsi di preservare. Essa ripudia il motto “me ne frego”, e sposa quello di Don Milani, “mi preoccupo”. Le scuole pubbliche italiane si parlano e si confortano: all’Aquila è stata una pioggia di gemellaggi, di raccolte di fondi realizzate da altre scuole di tutta Italia, da Siracusa a Legnano. In una gara di solidarietà, la scuola aquilana ha avuto il conforto di tanti colleghi lontani, di tanti studenti che hanno mandato anche i loro pensieri, i loro scritti, utili a chi li ha spediti tanto quanto a chi li ha ricevuti. Il messaggio sottile è che lo Stato deve esserci, che nello Stato in cui si sceglie di crescere e di convivere bisogna identificarsi, superando settarie divisioni geografiche, etniche e timocratiche.
E’ così che i ragazzi apprendono cosa sia il valore più importante per l’umanità: la solidarietà senza limiti di razza, censo e religione. “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. Valori trasversali, valori che nel in un periodo così pericolosamente pervaso da fanatismi settari si ha il dovere di preservare e tramandare. Valori che non producono guadagno, non sono facili da digerire e sono impopolari. Come il Latino.

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I DUE LATI DELLA STESSA STRADA

Quando Pasquale mi ha chiesto di scrivere qualcosa per l’anniversario del 6 aprile ho pensato subito che non l’avrei fatto. Per me, come per tanti aquilani, ogni giorno è il 6 aprile. E finché non riavrò la mia casa e la mia città, sarà sempre il 6 aprile, non un giorno diverso da quello. Poi ho riflettuto, e ho pensato che il mio modo di vivere il ricordo della città perduta è descriverla, come fanno tanti altri miei concittadini, che parlano, raccontano, come fosse un bisogno irrefrenabile, o l’unica via di uscita da quella che da subito abbiamo capito essere una profondissima palude. E’ tuttora il nostro modo di vivere: scrivere e ricordare.

Ma il 6 aprile io starò zitta, e molti altri aquilani lo faranno.

Scrivo oggi, 3 aprile, perché da domani io starò a casa, accenderò una candela e la metterò fuori dalla finestra, come ho fatto l’anno scorso. Con una candela cambierò il mio avatar su Facebook, come tutti quelli che accenderanno una piccola luce per i 309 morti di quel giorno e per tutti quelli che, dopo quel giorno, per due anni, hanno continuato a morire di dolore, per quelli che dopo quel giorno si sono ammalati, per quelli che ora hanno bisogno di psicofarmaci, che hanno attacchi di panico, che non rivedranno mai più la città.

Il terremoto dell’Aquila è stato la prosecuzione di un destino antico: ha colpito a chiazze, a famiglie. Chi sì, chi no. Chi duramente, chi affatto, anche se comunque ha tolto a tutti la città antica. Nel centro storico, in mezzo alle macerie, alcune case sono rimaste in piedi. Alcune zone di periferie hanno edifici intatti, di fronte ad altri distrutti. Molto spesso è successo che su una stessa strada, il lato destro è stato colpito, il lato sinistro è rimasto illeso. Questa “ingiustizia” fatale, questa cecità chirurgica, quest’agopuntura del destino, sono stati una rovina, perché ci hanno diviso e ci hanno resi deboli. Il sisma ha catalizzato dei processi nefasti. Ci troviamo ora nell’orrida condizione per cui pagherà il prezzo più caro, in vite umane e in denaro, proprio chi è stato più colpito. In queste situazioni viene fuori il peggio, e non perché siamo aquilani meridionali, piagnoni e corrotti, ma perché è scritto nella natura di una società globale che vive una battuta d’arresto, è basata sulla concorrenza, è immatura, incolta: una società che non si è nutrita di libri che coltivassero il valore della pietas, piuttosto ha preferito ad essi i manuali e i vademecum su come si diventa ricchi e famosi. Musil diceva che la Storia procede come una palla da biliardo sul tappeto verde, non c’è una logica, non c’è un avanti o un indietro, c’è solo un gioco di spinte. Ebbene, la spinta prevalente è oggi il denaro. Tutti hanno cercato di lucrare sul povero destino di chi all’Aquila ha perso tutto ciò che aveva. Nemici interni, nemici esterni, spesso nemici antichi, che hanno riso e continuano a ridere. Mai intercettati, volteggiano sulla preda. Come se non bastasse, il terremoto dell’Aquila è divenuto un campo da gioco di contrapposizione politica, una palestra per fare prove di forza e braccio di ferro tra poli opposti, un tavolo per giocare a Risiko. Militanti della politica, vecchie volpi pronte a lanciarsi per menare le mani, gente in cerca di una guerra da combattere, nostalgici di crociate, affaristi, investitori, tutti costoro aspettano. Aspettano…. Quale cielo migliore dell’Aquila? Li abbiamo visti volteggiare, immediatamente, sui cieli ancora pieni della polvere dei muri crollati. Pian piano i loro cerchi disegnati nell’aria si son fatti più stretti. Altri predatori, d’altro genere, sono comparsi più tardi, subdoli, uscendo dai loro anfratti, dai nascondigli, dai cespugli, in branco.

Possono attendere tutto il tempo che vogliono, loro. Noi no.

Non siamo stati capaci di difenderci. Ci è stata scippata la nostra buona volontà, la nostra voglia di lavorare. Le abbiamo provate tutte, con i comitati, con la legge di iniziativa popolare, con i cortei, con le mille forme d’arte che gli aquilani hanno nel sangue, teatro, cinema, letteratura, giornalismo. Abbiamo girato l’Italia, abbiamo raccolto il gesto generoso di tanti che ci sono stati vicini, come gli amici di Napoli, città sorella, che ci ha “adottati” e seguiti, dando prova di grande solidarietà umana.

 Ma ai comitati si sono contrapposti altri comitati, a leggi altre leggi, a crociate altre crociate, come i due lati della stessa strada, quello sano contrapposto a quello rotto.

Eccoci, ora siamo stanchi. Davanti all’intera Africa che esplode, davanti all’intero Giappone ingoiato dal mare, che cos’è L’Aquila, che qualcuno si ricordi di lei? Eppure gli amici di Napoli sono qui, vogliono sapere di noi, si preoccupano dei nostri ragazzi, di come vanno a scuola, se sono contenti, se riescono a studiare su buoni libri pieni di pietas. I nostri amici di Napoli si ricordano, vogliono sapere…

Il pessimismo della ragione mi dice che saremo a lungo in queste condizioni, che la popolazione si dimezzerà, che in tanti se ne andranno scrollandosi la polvere dai sandali. L’ottimismo della volontà mi dice che ci sono persone oneste che fanno il tifo per noi, che ci seguono da lontano con partecipazione e affetto, persone che – impotenti quanto noi – hanno comunque fiducia nel progresso della società civile: quella palla bianca sul tappeto verde prima o poi deve andare in buca, e l’ottimismo della volontà grida che la Storia subisce battute d’arresto, sempre paga tributi terribili di vite umane e di generazioni intere, ma alla fine garantisce un gradino superiore a quello del secolo precedente. E’ toccato a noi, la nostra generazione paga per le prossime quindici: la Storia insegna che in tanti resteranno all’Aquila, tosti e coriacei come giocatori di rugby, a ingoiare la polvere, a dare spallate, a giocarsi la vita qui, perché non c’è nessun altro posto dove potrebbero o vorrebbero essere.

Il 6 aprile, secondo me, questi staranno in silenzio.

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Tom Waits – Wrong side of the road

QUELLO CHE I RAGAZZI NON DICONO

Riflettere sul mondo giovanile significa camminare sul filo di due posizioni estreme, trite e stantie: da un lato quella dei “laudatores temporis acti”, gli elogiatori del buon tempo andato, quelli che dicono “ai miei tempi” e “quando ero giovane io”; dall’altro, quella di chi fa l’imbonitore, di chi crea trappole forse più taglienti, dicendo quanto sono eccezionali i giovani di oggi, così colorati, vivaci, informatici, ultratecnologici, con i loro ipod, ipad, podcast, hi-tech, e li accarezza per vendere illusioni e tenerli con catene anche peggiori di quelle del buon vecchio predicone. Difficile riflettere, dunque.
E quanto più difficile è farlo in un contesto come il nostro. I giovani aquilani, loro, quelli che “poverini”. I ragazzi ce la stanno mettendo tutta, hanno forza e volontà. Leggo i loro pensieri su Facebook, guardo i loro occhi e i loro comportamenti a scuola: sono sempre pensieri di normalità, di accettazione serena di qualcosa di ineluttabile. Gli adulti si dannano, costruiscono scenografie finte, cercano di nascondere tonnellate di macerie sotto il tappeto, e loro invece vorrebbero “esserci”. Vicini alle loro madri confuse dal disordine, ai loro padri sbattuti dalle difficoltà, vorrebbero stare lì, accudirli, sorvegliarli, star loro vicino. Noi adulti non li vogliamo, il nostro passato disneyano ci ha portato a credere di doverli allontanare, preservare dal male. Così loro ci guardano con quegli occhi di rimprovero che in realtà dicono “fatti aiutare”, e noi fingiamo, camuffiamo, diciamo che va tutto bene. Ci guardano, ci assecondano, delusi dalla nostra incapacità di fidarci di loro. Per non scontrarsi con noi si fingono ottusi, dicono qualche sciocchezza, qualche stupidaggine a tavola per farci ridere. Sorvegliano il nostro dolore. Ci spiano.
Che cosa spiano? il nostro agire di gente passata da una città capoluogo di regione alla più infima delle periferie dormitorio. Ci sorvegliano. Compatiscono la nostra condizione e si sentono offesi dal nostro far finta di nulla. Hanno forza e volontà e non hanno dubbi sulle proprie energie. A chi li accusa di non essere portatori di sogni, di progetti, di idee, io dico che a loro non importa se e quando la città risorgerà, a loro importa che genitori, amici e parenti ce la faranno a sopravvivere a questo disastro. Vivono nella paura di perdere i loro affetti, nel terrore che qualcuno si ammali: si guardano intorno, non sono sciocchi, sanno contare. E contano in silenzio padri e madri di amici che, in un modo o nell’altro, pagano fisicamente e psicologicamente un catastrofico tributo al colpo esistenziale del sisma. Lo pagano ora più che allora, perché sono stanchi, e non si accende una speranza di rinascita. Perciò i ragazzi vogliono stare qui. Muti, confusi, ma non abbandonano chi è vulnerabile. E noi a dirgli: “Ma perché non te ne vai a studiare fuori? che futuro pensi di trovare qui?”. Già: quanti sogni avevamo fatto sul loro futuro. Come li vedevamo bene, a sviluppare quello che da due, tre generazioni avevamo preparato per loro! Ma siamo degli sciocchi a considerarli ancora bambini capricciosi che rivogliono il giocattolo rotto. Il loro bel futuro era il “nostro” giocattolo. Sono cresciuti vorticosamente, in un anno mezzo.
E’ vero, c’è tanta gente che si dà un gran da fare per loro: le no-town sono letteralmente assaltate da pubblicità, offerte, sconti, promozioni, corsi di ogni tipo, dalla meditazione zen  il sassofono jazz. Tutti cercano di impegnarli, hanno paura che si sbandino. La solita fiducia sfacciata! Ma loro vogliono soprattutto stare insieme, parlare, trovarsi, ridere, tenendo sempre d’occhio i loro fragili cari. Piovono anche corsi di legalità, di  anticorruzione, antimafia, come se avessimo già delegato loro a ricostruire domani, invece di sorvegliare quelli che stanno ricostruendo oggi. Li carichiamo di un peso enorme, ingiustificato, come alibi alla nostra incapacità, come se la pesante responsabilità di una ricostruzione pulita fosse la loro. I ragazzi più grandi sorridono: gli parliamo di corruzione e il messaggio finale che arriva è “Non fate come noi”. Ma non si apprende forse con l’esempio? L’esempio non è l’unico elemento che mette d’accordo tutte le pedagogie? Non  è forse l’esempio che in-segna (lascia un segno dentro l’anima) come comportarsi? Quale progetto stiamo elaborando che possa essere proseguito da loro? Quali fondamenta alla città stiamo ponendo su cui possano poi apporre uno, due, tre piani di sviluppo? Crescono sentendoci parlare di mazzette, di denunce impunite. Si radica in loro la convinzione che i giochi sono fatti, e che su di essi non c’è nessuna possibilità di intervento. E allora? Ecco il corto circuito dei ragazzi, quelli che poi definiamo “confusi” e passivi.
Mancanza di esempio civile, mancanza di fiducia nelle loro capacità di gestire il trauma post-sismico guardandolo in faccia, senza distrazioni. Queste sono, secondo me, le chiavi di lettura della loro condizione. Ma “evitare i traumi” è stato il motto della nostra generazione, e i traumi sono come le macerie: non puoi fingere che non esistano, e sono difficili da smaltire. Il lutto si elabora toccando, guardando, vedendo quello che non c’è più. Loro “se la vogliono ricordà”, L’Aquila.
“Non vogliamo occupare la scuola” mi dicono tre studentesse rappresentanti di lista per il rinnovo del Consiglio di Istituto, illustrandomi il loro programma. “La riforma Gelmini? Noi ragazzi aquilani abbiamo altri problemi. Vogliamo che quella settimana sia dedicata a girare la Zona Rossa. Vogliamo lezioni sulla storia dell’Aquila. Vogliamo sette giorni per sognarla più bella e funzionale di come era prima. Vogliamo la storia dei terremoti prima di questo terremoto. Vogliamo studiare. Vogliamo incontrare qualcuno che ci racconti il passato e ci dica come stanno progettando la città futura. Vogliamo capire che cosa ha spinto gli antichi a restare, che cosa spinge ora noi a non andare via”.
Questi sono i nostri ragazzi.
Alcuni hanno la forza e la capacità di dare parole al loro dolore. Propongono, dicono, chiedono. Altri, i più, non sempre ci riescono: si crogiolano un po’ nel piacere del  vittimismo, o fanno finta di nulla, o rimandano il problema a domà, o restano chiusi nel consueto mutismo adolescenziale. O seguono, sempre più stancamente, la corrente politica di appartenenza. Magari “occupano” la scuola per vivere quei tre giorni di gloria che lasciano il tempo che trovano.
Poi, tornano muti come prima.
Sono stanchi, a quasi vent’anni, di giocare a “guarda l’uccellino”.

