DEAD MEN WALKING

Ormai ognuno
si sente un poco
un morto che cammina.

Non siamo stati in grado
di non morire tutti
il sei aprile.

Ci hanno fregato,
è inutile da dire.

Davanti all’evidenza
c’è ora l’impotenza,
l’attonito silenzio
del pudore.

E nulla vale, nulla ci consola.
Fatica ora l’impegno.

Sono altri “noi”, adesso,
quelli che vanno in giro.

Molti di noi
non sentono più puzza, né miasmi.

Molti di noi
Molti di noi
Molti di noi
sono fantasmi.

desert

Patty Smith _ Ghost Dance

RIVELAZIONI

Non mi ricordo,
Non mi ricordo,
Non mi ricordo.

Non mi ricordo un sacco di cose.
Ho cancellato volti, nomi, fatti, strade.
Mi accade
di ricordare solo l’essenziale.

Il terremoto
ha setacciato la farina dalla crusca
ha eliminato tutto ciò che offusca.

E’ solo buona educazione dire:
“non mi ricordo, sai, è colpa della terra
che ha tremato”.

Tu invece pensi
che ho il cervello un po’ bucato.

Con buona pace dell’educazione
sappi che non è che non mi ti sono ricordato.

E’ che proprio… non t’avevo mai notato.

 


io_libreria



Simon & Garfunkel – Mrs. Robinson

NEGAZIONISTI

E che va tutto bene.
E che le C.A.S.E. sono meglio delle case che avevamo prima.
E che non paghiamo le bollette.
E che dentro ci stiamo tanto ma tanto bene.
E che non ci diamo da fare per la ricostruzione.
E che non collaboriamo con l’amministrazione.
E che in città è tutto un fervore di lavori.
E che di che ci lamentiamo.
E che siamo dei piagnoni.
E che ci piace la lavastoviglie di Berlusconi.
E che siamo dei zozzoni.
E che dovremmo scendere giù a pulire.
E che chi stava in affitto qui non ci vuole venire.
E che stiamo nei ghetti e che ci sta bene.
E che al ghetto però di voi nessuno ci viene.
…..

E tutto questo mentre si sta
a mangiare panettoni
cucinare capitoni
e sentirsi tanto buoni
pacifisti
animalisti
antirazzisti
-però qui chi v’ha mai visti.

Siamo noi quello straniero
per cui fate gli altruisti
siamo noi dentro a una guerra
per cui fare i pacifisti.
Siamo noi
gli straccioni muti e tristi
e voi, la Storia lo dirà,
VOI
i negazionisti.


la-casa

Louise attaque – Vous avez l’heure

LA STORIA DI NATALE

Un giorno per la fretta s’è inceppata
la cerniera di uno scarponcino appena comperato.
“Lo butto… ” dissi dispiaciuta,
ma poi ci ho ripensato.

E sono andata da quel ciabattino
che ha la bottega proprio sulla strada
e non ha l’aria di servire Prada.

“Lo butto?” chiedo al calzolaio.
“Buttare? Io non ne ho mai buttate un paio.
Buttare è una parola che non ho mai detto:
perché io guardo, aggiusto e poi rimetto”.

Ha preso la mia scarpa l’artigiano
e sulla Necchi primi Novecento l’ha poggiata.
Con una subbia poi, a dente a dente,
in quindici minuti l’ha aggiustata.

Ho applaudito come una bambina
non per la scarpa, ma per tutta quella scena.

E nell’andare ho stretto la sua mano,
ruvida, consunta, da artigiano.

Sarei rimasta a lungo in quella stretta
ma l’imbarazzo ha vinto, e anche la fretta.

E sono uscita di nuovo sulla strada
dove viaggiano tutte le formiche
che hanno una sola legge da osservare:
essere stupidi, comprare, consumare,
andare sempre nuovi,
essere il proprio abito con tutta la stampella,
profumare di scemo
e non capire
un mulatto un albino una zanzara
una libidine
un rifiuto.
 


scarponcino


 

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Patty – Smells like teen spirit

SPETTACOLO

Avrà avuto vent’anni, il ragazzo.
Cappuccio sulla testa, e mani in tasca,
e gambe forti, e muscoli tirati.

Il passo, però, era piccolo piccolo,
frenato, innaturale,
lento come mai un ragazzo ha potuto
lento come mai in un ragazzo ho veduto.

Avrà avuto vent’anni, il suo cane,
quattro zampe a fatica trascinate
e pettorina, pulito e lucido il pelo.

