IL DIALOGO DEGLI ADOLESCENTI CON LE ISTITUZIONI


Riporto qui il mio contributo al Convegno
“Rischio e resilienza negli adolescenti esposti ad eventi traumatici – 10/11 Ottobre 2011”
(Pubbl. su “Quaderni dell’Osservatorio sulla devianza minorile in Europa”
– Centro europeo di studi di Nisida) http://cdn.ais-sociologia.it/uploads/2011/09/seminario_AQ3.pdf

La fase dell’emergenza è finita: dopo due anni e mezzo si parla di resilienza, di ritorno alla normalità. In qualità di insegnante ho preso più volte pubblicamente una posizione precisa in merito alle necessità degli adolescenti aquilani, ma alcune mie previsioni sono state smentite dai fatti. Dissi, nell’estate 2010, che i ragazzi si sarebbero adattati nelle periferie, si sarebbero abbrancati in modo scomposto e avrebbero popolato nuove zone, creato nuovi equilibri, si sarebbero inventati nuovi divertimenti. Ma così non è stato: la città dei ragazzi è sempre una città parallela rispetto a quella degli adulti, ed essa ruota come un satellite intorno ad alcune stelle fisse che hanno caratteristiche sempre più globali. La generazione del “be hungry, be foolish” ruota intorno a ciò che più di tutto porta una boccata di ossigeno e di apertura mentale alla città intera: la vita degli studenti universitari. E gli studenti universitari hanno deciso che nessuna periferia vale un centro storico, se pure disastrato, se pure a cumuli di macerie, se pure chiuso quasi per intero. Sulla scia di queste abitudini universitarie, anche gli adolescenti si incontrano nei pochi nuovi/vecchi locali del centro, neanche a loro importa la scenografia post-atomica: prendono il loro drink, lo consumano nella zona antistante il locale stesso, una piazzetta, una strada, e lì parlano, ascoltano musica, fanno quello che fanno i giovani, finché alcuni escono dalle righe, bevono troppo, fanno danni, lanciano bottiglie contro i muri, smaltiscono i postumi fisiologici del troppo bere nel primo angolo o portone che capita, suscitando il giusto risentimento dei pochi che in quella zona sono riusciti a rientrare e vi abitano. Il fatto ha acceso un pesante dibattito cittadino, e la soluzione trovata è quella di non consentire l’ulteriore apertura di locali in centro storico. A questo punto c’è da chiedersi: ci interessa davvero la capacità di resilienza dei nostri ragazzi? I nostri ragazzi sono “normali”, sani e pieni di vita, pure in una condizione depressa come la nostra, pure con genitori schiantati e famiglie a pezzi. Ma siamo proprio sicuri che ci interessi quello di cui realmente hanno bisogno? Da profana, da semplice insegnante a cui sfuggono i meccanismi scientifici del processo di resilienza, mi chiedo: questa dei ragazzi va considerata come capacità di reazione? E’ un’energia che va assecondata, o è un fiume a cui vanno creati degli argini? E in questo caso: come fare per incanalare quest’acqua scomposta, come fare per non creare, al posto degli argini, dighe che generino ristagni paludosi? E’ possibile una resilienza dei ragazzi che sia imposta dagli adulti per modalità e direzioni? Chiudere una strada senza indicare un’alternativa alla strada chiusa, che cosa genera in una mente in età evolutiva? Daniel Pennac diceva che solo due verbi non possiedono l’imperativo: il verbo AMARE e il verbo LEGGERE. Non si può ordinare a nessuno né di amarci, né di leggere un libro. Io aggiungerei anche il verbo “resilire”. Non possiamo imporre il nostro modo di reagire, non possiamo negare il loro, senza quantomeno ascoltare, senza offrire una alternativa. E mi chiedo: il “No e basta” è uno di quei “no che aiutano a crescere”? E vengo dunque alla mia proposta: noi qui all’Aquila potremmo avere un modo privilegiato ed esclusivo per rafforzare la fiducia che i ragazzi hanno nello Stato e nelle istituzioni. I ragazzi apprendono dal fare oltre che dallo studiare, e fare democrazia vuol dire concedere loro degli spazi in sicurezza, spazi adeguatamente gestiti da facilitatori di iniziative. La scuola fa quanto è possibile, parla di normalità, parla di valori e sentimenti solidi e costruttivi, dirige il vortice emozionale degli adolescenti, canalizzandolo. Ma mi sento di dire che questo non basta: abbiamo una grande occasione qui all’Aquila, dettata proprio dall’emergenza e dal rischio. Non basta riempirci la bocca di celebrazioni per i 150 anni, non può passare il messaggio di uno Stato esattore che delega altri nel momento del bisogno. Senza entrare nel merito delle recenti vicende di cronaca locale legate a questo problema, noi siamo qui, noi siamo lo stato, noi siamo la città, noi facciamo il nostro lavoro, anche noi ugualmente terremotati e proprio perché terremotati. E vengo al punto. Contrariamente a ogni previsione, i ragazzi la città non se la scordano, inutile provarci, non se la scordano e basta: e non se la scordano ancora di più i ragazzi dei paesi e delle periferie, rispetto a  quelli che abitavano in centro storico e che adesso magari hanno trovato nuove esperienze e nuovi vantaggi nella vita in campagna. Io li vedo, parlo, discuto con loro. I ragazzi dei paesi trovavano nella città l’unico trampolino possibile che potesse sollevarli dal campanile. E mentre quelli della zona rossa “si godono” (si fa per dire) ora la campagna e quando si annoiano praticano escursioni settimanali sistematiche a Roma e a Pescara, centri che non solo non negano loro il vantaggio della città, ma addirittura offrono più occasioni di prima, trattandosi di città ben più ricche rispetto a quanto non fosse L’Aquila prima del sisma, i ragazzi dei paesi, quelli che hanno difficoltà ad allontanarsi e a muoversi, non hanno più nulla, e rivogliono l’Aquila, perché una città significa qualità, cultura, scambio di mode e pensieri diversi. Le due realtà, STRAPAESE e STRACITTÀ, devono esistere in assoluto dialogo e scambio reciproco.

Vorrei chiudere con la parole del Presidente Napolitano, pronunciate pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno scolastico al Quirinale: il suo discorso sembra calzare in modo impressionante a noi aquilani: “Penso che nelle vostre case (per noi, leggi: C.A.S.E., con i puntini) il peso delle difficoltà si sia fatto sentire. Voglio esprimere l’augurio che il nostro incontro l’anno prossimo si svolga in condizioni migliori di quelle in cui ci troviamo oggi, ma perché questo accada bisogna essere in tanti a fare ciascuno la sua parte.” E poi, rivolgendosi ai ragazzi, Napolitano dice: “E voi, RICHIAMATE TUTTI NOI AL DOVERE DI DARVI LA SPERANZA”. Parole straordinarie, parole di fuoco: prima un appello agli adulti, a chi ha potere, ma poi un appello anche ai ragazzi, perché si sentano ascoltati dalle istituzioni e proprio per questo riescano a farsi attori, protagonisti, portatori di istanze concrete, senza arrivare né a pretese arroganti, né a rinunce frustranti. Ma tutto questo può avvenire solo se essi verranno realmente ascoltati, attraverso un dialogo istituzionale autentico e costruttivo.

Foto di DENIS SUVOROV