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L’AQUILA SPIEGATA AL MIO CANE

Il testo fu pubblicato su “Terremutate”:
https://www.laquiladonne.com/parlano-di-noi/racconti-da-l-aquila

Carissimo Teo,
da quando il tuo padroncino non può occuparsi di te, tocca farlo a me.
Lo sai che gli animali non sono la mia passione: spelano, pretendono. E soprattutto puzzano.
Quando al colloquio per l’assegnazione della CASA mi hanno chiesto se avessi animali, ho detto subito “NO”, per paura di dover aspettare ancora. Era novembre, era freddo, così ti ho rinnegato, ho pensato di potermi liberare di te. In fondo non mi sei mai piaciuto… A me piacciono i gatti lo sai, non sopporto lo sguardo implorante che avete voi cani. Ma poi non ce l’ho fatta a lasciarti, dopo quello che abbiamo sofferto insieme. Ti ricordi quando eravamo sfollati, e non ti hanno preso in albergo e dovevi dormire in macchina? Una mattina, dopo una bufera notturna, ti abbiamo ritrovato mezzo morto. Corsa al veterinario e diagnosi: “attacco di panico”.
Pure il cane con gli attacchi di panico, mi doveva capitare.
E così eccoci qui. Non ti lascio più, ormai dobbiamo convivere, porca miseria. E non guardarmi in cagnesco: ho dovuto imparare ad accudirti, a portarti a spasso, con tutti quegli strani rituali dei canari (“E’ maschioooo?… ” … “E’ femminaaaa? ”… ).
SGRUNT.
A sera, noi delle C.A.S.E., abbiamo imparato a gestire gli orari, usciamo a turni per non darci fastidio. Ti porto a spasso sul ciglio della strada, con le macchine che sfrecciano vicine. Ma dove altro posso portarti? I viali sono tutti bui, forse dobbiamo risparmiare sulla luce. E’ buio pesto dovunque, tranne che vicino ai centri commerciali. Forse lì la luce la pagano loro. In centro storico ho paura a portarti, c’è il veleno per i topi e lo potresti mangiare. Inoltre è pieno di randagi. Lo so che Piazza d’Armi ti piace tanto, ma la sera è così buio che non ci si vede neanche con la torcia! Inoltre è pieno di randagi. Il Parco del Sole mi fa stare male, è dove c’era la tendopoli, mi dà fastidio perfino passarci. Inoltre è pieno di randagi. Il parchetto di Via Strinella, quello del Torrione e quello del Castello sono talmente sporchi… inoltre (indovina un po’?) ci sono i randagi. La villa Comunale però è sempre bellissima! E’ l’unica zona verde ancora ben curata e illuminata: ci sono i randagi sì, ma anche la gente, quindi non ho tanta paura a portarti lì. Lo so, lo so…. Ti chiedi come mai da due anni non riusciamo a trovare un posticino intorno alla C.A.S.A.. Ma vedi, non mi va di portarti nel cortile, perché lì ci giocano i bambini. E fuori dall’oasi faunistica della C.A.S.A. non c’è nulla, neanche il marciapiedi. Lo sai tu, e lo sanno le persone anziane che girano intorno alla riserva indiana come matti nel giardino della casa di cura. Ma dove portano i bambini a spasso con le carrozzine? Boh. Lo so, ti sembra di stare al Truman show: il segreto è non uscire dalla riserva! Appena ti allontani non c’è nulla, il clima è ostile e ti ricaccia dentro. Ci sono le strade a scorrimento veloce, e le abitazioni di quelli che erano già qui, che (poveracci pure loro) hanno visto confiscate le terre e deturpato il paesaggio dalle CASE.
Ci considerano usurpatori e pezzenti.
Ti ricordi quella tizia autoctona che ti ha lanciato addosso il suo cane autoctono? Alle mie rimostranze ha gridato: “Ma revattene da ddo sci venuta!”….(“Eh… bella mé… Magari!” ho pensato mentre la maledicevo). Da allora giro sempre col bastone, lo sai. L’ho perfino usato sulla groppa di quel pastore abruzzese (sempre autoctono e libero) che un giorno ti ha azzannato al collo. Non potevo crederci! Che mi è toccato fare… io che picchio Cujo per difendere il mio cagnetto!!! Proprio io che avevo paura di tutti i cani del mondo…
Lo vedi Te’, il terremoto ti trasforma, ti cambia, ti fa dire: adesso ricomincio tutto da zero. Voglio essere diversa da prima, voglio essere migliore  di prima. E poi dici anche: voglio una città più bella di prima, che non abbia i problemi di prima, la voglio verde, la voglio a misura d’uomo, la voglio a misura di cane, la voglio comoda, la voglio europea! La voglio. E’ fantastica, Te’, l’opportunità che si offre a una città dopo un terremoto. In nome della storia, in nome di 309 morti.

Lo so, lo so, tu ti chiedi come mai in un anno non sia stato fatto ancora nulla. Ma vedi, Te’, in quest’anno trascorso si doveva litigare un po’, si doveva discutere, studiare! … Te’, gli umani non sono poi così diversi da voi cani. Un bell’osso profumato… Chi la dura la vince, e la dura chi ha i mezzi. Ora ti starai chiedendo la verità della favola della società civile, del pensiero collettivo, delle minoranze, dei deboli, degli svantaggiati…
Ti chiederai dove sono le persone importanti, dove sono gli studi sul dopo-sisma, le rilevazioni scientifiche sulle tossicità, dove sono gli appelli degli intellettuali, dove sono le raccolte di firme dell’intellighentia (non serve una lista da MicroMega hai ragione, non importa chi siano, importa COSA siano) e ti chiederai dove sono le ricerche epidemiologiche, dove sono le associazioni commerciali, quelle robe per le quali c’è un imprenditore che indirizza le azioni dei poveri cristi ambulanti ora tutti alcolizzati (ti ricordi, ce l’ha detto Franca la psicologa), quelle robe che ti possono consigliare il da farsi. E dove sono le associazioni degli psicologi, i report, le denunce degli aumenti di malattie mentali, di dipendenze, di mali incurabili, di stress post-traumatico.

Ebbene sì, Teo: sappi che tutte queste belle cose ci sono! E sono chiuse in qualche cassetto… insieme ai master-plan!!! Di sicuro ne verranno fuori fantastiche  pubblicazioni! Fantastiche pubblicazioni inutili! Oh, però fanno curriculum! Mica capita a tutti un terremoto, bisogna approfittare, è un’occasione servita su un piatto d’argento! Guarda che il terremoto ha restituito vita a un sacco di dead men walking: “i surfisti” sono tutti ringiovaniti! Inoltre, sai Te’, qui conviviamo in modo ben strano: chi ha la propria casa, fresca fresca appena rifatta di mille colori da Stabylo-boss, e chi non ce l’ha più, e vive nel tormento quotidiano (la rivedrò mai? ci saranno i soldi per ricostruirla? se li mangeranno tutti prima? devo vendere? devo svendere?). Viviamo e lavoriamo fianco a fianco! Quelli che hanno il problema di dove andare a fare l’happy hour e quelli che non hanno più né passato, né futuro, solo un orribile presente da accampati. E i primi guardano ai secondi come a dei piagnucolosi rompiballe! Gli danno dei depressi esauriti, gli dicono che la fanno lunga, gli dicono che non si danno da fare, che sono buoni solo a lamentarsi!!! Pretendono le stesse prestazioni lavorative, magari pure di più. Oppure gli dicono “pensa ad altro! non puoi pensare solo al terremoto! vivi la tua vita!”. Vivi la tua vita…. Già: per fartela breve, la legge degli umani è “a chi tocca tocca, ed è toccato a te (per fortuna)”. Poi sui libri ci si scrivono un sacco di fesserie, così, per depistaggio, ma non devi crederci! homo homini canis! Capito?
No. Non hai capito.
Se nasci cagnetto con gli attacchi di panico, certe cose non le puoi capire.
Lascia fare… Vieni qui, giochiamo a Io sono leggenda
Godiamoci la passeggiata.
E il freddo di questo gennaio.
E il sole che spunta, come fosse primavera, pure sopra le C.A.S.E. ..

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LA CRANIATA

Quel malaugurato lunedì vi cade dalla finestra della C.A.S.A. un asciugamano che avete precariamente cercato di mettere ad asciugare alla meno peggio, non disponendo di un balcone. E’ sera, fa il solito freddo, naturalmente piove e così decidete di scendere a raccoglierlo: non vi va di lasciarlo lì, fa squallido, fa degrado. In quel momento pensate che è importante non perdere mai il rispetto di voi stessi, la vostra dignità. Vi sentite buonissimi, in quel momento, davvero delle brave persone, mica solo i Veneti sono brave persone, pure voi Abruzzesi. Una scena commovente, sottofondo di violini e fazzoletto. Scendete le scale, siete soddisfatti, pronti a tutto, in nome della difesa della vostra dignità. E’ sera, fa il solito freddo, naturalmente piove e sapete già che per raccogliere il vostro asciugamano dovrete fare i conti 4 biciclette parcheggiate stese a terra nel ballatoio, inchiavardate al passamano delle scale più o meno dal 19 settembre e fino a data da destinarsi, presumibilmente ferragosto 2011. Piove, è buio, fa freddo e così, nel passare tra le 4 biciclette, inciampate e sbattete violentemente il vostro dignitosissimo e abruzzesissimo cranio a una trave delle scale… …
… … … …(I puntini di sospensione si chiamano OMISSIS e servono a suggerire qualcosa che viene detto in quel momento dal protagonista della storia, qualcosa che l’autore, per qualche strano motivo, non vuole riportare) … … … …… … Al posto dei violini ora sentite le campane e gli uccellini, barcollate, scalpicciate tra i raggi delle biciclette ma restate in piedi come Rocky, non vedete nulla come Rocky, vi viene da dire ADRIANAAAAAAA come Rocky, ma in realtà serrate i denti come Willy Coyote sotto il pezzo di montagna staccatosi dal Gran Canyon proprio sulla vostra testa. Le ruote delle biciclette girano ancora… Zzzzzzzzzz…. Zzzz……Girano anche altre cose, ma voi vi tirate su, raggiungete il passamano e guadagnate le scale. Trascinandovi raggiungete finalmente il portoncino di casa, entrate, vi buttate sulla sedia, togliete la mano dalla fronte … Porc… …. …. … Ghiaccio, alcol, cerotto, letto. Il giorno dopo vi sentite un po’ ubriachi, ma impavidi come Fantozzi dite: “Sentito… NIENTE” e decidete di andare a lavoro. Il corno spuntato sulla fronte esige qualche stratagemma allo specchio: un bel ciuffo di capelli lungo tutto il lato sinistro, matita nera sotto gli occhi. Risultato: sembrate una EMO di cinquant’anni. E in effetti l’umore è lo stesso e le intenzioni pure, manca solo qualche borchia e il CD dei Tokyo Hotel.
E così passate tre giorni in questo stato, facendo finta di nulla e meditando il da farsi. Cercate un colpevole. Oscillate tra il pensiero di un confronto a viso aperto e la ricerca di un killer. La seconda ipotesi vi sembra più praticabile della prima. Chiedete conto a qualcuno della regolamentazione degli spazi comuni del progetto C.A.S.E. e come risposta ottenete la stessa pernacchia di Totò ai nazisti del film “I due marescialli”. Pazienza. Vi dite che da oggi in poi starete più attenti. “Ogni mattina in Africa una gazzella inizia a correre eccetera eccetera”. E corriamo. Giungla. Va bene. Ok.
La domenica successiva vi sentite quasi fuori pericolo, ma prudentemente restate ancora chiusi in casa, giocherellate un po’ al pc. Vi imbattete in 61 commenti di Facebook da parte di alcuni vostri concittadini pruriginosi. Si chiedono se gli abitanti delle CASE pagano le bollette. Si chiedono perché loro sì e le CASE no.
E la vera craniata è quella.
E l’altra che avete dato alla trave non è niente, al confronto.
E non sapete quale delle due sia più assurda.
L’Aquila chiama l’Italia.
“L’Aquila chiama l’Italia.”
Speriamo che chiama pure L’AQUILA.

“CRONACHE ROMANE”

Il corteo è riuscito, L’Aquila ha sfilato, l’Italia pure. A chi ha lottato per l’organizzazione e la buona riuscita del corteo va il legittimo e sacrosanto orgoglio di aver tirato su una macchina colossale. Ed è comprensibile che quest’orgoglio oggi indaghi su chi c’era e chi non c’era.

Ma davvero dobbiamo credere che chi non c’era sia andato “al mare”? Davvero dobbiamo leggere la scelta degli assenti (non dichiarata) come scelta politica? O non staremo regalando a questo fatto, anche solo parlandone, più peso politico di quanto in realtà non ne abbia? Forse non dovremmo attribuire agli assenti una scelta politica: li abbiamo forse visti sfilare da qualche altra parte, o contestare il corteo? La loro presenza “in corpore vili” avrebbe cambiato l’esito di un fatto politico che comunque ha avuto la sua indubbia riuscita? Siamo sicuri che il nostro esserci non sia stato una forma di delega da parte di tutte le persone che non hanno la cultura della partecipazione? Compatirle non serve, prendiamocele invece!

Al corteo c’era chi aveva la forza per esserci. C’era chi aveva gli strumenti culturali. C’era chi ha trovato la forza per rialzarsi e lo ha fatto anche a nome di chi non ce l’ha fatta. C’era chi ha avuto la forza di uscire, chi poteva bagnarsi di pioggia, chi poteva camminare a lungo, chi poteva stare in mezzo alla folla, chi poteva saltare il pranzo, e lo ha fatto per tutti. C’era chi ama vivere il terremoto ogni giorno, perché è un modo per superare la paura, e i modi per superare la paura non sono tutti uguali. C’era chi ha avuto il PRIVILEGIO di esserci. Perché essere nei cortei è un privilegio, partecipare alla democrazia è un privilegio. La coscienza è un privilegio, farsi carico di chi è debole è un privilegio, proteggere chi ha perso tutto è un privilegio. Un privilegio trasversale a tutte le culture politiche e a tutte le ideologie che si sono tradotte in progresso della società civile. Alle carriole va il merito indiscutibile di aver acceso il motore, basta polemiche, la grande macchina della folla è partita. Ora aspettiamo vigili la risposta delle istituzioni. Non restiamo legati alle firme, non lasciamoci abbattere da chi dice “tanto…” solo perché non ce la fa. Andiamo oltre, sogniamo. “Ognuno cresce solo se sognato”, la città va sognata da chi ha la forza di farlo. Il corteo ha parlato a nome di tutti quelli che riescono a guardare lontano, al bene comune, oltre il proprio particulare. E’ anche per questi che c’era chi c’era. A pensare COSA SARÀ, anche per loro.

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UNA RISSA PER IL PERDONO – CARRIOLA SI’/CARRIOLA NO

Questo articolo, insolitamente animato da una feroce polemica,
fu dettato da un episodio verificatosi nel corso della Perdonanza 2010:
le celebrazioni religiose e quelle laiche riservate ai giovani,
troppo “vicine” logisticamente al parco del Sole,
si disturbarono a vicenda, generando per tutti
una situazione di  grave imbarazzo
che fu solo “uno” degli imbarazzi legati a questa celebrazione.
Alludo all’eterno conflitto tra festa laica/festa religiosa, carriola sì/carriola no, addirittura croce sì/croce no…..

Ci sono dei laici che hanno il malvezzo di considerare il cristianesimo come un fatto “culturale”. Questi stessi laici trattano i fatti religiosi alla stregua delle rievocazioni storiche: per loro la Quintana e il Palio di Siena hanno lo stesso significato della Perdonanza celestiniana o dello scioglimento del sangue di San Gennaro. Curiosità antropologiche, singolari stranezze folkloristiche da mettere sulla guida Touring, insieme alla corsa degli zingari o alla sagra della cicerchia. Questi stessi laici guardano con simpatia qualsiasi lontanissimo Imam, o monaco tibetano o Hare Krishna, ma non un cristiano: sono pronti a comprendere un voodoo, che nel loro immaginario si lega a un principio istintivo e selvaggio, più che un voto di povertà. Guardano a ogni rito cristiano come al Carnevale di Viareggio, e si domandano come sia possibile, oggi, credere ancora a Babbo Natale. Fin qui nulla da dire, fa tanto “new age”. Il vero grande torto di certi laici (non di tutti, certo, solo di questi) è l’appropriazione indebita di fatti e personaggi cristiani di schiacciante e innegabile rilevanza collettiva. Il fatto religioso collettivamente rilevante viene laicizzato e rivendicato in quanto “storico”, patrimonio dell’umanità, come se la fede fosse un corollario di quel fenomeno, invece che il suo motore e la sua essenza. Parlano, certi laici, di tale Francesco (San Francesco) o di Lorenzo Milani (Don Milani) o di Pietro da Morrone (San Pietro Celestino), negando con violenza ciò che li fece essere ciò che furono. Il cristianesimo, per questi laici, è un disonore del personaggio, un peccatuccio ideologico, una imperdonabile ingenuità. Vedono il rito e non il mito: ostensorio, mitra e scarpa da baciare. Dimenticano, questi laici, i Zanotelli, i Benzi, i Ciotti, i pretucci di periferia che si battono per sostenere stranieri buttati fuori da una politica sempre più razzista, dimenticano i grandi prelati che cambiarono e cambieranno le sorti di intere città. Di questi preti non si parla in cronaca, si parla a mala pena negli spot dell’8 per mille (e questo non aiuta). Bisogna essere “trendy” e il cristiano non lo è, anzi è fuori moda, è fuori tempo, fuori luogo. Certi laici sentono dentro di sé il dovere morale di recuperare il “meraviglioso cristiano” in termini di rievocazione storica, a beneficio non più di poveri pellegrini, ma di bei turisti pronti a spendere e giornalisti pronti a scrivere sui misteri dei cavalieri di Gerusalemme e sul tesoro nascosto di Alì Babà. Ora il punto è: c’è un’adeguata resistenza del mondo cattolico a tutto questo? Quanto e a chi parimenti interessa il “numero” di pellegrini/turisti a cerimonie religiose? Ci sarà un concorso di colpa in questo incidente del malaugurato intreccio tra mito e rito? E veniamo a noi: da quanti anni la Perdonanza si è laicizzata? Negli anni Sessanta il 28 agosto si celebrava il rito religioso in assoluta osservanza, per poi concludere con l’indimenticabile tocco profano della “benedizione delle macchine” sul piazzale di ghiaia di Collemaggio. Un rito iniziato forse per caso, forse perché il piazzale si riempiva di automobili appena comprate nel boom economico, e spontaneamente e con simpatia queste venivano benedette, come si usava fare con gli ”Ovunque proteggi” e i “Guida piano” fatti di calamita che si appoggiavano sul cruscotto. Questo era la Perdonanza. Alla fine della cerimonia, come ai matrimoni paesani, tutti suonavano orgogliosi il claxon dell’auto, generalmente una Fiat fiammante lucidata a festa per l’occasione. Poi è iniziato il tira e molla, il Comune, la bolla, il corteo, la dama della bolla, i mazzieri, chi la passa e chi la prende. Noi aquilani l’abbiamo sempre vissuta male, questa cosa. Noi aquilani l’abbiamo sempre tollerata in silenzio, con pazienza, sempre legati profondamente a quel nostro povero Celestino, e sempre l’abbiamo visto come un Cristo in croce. Siamo cresciuti con Celestino, abbiamo imparato ad andare in bicicletta sul suo piazzale, e andavamo a salutarlo, e di lui sapevamo che poteva essere papa e lo fu per troppo poco. Non ci è mai piaciuta quella sagra paesana in calzamaglia che gli hanno costruito intorno. Quest’anno, poi. Il lutto, il dolore, la povertà collettiva, sto per dire il buon gusto, tutto avrebbe dovuto consigliare un ripristino del rito antico, nuda e cruda la Porta Santa, aperta a qualunque credente, “pentito e confessato”. Miracolo della fede che merita il rispetto dei laici, di tutti i laici. E invece, anche quest’anno, abbiamo assistito all’ennesimo, improbabile connubio di sacro e profano. Ci siamo perfino accapigliati per un posto all’interno del corteo! Croce sì/croce no al corteo del 6 aprile, carriola sì/carriola no al corteo della bolla. Era inevitabile, data la situazione: “Io so’ omo, che fo, nun m’impiccio?” dice giustamente Ciceruacchio. E certo che ci impicciamo, tutti, nelle cose che accadono. Non stava a noi evitare gli spiacevoli incidenti che si sono verificati per l’occasione. A noi sta la riflessione: che nostalgia per i sani, vecchi comunisti che mangiavano i bambini, pervasi da una fede uguale e contraria a quella dei cristiani! Certi laici, al contrario dei vecchi mangia-bambini, hanno completamente dimenticato che il cristianesimo non è un fatto culturale, è una fede. Celestino fu un monaco: concesse, da papa, l’indulgenza annuale, plenaria e gratuita a tutti i poveracci del mondo. Fu la lotta di un ecclesiastico contro la corruzione, la diseguaglianza sociale e il clero corrotto. Celestino riscuote le simpatie dei laici perché lottò contro la corruzione della chiesa, ma appartiene alla chiesa e resta della chiesa. In questa brutta storia della Perdonanza 2010, tutti abbiamo perso qualcosa. I giovani che pregavano e i giovani che ballavano, mai avrebbero voluto infastidirsi reciprocamente. Ma tutti gli adulti erano come sempre troppo “occupati” a cercarsi una vetrina, per rendersi conto che mai avrebbero dovuto farli trovare in quella situazione. La politica merita rispetto. La fede merita rispetto. Rispetto, che strana parola, contiene nella radice il verbo “guardare”. Guardare, riconoscere la presenza. Qua nessuno guarda nessuno. Il povero cristiano, forse, stava meglio sul Morrone.