Ho visto vent’anni di giochi, di corse sui prati.

Era il cane a tenere il ragazzo al guinzaglio,
a insegnargli il controllo del passo
e il rispetto del tempo che invecchia.

Ieri ho visto un cane
insegnare a un ragazzo
ad accettare il tempo
e perfino la morte.



ragazzo con cappuccio


Tom Weits – Rain dog

IL PIUMONE

Le vicissitudini di una città sconvolta. E l’urgenza dei problemi concreti, prima della grande nevicata…
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Spesa: fatta.
Casa: pulita.
Provviste: pronte.
Dicono che stanotte nevica.
Adesso torno a casetta e mi butto sul divano. Non mangio neanche, mi butto sul divano e chiudo gli occhi e non esco fino a domani, ammesso che domani si riesca a uscire.
Niente da fare, sorpresa: Teo ha sporcato il mio sacro piumone d’oca, da me venerato come una reliquia pre-sismica, e amato come Linus ama la sua copertina.
Teo mi guarda con aria interrogativa. Inequivocabile, ai piedi del letto, proprio sul bordo inferiore del sacro piumone d’oca, campeggia qualcosa di molto simile allo sgotto di un gatto.
In preda al panico, decido coraggiosamente di provvedere. “Stanotte nevicherà, e io come sempre dormirò sotto quel piumone, lo giuro!” Mi sento come Rossella O’Hara quando dice: “Non soffrirò mai più la fame, mai più!”. E mi piace.
Prendo il piumone e, pestandolo di forza come uva alla vendemmia, lo infilo dentro un grosso sacco condominiale, e vado in cerca di una lavanderia. Per fortuna non è lontana…. Niente da fare, chiusa. “Accidenti, oggi è lunedì. E il lunedì i negozi sono chiusi”. Inizio a parlare da sola. “Ma insomma, aprono la domenica e chiudono il lunedì? Fate i bravi, su, state chiusi la domenica, che uno sta a casa e magari ha tempo di far uscire il cane, e aprite il lunedì, che uno va a lavorare, no?”. Mentre brontolo cerco una self-wash. Cavolo, il cervello mi si annebbia, non mi ricordo dove sta una lavanderia self. Mi sembra al Castello. Vado al Castello. No, non c’è, il ricordo appartiene all’era pre-sismica. Allora è a Santa Barbara! La vedo col ricordo: grande, luccicante, a due vetrine, che quando ci passavo davanti mi chiedevo sempre chi mai andasse, in una self-wash. Ecco, ci vado io. Proprio io. E così, rotonda dopo rotonda, ci arrivo. Niente da fare, la lavanderia non c’è più, è tutto chiuso e diroccato. Anche quello è un ricordo di prima del terremoto. Che poi cominciano a essere quattro anni, cavolo, e come mai i ricordi non si sostituiscono con altri ricordi?
Comunque, gira che ti rigira, alla fine ne trovo una. E’ tutta libera, che fortuna! Infilo il sacro piumone da 8 chili dentro un igloo, cerco il sapone… No: sapone finito. Ah, ecco perché non c’era nessuno. Riprendo il sacro piumone dalla lavatrice, lo rinfilo nel sacco nero condominiale, lo ributto in macchina e cerco un’altra lavanderia. Quelle che conosco sono chiuse e non hanno il self-wash. Elaboro un piano B. Il buon senso mi dice: fai prima a ricomprartene uno nuovo. Ma la parte furba di me dice: no, non va bene continuare a comprare roba, quando ce n’è tanta ammucchiata un po’ qua un po’ là. Decido di dar retta alla parte furba. Vado alla casa rotta dove tengo la roba sfollata. Cerco di recuperare un trapuntino leggero ma caldo, che può ricordare da lontano il sacro piumone unito. Con la torcia accesa entro nella casa rotta, cerco, ma il trapuntino non c’è. Si sarà perduto sulle strade della California, i mille spostamenti di roba. Ricomincio la caccia alla lavanderia. Ne trovo finalmente una aperta, scendo dalla macchina e lascio lo sportello aperto e il motore acceso. Chiedo dalla porta: la signora dice che a lavare un piumone ci mette una settimana. “Una settimana? Ma scherziamo? Stanotte nevica! E IO DEVO DORMIRE SOTTO AL MIO SACRO PIUMONE”. La signora mi dice che c’è una Self a un centro commerciale lì vicino. Vado. Parcheggio, tiro giù dal bagagliaio il sacco come fosse un cadavere e lo trascino fino alla self. Noooo: c’è una fila che arriva fino alla porta. Parlano in una lingua che non capisco e sono vestiti in modo strano. Alcuni sono lì con tutta la famiglia. I bambini stanno giocando per terra con delle automobiline. Sembra quasi che abitino lì e che quella sia la lavatrice di casa. No: il sacro piumone non entrerà in quella self-wash. Torno indietro sempre trascinando il cadavere nel sacco, lo butto nel bagagliaio, e la parte furba di me dice: “Compro il sapone e vado a lavarlo in quella che ho trovato per prima”. Al primo supermercato compro il sapone e vado. Arrivo, infilo, accendo… Ce l’ho fatta! E invece…. salta la luce!!! Cacchio! Cerco di stare calma e di ragionare. Il portello per recuperare il sacro piumone non si apre. Dico: e mo? vabbé ripasso domani mattina, se non si apre, non me lo possono fregare… Mi viene da piangere a pensare al sacro piumone abbandonato lì, solo solo, di notte. Anche questa volta mi sembra di stare in un film tipo Io sono leggenda, in una società post-atomica. Cacchio, però nel film il cane non sporca il piumone! All’improvviso mi squilla il telefono: è Anna, dice che vuole passare a trovarmi. Dico “Anna, sei la mia salvezza, tirami via di qui”.
Prima di uscire vado a salutare il sacro piumone: voglio vedere come sta e mandargli un bacetto. Tanto per fare, provo ad aprire il portello e… miracolo, si apre! Recupero il piumone, lo metto nel sacco nero, butto il sacco nel bagagliaio e vado a casa soddisfatta.
Sto un po’ con Anna, ci facciamo il tè e io mi chiarisco le idee. Ma appena lei esce… mi ritorna la smania del piumone: DEVO DEVO DEVO riuscire a lavarlo prima di stanotte! Potrei tornare alla self-wash del centro commerciale, in fondo ora tutte quelle brave famigliole saranno tornate a casa a cenare. Ma credo che si farebbe mezzanotte per asciugare. Che io ci starei pure, ad aspettare il sacro piumone pulito fino a mezzanotte, Se non fosse che sta per nevicare e rischio di restare chiusa lì dentro fino al disgelo. Mi vedo come dentro a The Terminal. No, vedo Novalee di Qui dove batte il cuore. In effetti la scenografia ci sta tutta, pure quella urbana di Sequoyah in Oklahoma… Mi arrendo, torno a casa.
Guardo sconfortata il sacro piumone chiuso dentro al sacco nero condominiale. Sarà morto asfissiato. E decido di fare a meno anche di lui
Al diavolo, che nevichi pure. In fondo, siamo già al 25 novembre.
All’Aquila, tra poco, è Primavera.

 

lavanderia1

ALL’AMICA CHE TORNA A CASA

Lo so come ti senti:
felice di lasciare la capanna,
dire dopo quattr’anni “casa mia”,
e poi guardarti intorno
padrona finalmente
che per noi donne è come dire
“torno di nuovo a vigilare tutto”.

Eppure so quello che senti, amica,
lasciando noi compagni di prigione,
e so che proverai
quando dal letto tuo ci penserai,
coi nostri stracci ammucchiati sul balcone.

Vorresti portarci tutti via
lo so, Annalucia,
ma questo non è il nostro momento,
è il tuo, e non sentirti in colpa.

Per noi quel giorno, sai, è così lontano
che lo vivremo come la tua gatta:
spauriti
accucciati in un angolo del letto
senza mangiare e bere
prima di capire di nuovo dove stiamo.

Prima di poter dire ancora “io”.

gattadianna
La Splendida Gatta di Annalucia



Amelie – Soir De Fete


IL RIMBORSO

Io nel Duemilanove
vivevo, ma non mi ricordo dove.

Mi sentivo come un’auto incidentata,
come un cane abbandonato in autostrada.

Eppure c’era chi, tranquillo e per benino
riusciva a concepire di stamparsi il cedolino!

E’ il cedolino che rende manifesto
chi dopo quell’evento non s’è perso!

E’ il cedolino che distingue in bianco e nero
il terremotato per dire, dal terremotato vero!

Vattelappesca mo’ a ricostruire
dov’ero e che facevo a quel momento:
la testa gira a vuoto e io non me la sento.

Pare ci sia una proroga dei termini
e chi ci aiuterà a ripescare i numeri.