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IL PERCORSO MAGICO

Anni Ottanta. Il mio amico Massimo Alesii mi porta al colloquio con Stefano Vespa. Ho vent’anni, sono nervosa, non so come pormi. Il dialogo è secco, deciso, breve, e sono dentro: “RADIO L’AQUILA – 103 MHZ”. Un mito. Un mito un po’ in discesa in verità: gli anni d’oro erano stati i Settanta, ma per me quella redazione era il massimo.

Da quel giorno iniziò il percorso magico, cioè il tragitto che facevo per andare in trasmissione. Parcheggiavo a Piazzetta Chiarino: macchine ammucchiate, disordine, mi ricavavo un posticino vicino al meccanico. Non c’erano strisce blu, non c’erano parchimetri, solo strisce bianche, ma era come se non esistessero. Lasciavo lì la mia 126 beige di terza mano (tappezzeria verde e volante momo) e andavo “in Radio”. Farfalle nello stomaco, mi caricavo per via, usando come personal-trainer le strade, un percorso sempre uguale, un rito scaramantico che mi metteva in sintonia con il mio mondo, sia quello dentro che quello fuori.

Da piazzetta Chiarino approcciavo via San Martino, in discesa. I muri stretti ai lati mi davano energia e mi proteggevano, e i sanpietrini lucidi e tondi sotto le scarpe mi costringevano ad andare piano per godermi lo spettacolo. Se pioveva poi, l’odore dell’aria si faceva intenso, pregno dell’umidità dei muri antichi. Una svolta a sinistra, ed eccomi su Via ed Arco dei Veneziani. poi un piccolo tratto, una giravolta, e il Chiassetto del Campanaro era lì, stretto stretto che sembrava un viaggio nel tempo, un piccolo tubo da cui sbucare a fatica, come a nascere ancora. Subito un gesto scaramantico: guardare in alto il mascherone che caccia la lingua, strizzargli l’occhio ogni volta, per non averlo contro durante la diretta.

E poi giù, mi tuffavo in via Accursio. La casa di Buccio, con la lampada appesa, nera arrugginita sempre uguale, che mai si muoveva neanche col vento. Camminavo attaccata al muro, perché le macchine in salita andavano veloci. Che strada! I palazzi antichi ogni tanto li trovavo con i portoni socchiusi, e sbirciavo dentro, a guardare quegli orti magnifici, gli orti aquilani, o i cortili col pozzo e la carrucola.

Il tempo sembrava essersi fermato in quelle crepe, stasi serena di un orologio immobile. La bottega del sarto era perfettamente inserita nel quadro: lui sempre a cucire con la sedia mezza e mezza, metà sulla strada e metà dentro, a prendere un po’ di luce da fuori (l’interno era ancora più buio); e lui lì, con gli occhiali sul naso, cuciva pantaloni da uomo.

Ci buttavamo uno sguardo indifferente: in tutti quegli anni non ci siamo mai scambiati un saluto, all’aquilana maniera ci ignoravamo. Il sarto era sempre sintonizzato sui 103, aveva il volume al massimo per via del fatto che sedeva mezzo fuori, e quando passavo sentivo i nostri jingle fatti in casa: lui sapeva che ero io “la voce”, aveva certamente collegato il mio passare con l’inizio della trasmissione, ma mai un cenno, mai una parola, né mia, né sua. Poco dopo la muta tappa della sartoria, il portone del n. 10, lui, il “mio” portone.

Il cortile interno, il porticato dall’intonaco un po’ scrostato, la targa piccolina RADIO L’AQUILA, null’altro da vedere, perché il cuore era già dentro: due scale da scendere, una piccola porta di vetro smerigliato e ferro battuto e… odore di muffa, nuvole di fumo di sigaretta, ero dentro! La magia del percorso magico si fondeva tutta in quel piccolo scantinato che per me era il mondo dei sogni, un paradiso sistemato dentro un altro paradiso. Sala di registrazione, cuffie, prova microfono, Tony con la faccia da indiano fa il solito cenno impercettibile con gli occhi sornioni e… “VIA” … parlavo alla città. Leggevo pezzi miei. Preparavo meticolosamente trasmissioni a tema sulla città, ripercorrevo la toponomastica e raccontavo storie antiche.

Nella mia mente parlavo al sarto, ma sapevo che erano in tanti a sentirmi. Un giorno una signora telefonò dopo la trasmissione (mai successo) per fare i complimenti. Usciti dalla sala di registrazione, Tony, rompendo appena appena, con l’angolo della bocca, la sua espressione perennemente immobile, lo raccontò a Renato: “Oh…. Ha telefonato una… pe’ ddì che j’è piaciuta la trasmissione…”. Renato, dopo un attimo di perplessità, spalancò la bocca e replicò, fissandomi con un’espressione stupita: “Che? Ha telefonato una pe’ fatti i complimenti? E chi era??? …Zìeta?”. Ilarità generale, inclusa la mia.
Eh sì, lo trovai delizioso. Perché il quadretto, dal percorso magico alla battuta di Renato, era proprio perfetto. PERFETTO.
Questo è L’Aquila. Che nessuno alzi mai la testa dalla mischia. Che nessuno cresca sulla squadra. Così si vince. Questo è la mia L’Aquila. E solo chi è “dentro”, chi ce l’ha nel sangue da generazioni, può capire a fondo questa piccola storia.

MILLE VOCI DALLE CASE

….. Stanotte sono stata malissimo, forse mancava l’aria in “casetta” e così mi sono svegliata che mi girava la testa. Ho aperto la finestra e dopo un po’ sono stata meglio. Ho pensato tante volte a una casa in affitto, non credere che io sia una sprovveduta. Ma bisogna aspettare che le “B” rientrino nelle loro case; al momento non c’è scelta, qualsiasi cosa io abbia trovato era roba in muratura (che fa rima con paura) o fatiscente o sporca o troppo, troppo lontana.
Il film dell’ “intellettuale in campagna” con i cani e i gatti non è certo neorealismo italiano, lo inserirei più nella fantascienza. Le mie condizioni psicologiche non mi consentono l’autonomia necessaria a quel copione. Qui c’è una muta condivisione della sofferenza. Ti affacci e sai che questi disgraziati stanno come te e se hai bisogno e suoni un campanello qualcuno ti apre e ti porta in ospedale. Non esiste vicinato, ma c’è la solidarietà dei prigionieri di guerra. Neanche ti saluti al mattino, ma se senti un pianto subito ti affacci a vedere se qualcuno ha bisogno di aiuto. La notte è muta. I lampioncini disegnano luci disneyane sui prati appena seminati, sui cercys appena fioriti, e sembrano i colori con cui le pompe funebri dipingono i morti. Ma se esce il sole al primo pomeriggio, escono tanti bambini, così tanti che ti chiedi dove li abbiano nascosti per tutto l’inverno, come li abbiano fatti tacere per tutti questi mesi. Pensi a ‘Useppe della Storia di Elsa Morante, o al piccolo di Benigni nel “La vita è bella”. Li guardi dalla finestra, e preghi dio, se esiste, che non si abituino a questo nulla, che si rialzino. Li guardi, guardi nel quadrato militare del cortile chi torna con le buste della spesa, nessuno ride, vanno sempre con un incedere che non ha più guizzi di entusiasmo. Guardi tutto questo e dici “questa è la mia gente”.

E non vuoi andartene, non vuoi preservarti da tutto questo, qualcosa te lo impedisce. Certo, potrei giocare a fare la ricca donna di campagna con i suoi libri, i cani stesi sul tappeto davanti al camino acceso. Potrei anche permettermelo. Ma antiche romaNticherie o chissà cosa mi portano ad affondare con la nave. Piuttosto valuterei l’ipotesi di trasferirmi altrove, il che non è escluso. Ma se sto qui, se resto qui, devo dividere la sorte degli altri.  Sai, noi della scuola viviamo in questo piccolo mondo antico fatto di piccole vedette lombarde e tamburini sardi. Romanticherie ottocentesche in cui crediamo fortemente ci portano a credere che proprio chi ha delle responsabilità deve farsi servo dei meno fortunati.
Ieri ho accarezzato mentalmente i miei libri con le poesie di Edoardo Sanguineti. Sembra un’eresia, con quello che succede, dire che soffro fisicamente la mancanza di quelle pagine, ma ieri è stato così. Perché Sanguineti è morto e leggere qualche verso per me significava farlo vivere ancora. Avidamente ho cercato su Internet, ma nessuna di quelle mie amatissime. Solo pochi frammenti sparsi.
Tu hai ragione su tutta la linea, tutti i carriolanti hanno ragione, ma io non ho torto. Da dove prendono tutta quella forza? Sempre di più assimilo inconsciamente la situazione a quella degli ebrei. Io sarei certo morta in un campo di sterminio, troppa pietas rende fragili, vulnerabili. E non riesco a farmi crescere il pelo sullo stomaco, non ce la faccio.

Quanto a me, l’esercizio convinto della non-violenza mi porta a tenermi lontana dalle manifestazioni di protagonismo di alcuni.
Credimi, ho provato di tutto, ho provato tante volte a formare un “movimento di massa” di protesta non-violenta basata sulla non-collaborazione. L’obiettivo era fare ostruzionismo passivo. Non gesti plateali, ma resistenza muta e compatta: non comprare certe cose, non andare in certi posti, definire strategie collettive.
Ti sei mai chiesto perché è bello il flash-mob? Perché tutto si ferma, e tutti sono uguali nella loro immobilità. E tutti appartengono a una setta segreta, solo chi fa il gioco capisce, gli altri no. Ecco.
Ormai mi guardano come si guarda una pazza. E forse lo sono.

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John Lee Hooker – This Land is Nobody’s Land

DE INDIGNATIONE COLLETTIVA

Nei miei lunghi trascorsi scolastici è sempre stato fulgido il ricordo di un mio alunno molto particolare, Lorenzo, uno di quelli che ti rendono la vita impossibile, quelli che sono sempre “contro”, sorriso sarcastico, iperprotetti da più parti, scrittura volutamente incomprensibile… avete presente?.. quei figli che pretendono sempre “un po’ di più” della tua attenzione. Lo ricordo in una foto di classe dietro, in alto, mise le braccia a croce come Gesù Cristo. Ebbene, Lorenzo – o come dicevan tutti, Renzo – un giorno si alzò in piedi all’improvviso durante la lezione e disse con voce ferma: “Sono indignato!”. Stranezza interessante, tanto più che, passati un paio di giorni, il fatto iniziò a ripetersi in modo inquietante. All’improvviso lui si alzava e diceva: “Sono indignato!”. Capite bene che dopo una, due, tre volte, il ragazzo venne richiamato dagli insegnanti per l’interruzione arbitraria, e il comportamento fu stroncato in modo abbastanza energico. Stette buono per un po’, poi ricominciò, in modo furbescamente camuffato da opportune variabili: non si alzava più in piedi ma all’improvviso, comunque, dall’ultima fila, emetteva un sommesso…. “sì sì sono indignato….”… e dopo un paio d’ore una specie di singulto…“sono proprio proprio indignato….”. La situazione si faceva imbarazzante. Un giorno, esasperata, lo presi da parte, e alzandomi sulle punte dei piedi fino al suo naso, con efficacissima calata napoletana, gli dissi: “Loré, ma tu che vuò ‘a me?”. E lui, con espressione stupita, precisò che non c’era niente di personale, semplicemente…lui… era indignato! Lorenzo non sapeva bene “di cosa” o “per cosa” era indignato, troppo complessi e confusi i motivi che dettavano quel turbolento stato d’animo, ma sentiva di esserlo profondamente, e lo diceva a modo suo. Il Consiglio di classe, dopo una frettolosa riunione improvvisata per i corridoi, gli notificò che basta, doveva farla finita. E così Lorenzo – o, come dicevan tutti, Renzo – non potendo più né alzarsi, né bofonchiare, per non esplodere, se ne inventò un’altra: ogni tanto tirava fuori da sotto il banco un cartello formato A3 con su scritto “SONO INDIGNATO!” e lo ruotava a destra e a sinistra! Dopo tanti anni devo confessare che la cosa mi divertì parecchio, e che ne ero anche piuttosto orgogliosa. Ve lo dico all’orecchio e senza farmi sentire, ma altro è quello che il docente fa, altro è quello che ha nel cuore. E nel cuore io ero contenta che gli fosse scattata la molla dell’indignazione. Dopo tre anni di studi su Catone e sulla virtus latina, cavolo, Lorenzo era l’unico che aveva ben capito la lezione, ben interpretato lo spirito pratico della urbanitas, della civitas, delle arringhe ciceroniane e delle filippiche. Non sapeva bene “di cosa”, non era compito suo capire perché, lo provava e lo diceva. E basta. La nemesi storica vuole che ora io mi trovi nella sua stessa situazione: sono indignata, e i motivi sono così tanti e confusi che potrei fare una lista, ma non ci riesco, riesco solo a vivere infelicemente e confusamente questo sentimento. Giustamente la reazione è la stessa dei docenti contro Lorenzo: “Ma tu che vuò ‘a me?”. E io rispondo come lui: “Non lo so.” Sfogo il mio bisogno di ricostruire lavorando come una matta fino a spaccarmi la schiena, e se è vero – come è vero – come dicono gli psicologi, che la parola è salvifica, allora bisogna DIRE. Ma ha un senso dire sul blog e dire sul web? Ha un senso rispetto a Lorenzo che si alzava in piedi e lo diceva e lo scriveva? Ha un senso iscriversi a un gruppo “quelli che si indignano” e sublimare così il bisogno di additare le cose che non vanno? E’ un modo poi davvero così efficace l’indignazione on-line? Il top sono quelli che si indignano col nik-name! Almeno chi si indigna firmandosi mantiene la sua corporeità, ma chi si firma “Fantomas”? Ah, certo, sa di svilire l’indignazione autografa. Colpire alla schiena, vigliaccamente, nell’anonimato. Questa indignazione da blogger in più sfumature è certamente eredità catoniana adattata alle mutate condizioni. Mi ricordo che negli anni 80 su un muro di Ingegneria un genio graffitaro evidentemente prossimo all’esame di fisica scrisse: “Tatone il Tensore”. E d’accordo, va così, mutatis mutandis, giuste evoluzioni di antichi metodi, ma cavolo IO SONO INDIGNATA! Mi indigna la città abbandonata, mi indignano i furti legalizzati dei finanziamenti per i terremotati, mi indigna l’arraffa-arraffa, mi indigna il puntellamento, mi indignano le pietre antiche buttate per terra, mi indigna l’inerzia. Mi indignano i ritardi ingegneristici che ancora mandano in giro le A e le B, mi indigna che lavori di tamponature ci mettano un anno (e allora il centro storico?) mi indigna che ci siamo messi a discute su Bertolaso e Guzzanti, mi indigna che abbiamo fatto passare il giuro d’Italia come se niente fosse e infatti s’è visto che grandi risultati, mi indigna che i miei concittadini ancora mi dicono “Beh t’hanno data la casetta che vuoi di più!”, mi indigna che vogliono che mi sistemo così mi sto zitta, mi indignano le lapidi spezzate al cimitero, mi indigna che non si sia messo su un servizio uffici dov’era-dov’è (bastava un impiegato) e mi indigna che all’Aquila non andiamo col tom-tom come la gente normale, ma col tam tam come i villaggi dell’Africa, mi indigna che i vecchi moriranno al mare, mi indigna che i single non possono tornare (e che invece di dire poracci so’ soli, si dice meno male che so‘ soli), mi indigna che i padri separati devono dormire nelle roulotte da soli e non possono ospitare i figli senza doversi vergognare, mi indigna che continuiamo a parlare di miracolo come i ciechi a cui danno da bere e intanto gli fregano le elemosine, mi indigna che non riusciamo a venirne a capo, mi indigna che ognuno si indigna per conto suo per le cose sue e non c’è un’indignatio collettiva, mi indigna che anche quando i fatti sono lampanti comunque gli uomini di parte insistono a difendere l’indifendibile, mi indigna che mi considerano una miracolata perché ho la casetta, mi indigna dover parlare a nome di tanti che ridono sotto i baffi leggendo e poi non fanno niente, mi indigna che ci sono quelli che si indignano della mia indignazione. Ecco. Lorenzo, Barabba, ladrone in croce, me l’hai tirata e sto come te. E come te io dico “non è compito mio risolvere piccole e grandi cose, c’è gente pagata per farlo, votata per farlo, FARLO E’ IL LORO LAVORO e non sono io”. Io non posso che occuparmi di ragazzi e far sì che crescano con un sano e consapevole pensiero critico. Criticamente ho cresciuto generazioni di vostri figli, che come Lorenzo si indignano insieme a me. Ma porca miseria, amici, colleghi, persone, gente dell’Aquila, ci vogliamo mettere insieme? Non basta cliccare “condividi”.

LA PAROLA E’ DONNA

INTERVISTA DI ROBERTO CIUFFINI A LUISA NARDECCHIA

Questa intervista è stata realizzata dal giornalista Roberto Ciuffini in Piazza Duomo all’Aquila, in occasione della presentazione al pubblico del numero di Leggendaria dedicato alle donne-scrittrici aquilane, dal titolo “TERRE MUTATE”, nel maggio 2010. L’intervista fu realizzata da Roberto Ciuffini per incarico di un giornale on-line sul quale non è più ora reperibile. Viene riportata qui fedelmente.

ROBERTO: Come ha scritto il direttore di Leggendaria Anna Maria Crispino, le donne sono state protagoniste quotidiane della ripresa della vita dopo il terremoto. E anche ora, a distanza di un anno, continuano ad esserlo (basti pensare all’alto numero di donne presenti nei comitati). Parafrasando Nuto Revelli, sono state e continuano ad essere “l’anello forte”. Perché, secondo te? E’ una questione biologica, di genere o cosa?
LUISA: La ripresa della vita “normale” è stata prevalentemente realizzata dalle donne, è vero. Ma non insisterei troppo su questo aspetto, anche se a lui ho dedicato uno dei brani più amati del dopo-terremoto. Si corre infatti il rischio di generalizzare e di relegare le donne ai lati spiccioli dell’esistenza, alla quotidianità. Il grande valore che io intravedo nel mondo femminile è l’energia, la vitalità. Il vero “anello forte” è la parola, che è anche coscienza. E la parola è donna: spesso davanti al disastro gli uomini hanno bisogno di silenzio, di raccogliersi e di guardarsi intorno. Le donne invece devono immediatamente dare un nome alle cose per capirle, e lo fanno parlandone, confrontandosi. Ma è chiaro che si va incontro a grossolane generalizzazioni.
ROBERTO: Tu personalmente dove e quando hai trovato la forza e il senso per scrivere?
LUISA: La scrittura è sempre stata, per me, un momento importante di coscienza e di realizzazione personale. Ho sempre scritto nella mia vita, anche se soprattutto pubblicazioni scientifiche e saggi. La scrittura narrativa mi deriva dal mio essere stata una grande lettrice: e spesso a un grande lettore succede che vivere una situazione si traduca in un dejà-vu di immagini lette in mille altre forme, su mille altri libri. Quello che si scrive rimanda sempre a cose che già risuonano dentro di noi, cose assimilate nel tempo, che riemergono in altre forme, in altri contesti. Dopo il terremoto la scrittura si è posta come “medicina doloris”, per me e per chi mi leggeva. Riuscivo a dare voce a tanto magma emotivo collettivo. Poi sono passata alla scrittura come documentazione e impegno civile. Sicuramente la scrittura narrativa è la forma di espressione più affine al mio modo di essere: la forza e il senso derivano dal bisogno impellente di farlo.
ROBERTO: Le testimonianze raccolte in questo numero di Leggendarie vogliono essere anche una risposta a tanta cattiva letteratura e a tanta disinformazione prodotte in questi mesi sull’Aquila?
LUISA: La scrittura letteraria è un modo di informare diverso da quello giornalistico: viaggia su onde anomale, e non ha lo stesso pubblico. I lettori di giornali spesso snobbano questo modo di raccontare le cose, lo considerano romanzato, infarcito di roba inutile. E invece un racconto letterario “taglia” le cose nella loro essenza, ha un modo diverso di dirle, ha ritmo, ha musica, veicola il messaggio attraverso altri recettori che il puro raziocinio. Il grande miracolo della scrittura letteraria è di non proporsi mai nulla: non convince, non scandalizza, non spiega, non documenta. Ma al tempo fa molto di più: ti cambia prospettiva, ti fa diventare “altro” da te. Quella di Leggendaria perciò è una scelta precisa, capace di coprire un aspetto dell’informazione sul terremoto certamente diverso da quelli finora usati. Tra i due estremi del documentario di parte e del personalismo autoreferenziale dei blog, la scrittura narrativa scelta da Leggendaria può fornire la tessera decisiva del puzzle.
ROBERTO: Secondo te non c’è l rischio che, come abitanti di questa città, finiremo per percepirci come comunità solo in nome della tragedia che ci ha colpiti?
LUISA: Magari fosse. Magari ci potessimo sentire”comunità” in nome della tragedia. E invece corriamo il grande rischio della dissoluzione: lo spopolamento da un lato, la lotta intestina per la gestione della ricostruzione dall’altro. In buona sostanza, c’è chi se ne va, e c’è chi resta a litigare sul come restare. Se riusciremo a superare questi due grandi pericoli, la nostra comunità si salverà e avrà un futuro. Ma per farlo è necessario un grande senso civico, una grande umiltà, una grande praticità, e secondo me c’è bisogno anche di grandi leader delle parti, leader che si pongano come punti di riferimento e che siano capaci di anteporre a tutto il bene della comunità.

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DE SENECTUTE – sulla costa

Eravamo ancora sulla costa quando è emerso, chiaro ed immediato, il criterio di selezione adottato per restare in città: solo la fascia “produttiva” aveva questo diritto. I vecchi, improduttivi e passivi, in albergo, al mare. Non c’è polemica in quello che dico: non avrei saputo proporre un’alternativa. Ma, come Maria, fui immediatamente vinta e quasi schiacciata dall’evidenza dell’esilio dei “grandi vecchi”. E la prima reazione fu di incredulità. Solo nei libri di fantascienza una società non concede ai suoi vecchi e di morire nella loro terra. La memoria (io che non ne ho mai avuta granché) mi recitava interi passi del “De senectute”. Ce n’era uno bello, quello in cui Cicerone crea la metafora della nave: la vita sociale è come un viaggio in una nave, vedi alcuni salire sugli alberi, altri andare correndo per le corsie, altri vuotare la sentina. Chi afferma che la vecchiaia deve essere esclusa dalla vita pubblica, è come se dicesse che nella navigazione il pilota non fa nulla. E invece, la barra in mano, seduto quieto a poppa, tiene la rotta. La città distrutta brulica di formiche impazzite, senza la testa dei “grandi vecchi”, che con il solo loro essere presenti, con il semplice stare, fanno il loro lavoro. In tanti hanno scelto di non lasciarsi portare via. “La baracca nell’orto, io da qui non mi muovo”. In tanti, più fragili, più sconvolti dal boato, si sono fatti deportare, rassegnati. Alberghi come ospizi. Passeggiano al mare, e i loro occhi cercano i monti. Quel sole e quell’umido, poi, i nostri vecchi non lo sopportano. So di alcuni che hanno chiesto di avere una stella alpina sul comodino. Come raggiungere questi nostri anziani in esilio? Come far arrivare da qui forte e chiaro che non li abbandoniamo? Dobbiamo dire che resistano, dobbiamo dire di tenere duro. Dire di aspettare, di essere forti… E che cosa aggiungere per quelli che non ce l’hanno fatta, che hanno ceduto prima, in preda al dolore della lontananza e alla paura dell’abbandono. Si sono ammalati, e in tanti, tantissimi, da un giorno all’altro hanno smesso di mangiare, hanno chiuso la bocca. Sono da annoverare tra le vittime del sisma, che invece, ufficialmente, resteranno sempre 300.

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ADOTTA UN BUZZICO

Tempo fa me ne stavo nella c.a.s.a. cercando di far quadrare il cerchio, quando si presentano due giovani sorridenti che gentilmente mi consegnano un bel buzzico color marrone, mi dicono che si tratta della raccolta differenziata dell’organico, mi consegnano un calendario tipo Frate Indovino e mi fanno firmare un documento.
Quando timidamente ho chiesto ai ragazzi: “Scusate, ma ora io questo dove lo metto?” mi hanno guardata stupiti. “Come? Sul balcone!”. “Quale balcone?” dico io. “Ah lei non ha un balcone?” “No! Esattamente come un sacco di gente che abita nelle c.a.s.e.”, mi sento di precisare. “Allora lo metta sotto al lavandino!”. “Ma sotto al lavandino c’è il fantastico secchio della spazzatura miracolo della tecnologia, che quando apri lo sportello si apre anche il coperchio! Lì ci va la spazzatura normale, mica il buzzico dell’organico!”, dico io. “Lo metta a fianco al secchio”. “Ma lì c’è posto solo per un paio di detersivi, non ci entra!”.
I due ragazzi iniziano a indietreggiare, azzardando, poverini, qualche altro tentativo: “… Al bagno?”. “Ma se al bagno non c’è nemmeno posto per il cesto dei panni sporchi, e devo tenerli in lavatrice!”. Improvvisamente grondanti di sudore, i due battono in ritirata, sparando le ultime cartucce: “…. Sul pianerottolo?”… “Sul pianerottolo ci sono gli stendini con i panni, vi ho detto che non c’è il balcone, no? e ci sono anche le dispense con i detersivi, mica vorrete che ce li teniamo dentro, i vapori ci avvelenano! Se ci mettiamo anche il buzzico non si passa piùùùùùùùùùùùùù!…”.
La mia voce accompagna i ragazzi alle spalle, lungo tutte le scale. Resto come una scema là in cima, finché non scompaiono all’orizzonte, come nei finali di Charlie Chaplin.
E così restiamo da soli. Io e il buzzico. Lo hanno lasciato in mezzo alla stanza soggiorno-cucina-camera da letto. La prima cosa che mi viene in mente è di agganciarlo a una corda e calarlo giù dalla finestra e tenerlo appeso lì. Mi rendo conto che non sarà un bello spettacolo per quelli che abitano sotto, ma che ci posso fare… anche io mi godo la vista dell’antenna parabolica del vicino che troneggia davanti alla mia finestra… No.. meglio evitare dai. Siamo fin troppo bravi a non prenderci a coltellate per i posti auto, dobbiamo avere pazienza. Evitiamo ok? C’è stato un terremoto no? Già, penso guardando il buzzico: c’è stato un terremoto e questi mi portano il buzzico. Mi viene in mente un flash: DOV’E’ LA TELECAMERA? Ma sì, ci sarà una telecamera nascosta! Dev’essere così! Hanno pensato di filmare le reazioni dei terremotati, per vedere fin dove arriva la pazienza!! Rido soddisfatta, mi aggiusto i capelli e mi guardo intorno, sentendomi improvvisamente osservata… “Dai, esci, lo so che ci sei!”.
No. Non è una candid. Mi sento tristemente sola. Guardo il calendario di fantastico Frate Indovino che mi hanno lasciato, per vedere se ci sono indicazioni su come gestire il buzzico. Scopro che devo buttare la spazzatura in certi giorni a certe ore. Mi colpisce il fatto che si parla di orari per me impraticabili, tipo dalle 22,00. Quando sono già a letto.
Arriva un altro flash: io che, in pigiama, vestaglia e pantofole scendo giù col buzzico in mano. Scordatevelo. Non se ne parla. Ho una dignità, io. Continuo a leggere, c’è scritto qualcosa sul compostaggio. Il compostaggio? Ma veramente? La pressione mi sale e avrei voglia di farlo a qualcuno, il compostaggio. Scopro con uno sguardo disperato che se butto la spazzatura fuori orario verrò multata. E che, se non conservo bene il buzzico e non lo restituisco a fine comodato, verrò multata ugualmente. Lo metto sul tavolo, siamo già amici, mi guarda con aria soddisfatta. Lo odio. Poi mi faccio coraggio: “Forza, siamo molto fortunati ad avere la c.a.s.a,. In Irpinia stanno ancora nei container, mentre noi riusciamo a pensare alla raccolta differenziata! Forza Luisa, fai un piccolo sforzo di buona volontà!”.
Io lo sforzo lo faccio pure, ma il problema è proprio di natura fisica, è un problema materiale e concreto, cioè DOVE PIFFERO LO METTO IL BUZZICO? DOVE? DOVE? DOVE?

Passano i giorni. Il buzzico troneggia, lucido e pulito, in mezzo al stanza, sul tappeto, davanti al divano-letto. La testa non si rassegna: mi succede come a gatto Silvestro quando a destra compare un angelo e a sinistra un diavolo. L’angioletto dice: forse questi del buzzico non sanno che le c.a.s.e. hanno tutte una camera-soggiorno-cucina! Forse questi del buzzico non sanno che moltissime non hanno neanche un balcone! Il diavoletto gli dà una martellata in testa e dice: “COME POSSONO NON SAPERLO? Saperlo è il loro lavoro, sono PAGATI PER SAPERLO!”.
Dopo qualche giorno il buzzico è diventato il mio interlocutore preferito. Lui è piccolino, ma a me sembra enorme, gigantesco, spropositato! Un buzzico ideato per una villa con piscina, mi sembra. Faccio un tentativo: lo metto sulla cappa della cucina. Sporge un po’, poverino…. Non mi sembra un buon posto, il calore è troppo vicino… E il buzzico torna sul tappeto.
Provo a leggere di nuovo il calendario di Frate Indovino con le istruzioni. Che bella cosa, la raccolta differenziata, che grande civiltà, che grande progresso, che grande ecologia! …..MA PROPRIO DAI TERREMOTATI DOVEVA COMINCIARE TUTTO ‘STO SENSO CIVICO?
…..
Altro flash filmico.
Atmosfera dorata, tipo Mulino bianco.
Gli abitanti delle c.a.s.e che si incontrano giù al parcheggio felici, ben vestiti, in una mano la ventiquattrore, nell’altra il sacchetto della raccolta differenziata. Vicino a loro camminano compunti due bambini con i capelli a caschetto, biondi, naturalmente. Reciproci saluti calorosi: “Buongiorno!!!!”… “Buongiorno a lei!!!“…. “Buon lavoro!!!!”….. “Altrettanto!!!”….. “I miei rispetti alla signora!!!”… Sorridono soddisfatti, esibendo il loro sacchetto dell’organico con la faccia di un boy scout dopo la buona azione quotidiana. Sotto alla scena filmica, una scritta scorrevole azzurra: “PERFINO I TERREMOTATI DELL’AQUILA FANNO LA RACCOLTA DIFFERENZIATA! FALLA ANCHE TU!”….
Puff… Il flash scompare in una bolla di sapone.
E vedo noi. Noi delle c.a.s.e.
NOI VERI.
Che la mattina ci salutiamo con un grugnito.
Incazzati.
Che abbiamo le facce da terremotati.
Che dormiamo ammucchiati, senza più privacy.
Che usciamo trasandati, con gli occhi abbottatti.
Anche noi col sacchetto della spazzatura in mano.
INDIFFERENZIATA, naturalmente.
Ognuno se lo carica in macchina, parte, e va a buttarla lontano, nei secchi che incontra sulla strada.
E quello che ti fa incazzare è che vorresti andare a buttarla sotto la casa di qualcuno.
QUI NON E’ ESATTAMENTE UN VILLAGGIO VALTOUR.
Fatelo voi il riciclaggio, FATELA VOI LA DIFFERENZIATA.
E mentre guido, col mio bravo sacchetto di spazzatura indifferenziata nel bagagliaio, mi domando: “Amici miei, fratelli di sventura…… voi dove avete messo il buzzico?”.
Leggende metropolitane dicono che molti lo hanno riposto, ben coperto, in qualche garage delle case rotte.
Altri lo hanno nascosto presso qualche amico fortunato che ha una casa. Qualcuno, purtroppo, lo ha dato in affidamento a parenti lontani, e ogni tanto telefona e chiede come sta.
Ma tanti, tantissimi, lo tengono in macchina, e la domenica lo usano per andare a togliere le macerie in piazza, in alternativa alla carriola. Li chiamano i “buzzicanti”, oppure per prenderli in giro “chi bazzica col buzzico”.
Vaglielo a spiegare, come vivono.

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IL TERREMOTO DEGLI ADOLESCENTI E LA LOGICA DEGLI AIUTI

Il Liceo Bafile, quest’anno, è stato aperto tutti i pomeriggi per consentire ai ragazzi di avere un punto di studio e di recupero permanente. Ma i ragazzi, a “Scuolaperta”, non ci sono venuti, le aule erano pressoché deserte. Le aspettative su questo progetto erano tante, tante le risorse impegnate: abbiamo pensato che i ragazzi avrebbero cercato nella scuola un punto di riferimento per creare gruppi di studio e di interesse. E invece niente. “Tu come passi il tempo libero?” è stata la domanda che ho posto più frequentemente durante l’inverno. “Quando è possibile andiamo nelle case di chi ce l’ha. Chi ha una casa vera, senza puntini, invita qualche amico, un po’ per volta, si fa a turno”. E già, il tempo libero è libero. E a scuola non ci vengono proprio perché deve essere libero. Liberamente si associano in piccoli gruppi spontanei. “Ma gli scambi, gli interessi, fare musica, passeggiare, incontrare?” chiedevo preoccupata. “C’è il cinema, ogni tanto. E ci sono i locali sul Viale della Croce Rossa, di sera, in genere il sabato. “D’accordo, questo lo sappiamo, ma come può essere che non vi organizzate, che non vi inventate qualcosa di diverso da proporci, per aiutarvi a realizzarlo?”. “Non siamo abituati” mi ha risposto Giacomo. C’era un tono di dispiaciuto rimprovero, in quel “non siamo abituati”. E mi sono chiesta quanta responsabilità abbiamo noi adulti in questa incapacità. Mi è tornato in mente quel consiglio comunale che avrebbe dovuto deliberare la sistemazione del porticato sotto la nostra scuola per uno spazio polifunzionale, consiglio mai concluso per abbandono dell’aula dei consiglieri e conseguente mancanza del numero legale. E mi viene in mente non per fare polemica spicciola, ma solo perché in quella occasione la reazione dei ragazzi attraversò tre stadi: prima si infuriarono e chiesero spiegazioni; poi ascoltarono le spiegazioni in silenzio; infine mugugnarono feriti e non fecero più nulla. Ragionevoli e composti, come abbiamo sempre chiesto loro di essere. “Non avete provato  a proporre qualcosa attraverso i vostri rappresentanti?” indagavo, per pura curiosità. ”Sì sì, certo, eccome! Abbiamo ottenuto un grande successo!” “Bene, questo mi fa molto piacere! Quale?”. “Il sabato sera verrà chiuso al traffico il Viale della Croce Rossa!”. Resto di sasso. Ma come? All’inizio dell’anno il loro obiettivo era smantellare Viale della Croce Rossa! (prima fase). Poi hanno accettato l’ineluttabile condizione di andarci (seconda fase); infine hanno smesso di chiedere alternative, facendoselo pure piacere! (terza fase). Si sono adattati. Perché l’unica cosa a cui li abbiamo davvero abituati, è ad abituarsi. Ad accettare le situazioni, a colorarle con la loro straordinaria fantasia, fino a farsele piacere. “Flessibilità! Flessibilità! Il mercato del lavoro richiede flessibilità!” Li abbiamo cresciuti a gran voce così, per capire poi, in queste situazioni di emergenza, che non funziona, che non è giusto, che non sempre è giusto adattarsi, se ci si adatta al peggio. Ho capito che nonostante tutti gli sforzi fatti dalla scuola, gli adolescenti aquilani sono pressoché costretti a crearsi delle vie di fuga mentali. La scuola non può essere tutto e non va delegata di tutto: ai ragazzi dobbiamo lasciare il sommerso, quello che si fa “sottobanco”: chiacchierare, passeggiare, e perché no anche un po’ bighellonare. Ecco perché guardano con sospetto l’extracurriculare che a scuola gli mettiamo sul banco, come fanno con quello che a tavola gli mettiamo nel piatto. E non lo mangiano. Fanno meno fatica in questo modo, che a cercare di chiedere parola presso gli adulti, troppo “occupati” per ascoltare questi piccoli cittadini. Gli adulti, gli “occupati” di Seneca. Siate seri ragazzi, c’è stato un terremoto, i grandi hanno da fare. Vai ragazzo, lasciami lavorare. In tanti piccoli si sono chiusi in camera, passano il loro tempo a navigare in un mondo virtuale, incontrando i lupi cattivi e girando dentro i vortici di misere trappole mentali. Un mancato invito a una festa diventa un affronto insuperabile che scatena rancori orribili, perché a quella festa non c’è un’alternativa da contrapporre per consolarsi. E noi abbiamo troppo da fare per capirli. Ci siamo illusi che concedere la “normalità” scolastica bastasse a dar loro un equilibrio. A scuola abbiamo dato un esempio di grande serietà, continuando a lavorare “come se”, e fornendo psicologi di sostegno. Bello, quel “come se”. Come se non ci riguardasse, dico io. Come se inchiodarli al libro fosse una soluzione. Ci siamo girati da un’altra parte per non vedere tanta sofferenza. Anche dopo un terremoto, noi continuiamo a considerare gli adolescenti dai 14 ai 17 anni come dei cretinetti che non si vogliono impegnare e cercano divertimento facile, pub e discoteche. Fastidiosi che sono, a quest’età, vero? Né grandi, né piccoli. Come Alice, ora si sentono giganti, ora nani. Perciò, non avendo loro stessi una reale percezione di sé, non li vediamo “seri” e degni di essere ascoltati. Da una prima, semplice ricognizione dei lavori presentati dai ragazzi per il Progetto “L’Aquila 2019”, ideato e bandito dai docenti del Bafile, (l’unica cosa che la scuola possa fare, come sempre, è “impegnarli” in positivo) è emersa tanta sofferenza, specie nei piccoli di 14-15 anni. Tanta nostalgia e anche tanta voglia di fare. I lavori, per ora solo raccolti e numerati per la imminente consegna alla giuria, presentano un’immagine del passato della città prepotentemente superiore all’immagine del futuro. Perché questi adolescenti la città l’hanno vissuta, se la ricordano bene. Tra le righe si legge solo un doloroso vorrei che non fosse mai successo. Troppo grande per loro. Non riescono a gestirlo. Nei progetti architettonici, invece, tante proposte costruttive: vogliono spazi di cultura, spazi per leggere, guardare DVD, discutere, trovare angoli di ristorazione con cucina straniera, ricostruire una piazza, un passeggio… Un passeggio. Che ne sarà di questi loro bisogni? Accadrà che “caleremo sopra” ai ragazzi le nostre scelte adulte e serie? Mi viene in mente la storia di certi interventi umanitari in Africa: gli evoluti paesi ricchi videro che in un villaggio africano le donne dovevano percorrere 10 km di strada, alla sera, per andare a prendere l’acqua in un pozzo. Gli aiuti misero su una task force e in breve costruirono un avveniristico e costosissimo acquedotto. Ma le donne continuarono, alla sera, a prendere le giare, a mettersele sulla testa e farsi i loro 10 km a piedi per prendere l’acqua dal pozzo. Furono mandati degli antropologi, per cercare di capire il perché. E si scoprì che quei dieci chilometri, per le donne del villaggio, costituivano l’unico momento di riposo, di chiacchiera, di passeggio. E’ quello che faremo? Costruiremo anche noi acquedotti inutili per i nostri ragazzi, dove loro si rifiuteranno di andare? Apriremo le scuole tutto il giorno per vederle poi deserte? Li abitueremo ad abituarsi? Suggerisco da sola i commenti, li so già. “Eh, questi ragazzi, vogliono sempre la pappa pronta! Non è vero niente, per loro abbiamo fatto questo e quello, gli abbiamo dato questo e quello…” Certo, anche noi li abbiamo scarrozzati e impegnati. Ma è sufficiente? E poi, la madre di tutte le repliche: “Che educatori sono quelli che incoraggiano al passeggio invece che a studiare!”. E io allora dico che noi adulti, il nostro passeggio, a quell’età, lo abbiamo avuto. I portici, la colonna, lo “struscio”, la piazza, li abbiamo avuti. Siamo onesti, avete già dimenticato? la giornata non era passata, se prima non s’era fatto “un giro”. E conoscevi le persone per caso, non perché ci andavi a sbattere col carrello della spesa. Le incontravi e basta. Ora
che cosa succederà? Gli costruiremo nuovi posti per spendere meglio la loro paghetta? Costruiremo per loro tanti begli acquedotti costosi? Non so che cosa augurarmi: che si adattino a girare il rubinetto che gli metteremo davanti, o che trovino un modo per andare a prendere l’acqua dove gli pare. A piedi.

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DOMANI VIENE MICHELE

“Domani mattina viene Michele”.
Non mi ricordo che effetto mi fece questa frase detta al telefono dalla voce emozionata di Giuseppe. Di sicuro mi ha gettato nel panico. “Sì… Michele viene domani mattina, viene a scuola a trovarci”.
Oddio. Che gli dico. Come mi comporto. Non ci so fare, non sono la persona giusta, Giuseppe ha sbagliato…
Cosa gli dico io a Michele Gazich?
Faccio un po’ di prove tecniche di trasmissione tipo: “Buongiorno Maestro, Lei non può immaginare che cosa sia la Sua musica per me” oppure: “Buongiorno Michele, è un onore averLa qui, venga, Le mostro i corridoi e la palestra”.
Eccerto. I corridoi e la palestra.
A Michele Gazich.
“Ma dai – mi dico – in fondo sarà lui a parlare. Gli artisti son così, un po’ matti, un po’ narcisisti. Mi parlerà dell’ultimo disco e andrà tutto bene. Anzi, speriamo che arrivi quando sto facendo lezione, almeno lo presento ai ragazzi. Non mi è mai capitata una cosa del genere. Un cantautore in classe”.
Mi figuro la scena.
Lui e Giuseppe entrano proprio quando sto finendo di leggere il “Cinque maggio”. Non so se avete presente: lettura enfatica dell’ode in climax fino alla pausa teatrale d’obbligo, prima della parola “posò”. In genere pochi secondi prima suona il campanello e mi rovina. Quest’anno invece busseranno alla porta e sarà Michele Gazich. Ok. Può andare.
Mi sfugge il seguito della scena. Che faccio dopo? Mi preparo le fotocopie di qualche suo testo? Mi vedo: distribuisco le fotocopie di “Poeta in gabbia” e poi… “Analisi del testo!”. Sacrosanta rivolta di massa della classe.
Cambio film.
Ascoltiamo un brano di Michele, poi intavoliamo una discussione. Sento la voce di Nanni Moretti dall’ultima fila che grida: “Noooo … il dibattito nooooooooo!!”. Parole sante.
Reset.
Altra scena.
Provo a immaginere i dettagli. Com’è fatto, dove lo faccio sedere, come si svolge la scena.
“Dovresti vederlo” mi ha detto un giorno Giuseppe, ben sapendo che non mi sono mai preoccupata di dargli una faccia. “E’ un personaggio, io l’ho conosciuto a Subiaco che girava da solo per le montagne, col suo cappello in testa”.
Quando Giuseppe ha detto “col suo cappello in testa”, ha fatto un gesto come per alzare la mano in aria, così: “CAPPELLO!” E non un gestuccio piccolo, tipo a schiacciarsi la mano in testa, come a dire la coppola di Lucio Dalla, no no, proprio con la mano per aria, alta, con gli occhi in un piccolo guizzo all’insù. Come a dire il cilindro di Zucchero Fornaciari. Vedo un corvaccio nero col pastrano lungo e gli occhialetti da cieco senza cane, salire le scale della scuola.
Brutto effetto.
“Un cilindro. Lo vedi?” mi dico “Dev’essere un tipo strano, e io coi tipi strani mi impappino come con i bambini, perché sono imprevedibili, ti spiazzano con una battuta che per loro è niente, e invece a me mi stende”.

Che poi i miti non si dovrebbero mai conoscere.
E che cavolo, Michele era un mito per me, come gli salta in mente a Giuseppe di trasformarlo in carne e ossa? se ne stava bello bello nella mia teca mentale, mi parlava con le sue canzoni, da lontano, etereo e incorporeo… Come Orazio, Baudelaire, Oscar Wilde, Pirandello. E chi li conosce? Che è ‘sta cosa che si deve per forza impattare col corpo? Sono aquilana verace, porca miseria. Gli aquilani non si smuovono mai per i miti. Una volta mi trovavo a Roma in un bar e mentre telefonavo a casa vidi passare un politico importante, così mi scappò di gridare con entusiasmo a mio padre, che era all’altro capo del telefono: “Non ci crederai, ma è appena passato Tizio!” E mio padre, laconico, da buon aquilano, rispose: “Salutamelo…”
Oh sanguis meus! C’aveva ragione!
I personaggi sono fatti per stare nelle teche.
E invece, domani Michele viene qui.
Esce dalla teca dove l’ho tenuto per tutto il terremoto.
Ma andrà tutto bene: faremo un giro, io, Giuseppe, lui, il suo pastrano nero e il suo cilindro.
Farò gli onori di casa e tutto andrà come deve andare.

Ci siamo, è il momento, sono abbastanza calma.
Sto per terminare la lezione sul “Cinque maggio” come da copione.
Faccio la pausa teatrale, dico ” posò “. Silenzio.
La classe, muta, assapora il momento catartico.
Subito dopo sento bussare, e schizzo in piedi.
La porta si apre di una spanna appena.
Intravedo Giuseppe, che resta fuori: con lo sguardo fa un gesto come per dire “puoi uscire un attimo?”.
Mi precipito, preoccupata. “Sarà successo qualcosa”.
E invece Michele è lì.
Vicino a Giuseppe.

Il cappello è sotto il braccio.

Il cappello è sotto il braccio.

E’ un cappello normale, ed è sotto il braccio.
Niente cilindro, niente pastrano nero, niente occhialetti da cieco.
Dalle finestre del corridoio, una luce morbida.
Pochi secondi. Capisco tutto.
La Endemol Deformation mi ha fatto aspettare un uomo di spettacolo.
E invece Michele è un Uomo. Come quello di Oriana Fallaci.

Lui è ciò che scrive.

Mi saluta affabile, dolce.
La mano è leggera.
La voce è leggera.
Gli occhi chiedono.

Tutto in lui è partecipazione.
Mi chiede del terremoto, vuole sapere.
Mi chiede del campo di Collemaggio.
Io ero al campo a Collemaggio.
Mi chiede di Santa Maria degli Angeli.
Io abitavo vicino a Santa Maria degli Angeli.
Pensavo che venisse per parlare.
Invece è qui che mi ascolta.
Ho davanti a me una persona gentile.
GENTILE.
Avevo dimenticato che esistono persone GENTILI.

Lui è ciò che scrive.

Resta cinque, dieci minuti, poi dice che non vuole disturbare e se ne va.
Nell’alone di luce delle finestre del corridoio.
Resto lì.
Con l’anima piena.

Io non so perché certe cose succedono.
Non so perché certe persone mandano così tanta energia da sembrare angeli. E non so perché tutto questo sia successo a me.

Ho conosciuto un poeta.
O forse un angelo.
Pensandoci bene, non c’è differenza.

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Michele Gazich e la Nave Dei Folli – Collemaggio

SUI PROBLEMI GIOVANILI: IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI

 

Difficile riflettere, in assoluto, sul mondo giovanile, ma quanto più difficile in una realtà particolare come quella nostra aquilana. I giovani aquilani, loro, quelli che “poverini”. Diciamo loro “poverini”, ma non hanno lo sguardo implorante del cane randagio: anzi si offendono, si ribellano. A scuola leggo i loro occhi e i loro comportamenti, su Facebook i loro pensieri: e sono pensieri di normalità, di serena accettazione dell’ineluttabile. Gli adulti si dannano, costruiscono scenografie finte, cercano di nascondere le macerie sotto al tappeto. Loro invece chiedono solo di “esserci”, essere vicini alle loro madri confuse dal disordine di un numero spropositato di traslochi, ai loro padri sbattuti dalle difficoltà di un’emergenza lavorativa e familiare che non si decide a finire.

I ragazzi vogliono “esserci”, stare lì, presidiare, presenziare, come a voler adottare a (debita) distanza i loro adulti provati. Ci sorvegliano, ci spiano. Spiano il nostro disperato tentativo di passare da una città capoluogo di regione alla più infima delle periferie di quartieri dormitorio. Ci guardano, ci assecondano, delusi dalla nostra incapacità di credere che loro, in quanto giovani, possano capire. Pur di starci vicini si fingono ottusi, fanno i buffoni, dicono stupidaggini per farci ridere o marinano la scuola, come facevano prima, come se fosse normale, come un tempo. Ma sanno perfettamente che nulla è come un tempo, per noi adulti.

Noi vorremmo che almeno i più grandi se ne andassero, “qui non c’è futuro, andate a studiare fuori, fate la vostra vita lontano da una terra che ci ha traditi!”. Il nostro passato disneyano ci ha portato a credere di doverli difendere nascondendo, oscurando. E loro ci guardano con quegli occhi distaccati e un po’ ostili che sembrano dire “fammi partecipe dei tuoi problemi”. E noi lì a fingere, a nascondere. Vogliono vivere le nostre preoccupazioni, vogliono essere inclusi nei nostri pensieri. Sono cresciuti tanto, in questo anno e mezzo.

Il fatto è che noi adulti siamo sempre stati assillati dalla questione dei traumi. “Evitare i traumi” è stato il motto della nostra generazione. Mi viene in mente il ricordo di una mia cara amica: anni fa, quando morì suo padre, tentò di preservare il figlioletto di cinque anni dal dolore, così sostituì tutte le foto che aveva in casa in cui erano ritratti nonno e nipotino. Entrare in casa e scoppiare a piangere, per il bambino, fu un tutt’uno. Disse: “E no, mà!…. E fammelo ricordà, nonno!”. Il lutto si elabora toccando, guardando, vedendo quello che non c’è più. Anche loro, se la vogliono ricordà, L’Aquila. “QUANTA FUIT, IPSA RUINA DOCET”: le rovine dimostrano quanto la città fu grande. Invece noi facciamo di tutto per nascondergliela, fingiamo flessibilità e abitudine alle no-town. Come tanti ridicoli Fantozzi diciamo: “Sentito niente!”. E ogni volta loro si preoccupano per questo fingere, sentono, intuiscono dentro di sé che sotto c’è qualcosa di grave.

Quest’anno non vorremmo fare l’occupazione”, mi dicono due studentesse candidate al il Consiglio di Istituto, illustrandomi il loro programma. “L’occupazione contro i tagli della Gelmini, sì, è ok per il resto d‘Italia, ma noi qui abbiamo altri problemi: noi vogliamo sette giorni per fare altro. Per rivivere la città, comunque sia diventata. Vogliamo girare la zona rossa con la guida turistica: i forestieri possono farlo e noi no? Vogliamo la storia delle case, delle chiese, dei palazzi, dei cortili. Vogliamo studiare. Vogliamo qualcuno che ci spiega il passato. Vogliamo capire cosa ha spinto gli antichi a restare, cosa spinge ora noi a non andar via.” Fabrizia e Michela hanno la forza e la capacità di dare parole al loro dolore. Propongono, dicono, chiedono. Gli altri ragazzi magari non ci riescono, si godono un po’ il piacere del vittimismo, o restano chiusi nel consueto mutismo adolescenziale. Ma la loro non è apatia: è l’unica forma di reazione che gli abbiamo concessa, quella di non rompere mentre noi (non) prendiamo decisioni. Capisco bene, avevamo sognato per loro un futuro diverso, dicevamo “quando andrete all’Università” dando, come scuola, una prospettiva allettante, un futuro di emancipazione, di conquiste e di divertimento. Ma è vero, la storia continua, loro si adattano, non sono legnosi come noi.

La cosa più strana è vedere ora la gara di solidarietà di tanti Enti Nazionali per i “giovani aquilani”. Piovono corsi di legalità, di anticorruzione, antimafia, come se avessimo già delegato i giovani a ricostruire domani, invece di pensare a quelli che (non) stanno ricostruendo oggi. I ragazzi ridono, almeno quelli grandi. Gli parliamo di mafia e di corruzione, ma il messaggio che arriva a loro è: “Ora è così, ma non lo non lo fate anche voi, quando sarete grandi!”. E diamo loro la sensazione che la insostenibile responsabilità della ricostruzione sia la loro. Ma non si apprendeva con l’esempio? L’esempio dell’adulto non era l’unico elemento che metteva d’accordo tutte le pedagogie? Non era l’esempio che in-segnava (lasciava un segno dentro) come comportarsi domani?

E che dire di ciò che piove fuori dalla scuola? Nella buca della posta, dacci oggi il nostro fascio quotidiano di pubblicità di ogni tipo per il target giovanile, dal corso di ocarina a quello di meditazione zen. Sento madri che tirano fuori dal mazzo di volantini quello più colorato e poi, con scarsa convinzione, si rivolgono ai figli: “Ummmh…Corso da cheer leader… Ci vuoi andà?”. Silenzio. Al massimo, un grugnito.

I giovani sono stanchi dei corsi. Hanno bisogno di incontrarsi, di parlare liberamente, di sfogarsi senza moderatori. Sono stanchi di giocare con noi a “guarda l’uccellino”. Vogliono starci vicini, vogliono che noi adulti troviamo un modo per vivere, anzi per sopravvivere, in qualche modo, a questo disastro. E che condividiamo con loro il nostro dolore, la nostra sfiducia di orfani.

 

 

L’AQUILA DI DOMANI

Questo è un articolo di giornale (sempre giornali on-line, non ho mai scritto per la carta perché nessuno me lo ha mai chiesto, né io lo chiederò mai a nessuno) nato per celebrare una iniziativa nata nella mia scuola, il Liceo Scientifico “A. Bafile”. Ero la Vicepreside, da Vicepreside ho vissuto tutte le responsabilità di una scuola di circa mille studenti e un centinaio di professori, nel dopo-sisma, lavorando nel famoso “Conteiner 19” che era la Segreteria-Presidenza nella fase dell’emergenza. Ogni attività che fu fatta dalla mia scuola mi costò enorme sacrificio di tempo ed energie, ma i ragazzi avevano bisogno, allora più che mai, di sentirsi assistiti e seguiti. E così ho ritenuto di dover fare. In calce, allego la bellissima documentazione delle nostre attività: il report “Conainer 19” e il Concorso di idee Ragazzi “L’Aquila 2019”.

Firmato venerdì scorso l’atto d’intesa tra il Liceo Scientifico “A. Bafile” dell’Aquila e l’Associazione culturale e di solidarietà sociale “Città della Gioia onlus” di Napoli, dettato dal comune impegno di contribuire alla rinascita della città dell’Aquila e dei territori abruzzesi colpiti dal sisma. Si tratta di una delle iniziative messe in atto dal Liceo Bafile  per promuovere negli studenti il superamento delle ferite psicologiche e sociali, personali e collettive causate dal sisma, attraverso progetti concreti e operativi. Il progetto “L’Aquila 2019” consiste in un concorso scolastico volto a premiare le migliori riflessioni degli studenti su come potrebbe essere la nostra città tra dieci anni, nel 2019.

Pasquale Salvio, Presidente dell’Associazione coinvolta nel progetto, spiega: «La Città della Gioia onlus si prefigge, tra i valori fondativi, la solidarietà e la promozione della cultura   ed ha tra le sue finalità progettuali e operative la formazione scolastica delle giovani generazioni, con particolare attenzione alle fasce deboli della popolazione e a quanti hanno problemi derivanti da situazioni emergenziali». L’intesa tra il liceo aquilano e l’associazione nasce grazie all’interessamento della prof.ssa Anna Maggi e della Dott.ssa Iride Cosimati, che si sono prodigate per mettere in contatto il liceo aquilano e la onlus.

«I ragazzi stanno lavorando con entusiasmo e partecipazione, – spiega Walter Cavalieri, che insieme a Sandro Cordeschi è uno dei referenti dell’iniziativa – e alcuni lavori si stanno  rivelando particolarmente interessanti». Le sezioni del concorso sono quattro: narrativa, fotografia, progettistica e saggistica. «Basta citare qualche titolo – dice Sandro Cordeschi – per dimostrare la validità dell’iniziativa: La città ritrovata – Natura, cultura e sport a Piazza D’Armi – Riscoprire e valorizzare il naturale rapporto tra città e territorio – Campus universitario ‘6 aprile 2009’ – Progetto di riqualificazione dei trasporti pubblici urbani ed extra-urbani – Riprogettazione del Parco del Sole. Sono solo alcuni dei titoli dei lavori, scelti per dimostrare su che cosa si sta indirizzando la riflessione degli studenti».

Anche la sezione narrativa, oltre a quella della progettazione, promette sorprese interessanti: Nuvole di fumo, per esempio, è uno dei racconti su cui stanno lavorando due studentesse, e Com’era il futuro è la realizzazione di 4 studenti per la sezione “Fotografia”. Buone premesse anche per la sezione saggistica: basti, per tutti, il titolo: Cartografia ed iconografia dell’Aquilano, dalle origini ai nostri giorni”. «Stiamo mettendo a punto delle commissioni di esperti per ogni sezione del concorso – continua Walter Cavalieri – e entro maggio individueremo i vincitori».

È qui che si innesta la collaborazione della “Città della Gioia onlus” di Napoli, che ha promosso una raccolta di offerte per una cifra di € 2.500,00 da suddividere tra i vincitori. L’Associazione napoletana, in linea con i valori del suo statuto, entra nel liceo aquilano allo scopo di sostenere le iniziative dei territori abruzzesi colpiti, in spirito di solidarietà. «Vedere i ragazzi impegnati verso il futuro, incentivarli perché distolgano gli occhi dalle rovine e si concentrino sulla ricostruzione ci è sembrato un gesto significativo, anche se piccolo, in confronto alla portata del disastro» conclude Pasquale Salvio.

I lavori degli studenti sono stati preparati da incontri, ricerche e conferenze: un modo come un altro per sollecitarli a partecipare al dibattito culturale sulla ricostruzione. L’ultima attività, per esempio, è stata la partecipazione al convegno “L’Aquila – prendiamoci cura del patrimonio urbano” con Shigeru Ban. Nella mattina del 19 marzo i rappresentanti dell’Associazione sono stati all’Aquila per conoscere la realtà scolastica del Liceo Bafile e stipulare formalmente l’atto d’intesa, già concordato da mesi.

«Alla città dell’Aquila l’Associazione si sente legata con un affetto particolare, affetto che ritiene vada oltre la semplice erogazione monetaria. Il nostro scopo è quello di promuovere sentimenti, strumenti e occasioni che valorizzino il desiderio di un gemellaggio tra comunità civili che hanno vissuto entrambe, in momenti storici diversi, le ferite del terremoto». Con le parole del Presidente si è conclusa la stipula, e la delegazione napoletana è stata accompagnata al centro storico, per una visita che ha consentito di constatare l’entità del disastro che ha colpito la nostra città.

Il concorso si concluderà il 5 giugno nell’ambito del Convegno Internazionale: “Dopo la caduta: memoria e futuro”, dove avverrà la premiazione ufficiale dei vincitori. Si tratta di un importante riconoscimento, dal momento che il Convegno in cui il Bafile verrà ospitato è stato organizzato dalla Prof.ssa Laura Benedetti della Georgetown University, e vedrà la partecipazione di importanti personalità americane e di autorevoli rappresentanti di istituzioni culturali aquilane, nonché, tra gli altri, degli scrittori Luisa Adorno, Clara Sereni e Amara Lakhous.

Vi allego i due “report” delle nostre attività.

http://www.didacta.altervista.org/curriculum/Container_interno.pdf.

http://www.didacta.altervista.org/pubblicazioni/Aquila2019.pdf

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LE NOSTRE DONNE

Questo testo è stato sicuramente il più “fortunato” tra quelli da me scritti nella fase dell’emergenza. Risale all’ 8 marzo 2010 e fu scritto in sette ore, la durata del viaggio del pulman che mi riportava a casa da Milano. Il testo fu letto ovunque, fu citato sul “Manifesto”, fu usato durante convegni, raduni, comizi di politici, per lo più senza citare l’autrice. Ne sono stata fiera: perché quando di un testo se ne impadronisce “la gente” al punto da non sapere più chi lo abbia scritto, né come e perché, vuol dire che quel testo era vero, era della gente.

I primi tempi lo chiamavano “il terremoto delle donne”. Una frase che si sentiva un po’ dovunque, appena sussurrata, da parte di giornalisti, commentatori, fotografi, gente di passaggio.
Lo schianto distrusse gli uomini, che rimasero allibiti, quasi paralizzati, attoniti davanti a tanta devastazione. O scapparono.
Sono state soprattutto le donne ad evacuare l’ospedale (infermiere, portantine,  dottoresse), chi era lì le ha viste disporre, dare ordini, organizzare, spostare, raccogliere, sostenere. Sono state soprattutto le donne a recuperare i faldoni dagli uffici, la merce dai negozi. Le donne, a tenere unite le famiglie, a dirigere, a sistemare i figli nel modo meno precario possibile. Donne, a far riaprire i primi punti in piazza, donne a fare politica, donne a restare al proprio posto, qualunque fosse, a dare il meglio di sé. Le abbiamo viste nei centri di raccolta, nelle tendopoli, nelle stanze d’albergo, nelle camerette della Finanza darsi da fare, organizzare lo spicciolo, improvvisare angolini in cui ritagliare un po’ di intimità: girare un catino per realizzare un tavolo, appendere uno specchio a una gruccia per rimediare una toletta, mettere un fiore in un bicchiere, stendere un foulard colorato alla finestra.
Su di loro, gli occhi di uomini schiantati, barba lunga, increduli davanti a tanti piccoli gesti inutili. E intanto le donne correvano avanti e indietro a racimolare oggetti, in preda ad una strana febbre.
In tante si sono messe a scrivere, a raccontare, a parlare, a dare voce alle emozioni collettive. Ridicole? Davano un nome alle cose che succedevano, mentre tanta, troppa gente continuava a ridere dentro al letto, anche senza intercettazioni telefoniche.
Le donne diedero forza alla braccia, spazio alla memoria. Istinto di protezione della prole? Forse. Non siamo forse noi donne ad aver passato almeno cinque anni della nostra vita distese sul tappeto di casa con i nostri figli, per insegnare loro il gioco della torre di cubi? Un cubo sopra l’altro, un cubo sopra l’altro. Uno per volta, con pazienza. Poi la torre cade, il bimbo ti guarda spaurito, tu lo consoli: “Non fa niente, la rifacciamo”. Non fa niente, la rifacciamo. NON FA NIENTE, LA RIFACCIAMO. La casa.
Gli uomini possiedono la nuda proprietà, le donne hanno anche il resto: dallo zerbino alle tendine colorate, dalle presine, in tinta con lo strofinaccio, al servizio di tazzine regalato al matrimonio, dalle fotografie al cigno di vetro soffiato, così brutto ma a cui siamo tanto affezionate. E quante volte siamo entrate di nascosto nelle case rotte, a recuperare qualche brandello di memoria da innalzare come un trofeo che in qualche modo distinguesse la nostra dalle mille altre casette, tutte con gli stessi arredi, gli stessi colori, le stesse pentole e le stesse coperte.
Ma le più grandi sono state le donne-nonne come mia madre. Quelle che hanno fatto la guerra, quelle che hanno rivissuto i bombardamenti. Meritavano una vecchiaia serena, circondate da figli e nipoti. Si trovano in spazi risicati, quasi tutte lontane dalla loro terra, da una città che hanno reso grande nel corso di tutta la loro vita, con il loro lavoro. Ovunque si trovino, questa fu la prima cosa che dissero il 6 aprile, questa sarà l’ultima che diranno: “non fa niente. LA RIFACCIAMO”.


LETTERA APERTA A DON CLAUDIO

Premessa al lettore: questa lettera aperta fu pubblicata su un giornale on-line nel dicembre  del 2009. Chi scrive si rivolge a Don Claudio Tracanna, persona di grande sensibilità e accortezza, vicina e attenta alle problematiche giovanili.

Caro Claudio,
scrivo a te quale direttore dell’Ufficio Diocesano delle Comunicazioni sociali, ma soprattutto quale collega, amico, insegnante amatissimo dai ragazzi e, ultimo ma non ultimo, cittadino aquilano. Parlo a te perché forse con te riuscirò ad arrivare fino in fondo, magari con te riuscirò perfino a capire, magari tu avrai la pazienza di rispondermi in modo pacato e con la volontà, a tua volta, di capire me. Il momento che stiamo vivendo chiede a tutti i cittadini aquilani di esserci: lo chiede a tutti, ma in particolare lo chiede alla gente di scuola, perché i ragazzi ci guardano e apprendono da noi, ci guardano e imparano come si fa, da come noi facciamo. Oggi non si può restare lontani: oggi un imperativo morale chiede, a chi ha una coscienza, di “esserci” con tutte le scarpe.
Questa lettera nasce da un primo impulso, e di seguito, a catena, da tanti altri. Il primo impulso è stato il disgusto nei confronti della costruzione, in Piazza D’Armi, della Mensa di
Celestino e annesse strutture. Si sapeva da tempo, pensavamo a qualcosa di paragonabile (quanto a dimensioni) al preesistente, non a un qualcosa che ingoiasse mezza piazza. Lo sdegno che ho provato a vedere (scusa) quello scempio, è stato pari alla delusione che ho provato (scusa) subendo il tradimento di persone di cui mi fidavo ciecamente. Io non avrei accettato quel pezzo di città. Io non avrei detto “meglio a noi che a un altro”. Quel pezzo di città, in questo momento, era importante per gli aquilani. Non discuto su decisioni prese al vertice. Discuto la possibilità di dire di no. Scusa, ma la mia generazione si è nutrita di libri come “L’obbedienza non è più una virtù”. La mia idea di prete coincide con quella di una persona che sa dire “NO”. I libri che leggo, quello che dico a scuola, mi portano naturalmente a cercare nei preti dei Borromeo. “Naturalmente”, dico.
Scusa, ma io non capisco e non mi rassegno. Io credo che il momento chieda un impegno civile serio e importante: e che la Chiesa possa, nella storia, imparare dalla storia. Essa può, nella storia, scegliere da che parte stare. Può cambiare la storia già scritta e quella da scrivere. I grandi uomini di Chiesa hanno saputo imparare dagli errori, da loro ci aspettiamo l’aderenza alla missione di cui l’abito è testimone. Noi cittadini aquilani ci aspettiamo dalla nostra diocesi la stessa cura che l’arcivescovo Confalonieri ebbe per gli aquilani durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Anche noi stiamo vivendo un bombardamento, e chiediamo a gran voce che “chi può” eviti che vengano sganciate altre bombe.
Sono confusa, Claudio, non capisco: non capisco. Ti ho visto schierato contro la deportazione forzata dai campi, ti ho visto benedire le carriole, e ora ti vedo aderire a “Gli aquilani non sono quelli dei comitati”, gruppo che mescola sacro e profano, e dice “Grazie Italia, grazie Protezione Civile, grazie Vigili del Fuoco, grazie anche ai nostri amministratori locali che hanno avuto un compito difficilissimo in questi mesi”. Va bene, grazie, bravi, buoni, buonissimi, caritatevoli tutti quanti, MA ADESSO? Le case di carta ce le hanno date, è vero, e siamo usciti dalle tende. E grazie. Ma il prezzo deve essere quello di morirci dentro? E allora che aiuto è? E’ il tozzo di pane che si dà al povero? Provo il disprezzo dei poveri per la carità. “Come? Ti ho dato la casa e tu ti lamenti? Mordi la mano che ti nutre?”. A me hanno insegnato che l’impegno sociale è ben altro che questo. E il primo a insegnarmelo fu il mio insegnante di Religione di Liceo, si chiamava Don Giuseppe Molinari. Perciò io un impegno della Chiesa me lo aspettavo. Invece, terra tolta al centro della città, solchi scavati tra cittadini, sostegno a comitati contro altri comitati. La nascita di comitati contrapposti è normale, si è verificata fin dall’inizio, fa parte della democrazia. Se uno alza un cartello, subito dopo se ne alzano altri tre, e tutto questo “ci sta”. Ma i segnali che arrivano dalla Chiesa sono contraddittori, noi non capiamo. Croce sì, croce no, simboli che invitano altri simboli… “Dove sono due persone nel mio nome, lì è chiesa”, questo mi hanno insegnato. Questo è quello che mi aspettavo. Con-versione. Questo ci aspettiamo dalla Chiesa. Non so perché abbiamo due vescovi, sinceramente anche questo non l’ho capito. Gli antichi romani avevano pro uno rege duo in tempi di pace, ma uno solo in tempi di guerra. Come dobbiamo leggere questo “rinforzo”? E’ una delle tante cose che non capisco. Quello che capisco bene, invece, è che la piazza D’Armi, con tutta la forza di due vescovi, l’avrei lasciata alla città. So che ora unirei, non dividerei, il dia-bolon, è il contrario del sun-bolon. Diavolo è ciò che divide. Ma Claudio, adesso DEVONO RICOSTRUIRCI LE CASE. Le NOSTRE case. Perché siamo una società civile, non abbiamo l’anello al naso. E più strutture stabili accettiamo noi aquilani, meno possibilità abbiamo di tornare nelle nostre case.
Io, un impegno maggiore della Chiesa, per gli aquilani, me lo aspettavo. E ci conto ancora.

CRONACHE FINALI

Si tratta del racconto degli ultimi giorni nella tendopoli di Collemaggio, prossima alla chiusura. Chi scrive racconta le fasi finali dell’assistenza della Protezione Civile,
e l’assegnazione di un alloggio nel Progetto C.A.S.E. Il racconto fu pubblicato dalla rivista “Leggendaria” nel numero 81, un numero interamente dedicato alle “Terre mutate”. Il numero del giornale fu presentato a Roma il 18 giugno 2010. I fatti raccontati, se pure enfatizzati dalle tecniche narrative, sono TUTTI REALMENTE ACCADUTI.

13 novembre 2009 – Sono rimasta sola, la tendopoli è quasi vuota. Ci chiamano “gli irriducibili”, quelli che non se ne vogliono andare, come se fosse una scelta politica, e invece non c’è nessuna scelta da poter fare ora, almeno per me, ho sbagliato tutto in questa storia… Mi vergogno di essere stata così ingenua e sprovveduta da ritrovarmi a novembre ancora sotto la tenda. E non riesco a crederci.. Mi vergogno di parlarne con gli altri, tutti più o meno sistemati meglio, COMUNQUE MEGLIO di me, mi sembra di leggere nei loro pensieri “poverina, ma come fa a stare ancora in tenda? sono rimasti lei e gli slavi ormai, ma come si fa?”. L’importante è che la mia famiglia stia bene, lontano da qui, fa solo tanto freddo. Soprattutto di notte si gela, e sinceramente ho paura di dormire qui da sola. Prima di infilarmi nel letto preparo una specie di trappola: appoggio una rete inutilizzata di un letto contro l’apertura della tenda.. La tenda non ha porta, non si chiude a chiave, e io ho paura, ho paura di tutto qui, una paura indotta più che reale, se ascolto me stessa mi dico che posso stare tranquilla, che va tutto bene, che non può succedere niente e che – soprattutto – finché sono in tenda, il “mostro” non mi può ingoiare. La sera ho sete ma non bevo, non bevo neanche durante la cena per non andare in bagno di notte, il container dei bagni di notte sembra irraggiungibile, una traversata impossibile…
14 novembre 2009 I cani qui fuori fanno da padroni, sembra di stare un film. Stanotte abbaiavano e ringhiavano abbaiavano e ringhiavano, si mordevano abbaiavano ringhiavano finché qualcuno (chissà chi) è uscito fuori, ha urlato qualcosa come BASTA FATELA FINITA e ha sparato un colpo di pistola in aria. Silenzio. Un silenzio di tomba e forse era meglio prima l’abbaiare e il ringhiare. Tra freddo e cani mi viene in mente Zanna Bianca e sorrido, è incredibile come facciano compagnia certi ricordi, nascono da soli, affiorano come bolle di sapone.. Dentro una di queste bolle, vedo la ragazza che mi aiutava nei lavori domestici, il giorno in cui mi ha lasciato il bigliettosul tavolo con su scritto: “Non pulisco in giardino perché il cane BAIA”. Sorrido ancora. Che bello.
Dio quanto, ma quanto era bello e non lo sapevo … Qui il gelo ti entra dentro, le lenzuola sono quasi bagnate, ho foderato tutto di coperte, a terra in alto, mi sono fatta una specie di iglù e non posso più pulire la plastica a terra con tutte queste coperte, ma non mi importa, devo proteggere la mia schiena. Rimpiango Maria di Mestre che per il mio mal di schiena veniva a farmi il Toradol, Dio la benedica, Maria di Mestre, non so come avrei fatto senza di lei. Qui a Collemaggio i volontari della C.R.I. li chiamiamo con la città di provenienza: “Piero di Pavia”, “Barbara di Firenze”, Maria di Mestre”. Ora ci sono Franca e Laura. E Riccardo, 19 anni, fidanzato con una ragazza dell’Aquila salvata dalle macerie. Quante storie d’amore sono nate tra volontari e terremotati… Ma chi se le ricorda più, ormai non c’è più nessuno, ci sono solo io, i cani di Mimmo e qualche straniero, porca miseria. Ma come ho fatto ad arrivare a questo? E com’è possibile? Stranieri, affittuari, avventizi, QUI CON ME, con me, proprietaria storica di appartamento al centro storico? INSIEME? IO E LORO? Vedrai che mi daranno la casetta vicino a questi… Anzi, la daranno prima a loro, perché loro hanno un sacco di figli, ecco come andrà. Chi devo maledire? Chi? CHI? Non ce la faccio più. Io mollo tutto, me ne vado, mi trasferisco.
15 novembre 2009. Mi chiama Piero della Protezione Civile. Dice che ha buone notizie.
“Finalmente!!!” (è incredibile, ma sono ancora capace di provare emozione e riconoscenza).
“Ho trovato una stanza per te in albergo, all’Aquila”
“Caspita!!! – dico io- che notizia meravigliosa! Continua dai!”
“L’Hotel è il migliore della città”
“ACCIPICCHIA! – esclamo incredula – non so come ringraziarti Piero!”
“Però c’è un però”
“Ah. E lo sapevo io. Ok, pago il soggiorno, va bene lo stesso, basta che ci sia una stanza in città.”
“No.. Il fatto è che… Insomma… La stanza è condivisa.”
“…”
“….”
“Pronto? Ci sei ancora?”
“Condivisa?… Condivisa con chi?”
“Una signora rumena”
“…”
“Una signora rumena?”
“Sì… Brava persona, puoi stare tranquilla”
“Ah. … (…) Grazie Piero… Ok. … Lasciamici pensare un attimo ok?”

Rumena… Ma siamo matti? Ma per chi mi hanno preso? In stanza con una rumena.
Giuda ballerino, è un incubo. Voglio svegliarmi.
16 novembre 2009. Lascio la tenda. Ho deciso di accettare la stanza condivisa con la rumena. Sono pazza lo so, ma non ho scelta. Fa troppo freddo e la schiena mi dà il tormento, devo pensare alla mia salute, devo stare bene, BENE CAVOLO, ho un figlio a cui pensare, DEVO ACCETTARE.
E’ incredibile, ma ho paura a lasciare la tenda, più paura che a restare, e sono proprio due belle paure. Nulla mi è stato risparmiato, ma io voglio stare qui VOGLIO STARE QUI NELLA MIA CITTA’ NELLA MIA SCUOLA CON LA MIA VITA. Accetto. Accetto anche se sono arrabbiata, molto arrabbiata. Una rumena? Che vuol dire una rumena? Una rumena nel migliore albergo della città? E chi è? Che lavoro fa? Con chi mi mandano a dividere il sonno (e il bagno?). Sono furiosa. Mi sembra un incubo, ma non ho scelta, ormai ho la filosofia del “poi vediamo”, e Piero mi ha promesso che è solo per qualche giorno, solo fino a venerdì – mi ha detto – perché ogni venerdì consegnano le casette e io avrò la mia casetta, parva sed apta mihi, la mia bella casetta per dare a mio figlio equilibrio e sicurezza, a me un po’ di tepore. Solo qualche giorno, coraggio. CORAGGIO. Posso farcela.. (ma una rumena… porc… )
Vado.
17 novembre 2009 – Mi stendo sul letto dell’hotel. Ce ne sono tre, di letti, in camera, magari ci infilano una terza, magari un’altra straniera. Magari una cubana. …. (Ma porca miseria… …)

Fa un bel caldo, tutto è pulito, c’è silenzio, e giù in sala pranzo ho intravisto bei tavoli, belle
tovaglie, belle stoviglie… bicchieri che luccicano, bicchieri a calice, come nella mia casa, come i miei cristalli… Tre mesi di nomadismo, quattro di tendopoli e ora questo….
Sono stesa sul letto e aspetto. Cosa aspetto? La rumena, ovvio. Rum… Rom… Dio non sarà una zingara spero… Ora ci penso io. Chiariamo subito le cose, che deve stare al posto suo. Mi guardo intorno, non c’è traccia di lei, ho guardato l’armadio e i cassetti e lei tiene tutto ben raccolto negli angoli, bene, l’ha capita, è bene intenderci subito, pochi giorni sì, ma che sia chiaro che comunque deve stare al posto suo, la rumena. Bene, ho visto che tiene le scarpe fuori sul terrazzino, bene, l’ha capita, la rumena, meglio che stia da parte ok? Mi esce il fumo dalle orecchie.. Sono qui, avanti, vieni, che aspetti? Dove sei? Che lavoro fai? Che ci fai qui all’Aquila? Come ti hanno dato quest’albergo? Come mai alloggi qui da settembre mentre io ero in tenda? COME MAI??? Sono proprio furibonda e lei non arriva.
Torno da cena, mi aspetto di trovarla in camera ma non c’è. Ah, cena fuori la signora, chissà dove, chissà con chi. La mia immaginazione corre e alimenta leggende metropolitane sulle rumene…
….
LA CHIAVE GIRA NELLA TOPPA.
E’ LEI.
Aspetto, sono pronta.
Non entra.
Sento bussare.
“Avanti!” dico spazientita.
Una giovane donna, alta, capelli lunghi, castani, aria tesa e preoccupata.
“Piacere, Luisa”.. “Piacere, Maria”
Resto zitta. Ha più paura di me. Meglio, così sta al posto suo. Tace. Neanche una parola. Bene, non mi piacciono le chiacchiere.
Qualche scambio di battute tecniche sulla gestione degli spazi, poi nulla.
“Posso spegnere la luce?” chiede.
“A che ora ti alzi?”
“Alle sette”.
“Bene, anche io. Vai prima tu in bagno, poi andrò io. Buonanotte.”
E fine del discorso.

18 novembre 2009 Sette del mattino. Dormito poco e niente, ma lei peggio di me, rotolava nel letto come una boccia da bowling. Ora è lì che parla al telefono, in rumeno, poche parole, scarne, una lingua dura che evoca antichi film in bianco e nero della Russia stalinista o che ne so, il perfido Rasputin. Letteratura. Succede anche quando sento parlare in tedesco, ma non mi era mai capitato di doverci poi dormire a fianco. Suggestioni, libri letti, storia, immaginario collettivo. Transilvania…Il conte Dracula. Erano meglio i cani di Mimmo. Chiedo: “Mangi in albergo a pranzo?” “No. Qui mi sento a disagio. Troppo lusso per me. Mi fanno dei panini, e li mangio dove capita”.
Qualche altro particolare, parla benissimo l’Italiano.
“In Romania non sarebbe mai accaduto tutto questo” mi dice mentre si alza.
“Tutto questo… cosa?…” sono pronta ad azzannarla, immaginando che sia una critica alla gestione dell’emergenza.
“Questo che è accaduto a me, che gli stranieri fossero trattati alla pari. L’Italia è un paese di grande civiltà”.

Fa la doccia, si veste, esce.

A colazione mi sento gli occhi addosso, in sala pranzo. Li sento, che mi guardano e pensano “ma come fa quella a dormire con una rumena?”. So leggere negli occhi e nei pensieri. Mi sento in imbarazzo, sono seccata. Qualcuno attacca bottone “Buongiorno signora, come va? … Da dove viene? Dalla costa?” Non mi va di dire che vengo dalla tenda. Quando ero sulla costa, all’inizio, la gente del posto si tappava il naso quando passavano gli aquilani. “Puzza di tenda” dicevano, una puzza che ti resta attaccata addosso per un sacco di tempo. Così bofonchio qualcosa e me ne vado, rispondendo un generico: “Vengo dall’Aquila”. Che sciocchi. Come se non fossimo tutti nella stessa barca.
Lei torna alle dieci di sera, più o meno. Stanca morta, si butta sul letto. “Ti senti bene?” butto lì. “Mi fanno male le ossa – dice – oggi ho lavorato tanto” “E dove lavori, se non sono indiscreta?” “Vado a servizio, cerco di lavorare più che posso, ho bisogno di soldi”. Le guardo le mani, rosse, screpolate. E all’improvviso Rasputin e Dracula se ne vanno al diavolo. E al loro posto resta una donna come me, che lotta come una tigre per avere un futuro migliore.
20 novembre 2009 Oggi avrebbero dovuto consegnarmi la casetta, ma ancora niente. Mi hanno chiamato, scala tutto di una settimana. In fondo non mi dispiace, qui si sta da dio. E alla sera Maria mi racconta la sua vita, a poco a poco. E’ molto riservata. In questi cinque giorni di condivisione abbiamo entrambe aggiunto parecchie tessere al nostro reciproco mosaico. Non è niente male. A parlare con uno straniero non ti senti mai invaso, né inchiodato. Me ne ero dimenticata. Ai tempi dell’università succedeva spesso, perché a Perugia c’è il passaggio obbligato degli stranieri, avevo vent’anni. Non c’erano slavi, però: soprattutto arabi e greci, e gli arabi dicevano tutti di chiamarsi Alì. Di quei brevi frammenti di dialoghi mi restano le stesse sensazioni che ho con Maria: un parlare con garbo, con gentilezza, senza che ogni cosa detta sia una sfida per dimostrare all’altro qualcosa di sé. Succede a vent’anni, e poi mai più: poi lo straniero diventa un concetto ostile, qualcosa che ti minaccia nelle tue sicurezze, a meno che… a meno che in mezzo non ci sia un terremoto che ti sbalza indietro di trent’anni, ai tuoi vent’anni.
Maria ha due figli all’università, un ex marito alcolista, un sogno di riscatto. I racconti più belli sono quelli della sua infanzia in campagna nei pressi di Costanza, con gli animali da fattoria. Mi racconta di Ceaocescu, di quello che è successo dopo la caduta. Maria sa discorrere di politica, legge il giornale ogni giorno, è molto più informata di me, che dal 6 aprile sopravvivo e basta, non leggo più e non guardo più la televisione.
Ieri sera, prima di spegnere la luce, mi ha chiesto: “Tu credi in Dio?” Così, a bruciapelo. “Noi siamo ortodossi” ha detto in tre parole, con una sintesi tutta pratica. “Le differenze con il cattolicesimo sono poche”. L’ho ascoltata parlare, mi mostra una catenina con un’immagine sacra e la mia testa vola, e mi sembra la scena di Orlando che disteso a terra col nemico pagano discorre di dio, della famiglia, dei figli…. Accidenti, maledetta letteratura, ti filtra tutto.
21 novembre 2009 Ho convinto Maria a scendere giù a fare colazione con me. Non voleva, ha fatto un sacco di storie, dice che non sta bene che io mi accompagni con lei. Per tutto il tempo ha guardato a terra o al massimo nella sua tazza con yogurt e miele. Ma si vedeva che era orgogliosa di stare a tavola con me. Voglio raccontare un po’ di lei a qualcuno oggi, mi va di dirlo a qualche amico… Lo so, lo so che mi diranno quello che già ho sentito qui dentro “non ti fidare, i rumeni dicono un sacco di bugie, hanno questa prerogativa: all’improvviso scompaiono, non li vedi più, e scopri che ti hanno detto un sacco di stupidaggini”. E’ un ritornello, me lo dicono tutti. Ma io non ci credo. Voglio fidarmi, voglio seguire il mio istinto. Scelgo io con chi stare. E scelgo lei.
Mentre finiamo la colazione le chiedo: “Ma perché resti qui, che tutto è distrutto? Perché non te ne vai? Affitto per affitto, perché non cambi città?” E scopro che è qui da dieci anni, che ha scelto questa città come sua città, che tra poco arriverà sua figlia, sta solo aspettando i documenti di equipollenza per la laurea. Quando parla di lei le brillano gli occhi. Studiare per Maria è molto importante, tiene molto all’istruzione dei suoi figli.
27 novembre 2009 E’ arrivato il momento, ho in mano le chiavi della casetta, devo andare. Due settimane sono passate, e di Maria so tante cose. “Ti telefono domani”.
Lascio sul comodino la crema per le mani, le sue mani rosse e screpolate.
Ci abbracciamo come due vecchie amiche, ma con una malinconia tutta nuova.
Una breve parentesi, non sappiamo cosa accadrà domani.
Maria ora ha le mie chiavi di casa. E ha anche quelle della mia amica Stefania e quelle della mia amica Cristina. E fa il suo lavoro in case dove la rispettano e le vogliono bene, qui, nella nostra città che rinasce.

La mia casetta è calda calda, sto rinfrancando il gelo della tendopoli. Ogni sera mi chiedo se Maria prende ancora l’ Okipirina, se ha ancora il mal d’ossa.
Il terremoto in pochi mesi mi ha disegnato sul volto dieci anni.
Ma dentro sono molto più giovane di prima.

 

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CRONACHE COSTIERE

Premessa al lettore: questo testo fu scritto il 1 maggio 2009, all’indomani del terremoto del 6 aprile. Fotografa la condizione di chi lasciò la città per recarsi ospite negli alberghi della costa. In particolare, riproduce la difficile situazione di conflittualità che venne a crearsi allorché gli aquilani che scelsero di restare in città, nelle tendopoli, iniziarono più o meno velatamente a rimproverare i concittadini che avevano scelto di farsi ospitare negli alberghi. Chi scrive cerca di conciliare le due posizioni, mettendo in evidenza il comune stato di precarietà.
Il testo ebbe una certa risonanza nell’immediato: uscito su un giornale on-line sul quale non è più reperibile, ottene centinaia di commenti, fu stampato, fotocopiato, esposto, letto a teatro. Anche questo testo, come altri miei, perse il nome dell’autrice, e divenne voce della gente. E di questo fui felice.

Montesilvano. Francavilla. Roseto. Pineto. Tortoreto. Alba. Metteteci quello che volete.
Esco dall’albergo, settimo piano di una torre gemella.
La notte è andata maluccio come sempre, ogni porta che sbatte un sussulto, ogni treno che passa il cuore che salta. Ma esco.
Mi sento sporca, in disordine, ho la testa confusa, non ho voglia di dire buongiorno in ascensore.
Sette piani di nulla.
Non mi preoccupo, la gente che è lì è uguale a me, non serve parlare, non diciamo nulla, zombie sfollati, solo zombie sfollati.
Abbiamo le stesse facce, lo stesso sguardo. Qualcuno telefona ai parenti. Bisbiglia… “Come va?..
Sì, noi tutto bene.. Ha rifatto stanotte? No, qui non si è sentito, tutto tranquillo. Sì sì, in albergo, serviti e riveriti… Non vi preoccupate.”
Serviti e riveriti, sì. Si sa che l’ospite è come il pesce… (Oddio, no… il
frigorifero… la corrente è staccata… cosa ci sarà nel mio frigorifero? Quando potrò tornare ad aprire un frigorifero?)

Parto dalla costa, dal mare ai monti dove lei si innalzava, antica e maestosa.
L’Aquila sembra Danzica, Sarajevo… (immagini televisive del passato… che guerra era… che anni erano, che succedeva, CHI ERO).
Vado verso quella che era la casa dove abitavo.
Passo per Via Strinella, gli occhi fissi per non vedere le case tagliate, i posti di blocco, le tendopoli. Le tendopoli… le tendopoli… le tendopoli…
Il moncone del nostro Torrione sembra una matita spuntata.
E’ piegata. In ginocchio.
Non ha più lo sguardo minaccioso di madre severa.
Non voglio vedere. Voglio vedere il mare.

Il mare oggi è nero. Mare nero… (Lucio Battisti, l’adolescenza, i portici, le vasche, le colonne).
Flash back. Quando mio cugino tornava all’Aquila da Modena, in tiro come ‘Ntoni Malavoglia di ritorno ad Acitrezza, passeggiavamo insieme, felici, sotto i portici. Ogni tanto ci fermavamo a salutare qualche amico. In genere era appoggiato alla colonna, fermo come Belacqua, e sempre il dialogo era lo stesso:
“Oè!…”
“Oè…”…
“Mbé?… “
“Mbè?….”
“Quanno sci rrevenuto?” …
“Ieri” …
“Ah… E quanno te nne revà?”…
“Domani”…
“Ah. … … So’ contento”.
Che non sapevi mai se era contento che eri tornato, o che te riandavi.
Forse più la seconda.
Perché l’aquilano resta all’Aquila, sempre.
E chi se ne va dall’Aquila, tradisce…

L’albergo è bello, un quattro stelle, è un peccato che stiamo qui a lavarci i calzini nella doccia. Gli albergatori, poverini, non capiscono. Ci prendono per turisti. I primi giorni ci mettevano il cibo nei piatti dicendo “Se non vi piace c’è sempre la tenda”.
Altro che serviti e riveriti…
Ma vada per questa camera di decompressione, pur di vivere altre notti come quelle (NOTTI DI TERRORE, NOTTI IN MACCHINA, NOTTI IN STRADA, NOTTI IN TENDA….)

Tenda, boy scout, adolescenza, anni Settanta, i panini a Specchio, papà che mi faceva assaggiare il vino frizzante con la gassosa.
La piscina, le gare, Bultrini, Marino Bon che mi guarda dall’alto del muro del campetto di cemento e mi dice “Vieni-su-che-ti-voglio-insegnare-io”
(Non voglio dimenticare niente, niente…)
La grotta con le aquile, Roio, la tana dei lupi nella pineta, i tramezzini di Scataglini, i panini de Ju paninaro col tonno e i sottaceti. NON VOGLIO DIMENTICARE IL FREDDO. Al meteo della RAI, sempre “L’Aquila non pervenuta”, quanto ci faceva arrabbiare…

Il mare è diverso. E’ caldo e accogliente.
Sembra minaccioso, ma in realtà ti rassicura.. va.. viene… ONDE… ONDE.. onde…
Lei ti respingeva. Come una madre severa ti guardava dall’alto, sempre.
E lui, Il Grande Sasso, te lo vedevi svettare a ogni angolo come un carabiniere al posto di blocco. Un cerchio di montagne e gli aquilani che cercano varchi d’uscita da sempre, ma solo per finta. In realtà il chiuso gli sta bene.
Lo straniero si crede più di te, ma lui non sa scalare, non conosce il passo della salita.
NON CONOSCE LA FATICA.
NON CONOSCE IL SILENZIO.
Non conosce la stasi del falco.

Madonna Fore, il Vasto, la scampagnata di Ferragosto, Toni Sopra, Toni Sotto, La Standa, Il Cinema Olimpia.
Le Cancelle. Sposta le Cancelle, rimetti le Cancelle.
VOGLIO RICORDARMI TUTTO QUELLO CHE GIA’ NON RICORDAVO PIU’ E CHE ORA COL TERREMOTO RICORDO DI NUOVO.
Il primo amore, i sogni, la fuga all’università, tutti gli aquilani veri tentano la fuga all’università, ma anche quella è finta, serve a tornare per scelta, serve a dire “io potevo anche andarmene ma sono qui”.

Eravamo riusciti a ricreare quello che cercavamo altrove: la vita il fermento i pub il movimento lo scambio. Avevamo studiato tutti fuori, negli anni Ottanta, Roma Perugia Bologna Milano: ognuno aveva riportato a casa un pezzettino di metropoli, e ora lei era proprio bella, proprio come l’avevamo sognata per i nostri figli. Ora lei era perfetta. Perfetta.

“Come te rammetti?” (Chi fuor li maggior tui?)
Avvocati, figli di avvocati, nipoti di avvocati, dinastie di avvocati.
E così notai, dottori, medici, imprenditori. Dinastie di costruttori.
Sotto i portici loro non passavano .. sfilavano!
Ma càla da ‘ss’arbiru de cici!!!…” (di ceci).
Pasta e ceci, Le Tre Marie, la pecora alla cottora, il salame “appiccato” in cantina, la iattarola alla porta. Mio nonno nella vigna, spietrata sasso a sasso per quanto lì la terra è cattiva..
Mirycae.

Inizio a scendere, manca poco a vedere il mare.
Il pino marittimo svetta, scompigliato dal vento.
Qui la terra è fina come la farina, pianti un seme e lui cresce: olio, vite, perfino le palme.
Lei invece era dura, dovevi strapparle la terra per coltivare.
Terziario, università, casa dello studente, casa dello studente, terremoto.
Maria Grazia, Ezio, Susanna.
TRECENTO (giovani e forti e sono morti). Cantilene dell’infanzia.

“Dovete tornare dal mare prima o poi! dovete tornare, che fate ancora lì?”
Dignità, non piangete, siamo aquilani. SIAMO IN MISCHIA, l’aquilano mette la testa dove gli altri non metterebbero neanche l’unghia del piede. NON DOBBIAMO PERDERE UFFICI, CENTRI DI COMANDO, NON DOBBIAMO MOLLARE O LA MADRE MUORE. Non vogliamo fare quelli del Sud che aspettano aiuto, diamoci da fare, siamo aquilani.
Ad reprimendam audaciam aquilanorum“,è scritto.
Ma io non ne ho più, di audacia. Lasciatemi piangere in pace.
Voglio solo andare in centro, vedere la casa dove sono cresciuta…

Posti di blocco, presìdi militari, stranieri che mi impediscono di passare, non capisco la loro lingua, non hanno la nostra voce, che ci fanno qui, perché la mia città è presidiata, perché????

Faccio il giro. Torrione… Colle Sapone, contrada Camerini. Mi sembra ancora di vedere Libero che torna a casa… Libero, il crupié, la mascotte cittadina… Macchina del tempo.. Radio L’Aquila, Stefano Vespa e le cronache del Rugby, Andrea Fusco, Giampo Spada, Toni Lo Cascio. Via Accursio, Via Bominaco…. niente. Solo la devastazione.

Siamo in hotel, serviti e riveriti.
Gli amici di fuori mi telefonano, stanno in tendopoli, vogliono vedermi e io non ci sono, perché io sono al mare a scrivere le cronache costiere. Si stupiscono.
Tornano tutti, anche quelli che sono partiti scrollandosi la polvere dai sandali.
Volevano fare i notai, i giudici, gli avvocati, i medici, i costruttori.
E senza dinastia hanno dovuto andarsene, ora parlano straniero, ma l’aquilanità gli resta attaccata addosso, e tornano.
Stefania da Roma, Chiara da Barcellona, Laura da Washington, Massimo da Manerbio. Perfino gli aquilani adottivi, quelli che ci sono passati e l’hanno amata, tornano. Non possono fare altro che tornare, vedere, toccare, cercare con gli occhi i loro pezzi di porto sepolto.

Ma sì ragazzi, tocca a voi ora. Noi, lasciateci andare.
Non ce la facciamo, tocca a voi, la madre ha bisogno, restate.
Restate almeno fino all’inverno, sarà un inverno freddo e allora voi partirete, tornerete a casa perché una casa ce l’avete. Invece noi saremo qui, come sempre. Presidio alla fortezza Bastiani. Restate voi, per ora.
Lasciateci ancora un po’ qui, davanti al mare.
A piangere i trecento morti, e i muri, e i sassi delle strade.
Lasciateci appoggiati alla colonna, le mani in tasca, l’aria spagnola… Quanno sci rrevenutu? – Ieri… – Ah… E quanno tenne revà? – Domani… – Ah. So’ contento…
Sì. So’ contento.
Proprio contento.

(Montesilvano, 1 maggio 2009)

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