Magari qualcuno avrà capito
che il terremoto,
per tanti di noi,
eh…
no, non è finito…


 

Cedolino pagina2

REQUIES TIBI, PATER

E mi lasciasti sola in una piazza.
Ti nascondesti,
e mi tenesti d’occhio.

Quattr’anni avevo,
ed un gelato in mano.

Ma non piansi.

Mi dissi: “io sono invisibile!”
ed a passetti andai verso quel Vigile.

Allora tu venisti, sorridente,
e mi prendesti in braccio piano piano.

“Sei stata proprio brava, sai, e sono fiero!”
dicesti, a me che non capivo.

Capisco ora, padre.

E se sapessi
quanto più grande adesso è questa piazza.
Quanti pericoli,
quanto sentirmi persa.
Quanto gelato a terra m’è caduto.

Tu lo sapevi,
lo sentivi, allora,
e provasti per primo l’abbandono.

Riposa in pace ora,
padre mio:

il vigile urbano,
adesso,
sono io.

papà


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U2 – October

SCHINDLER LIST

E aspetto, trepida, aspetto
che esca una lista di nomi,
la lista dei buoni.
Magari ci fosse anche il mio.

Cattiva, aspetto su un filo
straniera alla casa, alla gente
sospesa.

Come un ragno, appesa.
Come in una stazione,
in sala d’attesa.
Come alla fermata del tram,
sotto la pensilina
guardo seduta gente che cammina.

Una fermata in aperta campagna,
una fermata per le corriere,
strada di polvere e di macerie.

E’ vita o tempo, quello che passa?
Vita, se vita
è quella di chi aspetta.

 
report aqbce



I Melt – L’intensità standard del vuoto

I PENSIERI DEI RAGAZZI SONO I PUGNALI

Questa è una piccola inchiesta effettuata in occasione del movimento di protesta “Studenti aquilani uniti” dell’11 ottobre 2013. Ho dato ai ragazzi questo topic: “Perché ho sfilato in corteo per la mia città”. Estrapolo qui i contenuti più significativi.


• “Quando si chiede a un giovane aquilano che cosa desidera, lui risponde “vivere”. Non vorremmo più vedere container in giro: quattro anni ci sembra un tempo ragionevole. Vogliamo vedere almeno una piazza in cui i bambini rincorrono i piccioni. E io voglio un motivo per alzarmi la mattina”.

• “Cani, gatti e topi tutta la settimana. Noi, solo il giovedì e il sabato. Sono stufa di aspettare, voglio prendere il coltello dalla parte del manico. Voglio un posto di riguardo sulla vostra scrivania. Io voglio una possibilità, perciò devo andarmene. Voglio andarmene, perché ci tengo a me, e non combatto una guerra persa”,

• “Noi giovani siamo diventati invisibili agli occhi dell’Aquila. Io preferisco ricordarmela com’era prima e andarmene via”,

• “La città è diventata di tutti ma non è di nessuno. Chi ci va non ci tiene, perché non può toccarla. Se mi bendassero e mi mettessero nel “mio luogo” io non lo riconoscerei come avrei potuto fare prima, per esempio dall’odore dei cornetti caldi, o dall’ombra umida del campanile. Potrebbe essere qualsiasi altro luogo, perché tra me e lui non c’è più nessun rapporto. Il vero danno è stato distruggere i rapporti tra le persone, e poi tra le persone e la città. Che poi è la stessa cosa”.

• “La lotta di noi giovani è una lotta ad armi impari. Dovrebbero partecipare alle nostre proteste anche gli adulti, perché la città è di tutti. L’Aquila vive solo due sere a settimana e l’unica cosa che ci puoi fare dentro è ubriacarti per dimenticare almeno per qualche ora il degrado che ti circonda”.

• “Come prima cosa io vorrei indietro la mia casa. Vivo scaraventata in un paese, la mia adolescenza è stata sconvolta. Vorrei almeno un posto senza troppe pretese dove fare sport liberamente, dove vedere persone che passeggiano, anziani, bambini e cani che corrono. Prima ce l’avevo, l’hanno chiuso per rifarlo ma sarà chiuso al pubblico. Allora potevano lasciarlo com’era prima, almeno faceva il suo servizio”.

• “E’ la nostra città, ma noi che abbiamo 17 anni ci siamo vissuti finora come degli estranei. Non siamo una generazione che chiede cose frivole. Vogliamo struttura per incontrarci che non sia un bar o un negozio. Ci viene perfino detto che le corse degli autobus al di fuori dell’orario scolastico devono essere ridotte perché sono inutili. Per loro è utile solo il tempo che passiamo a scuola. Ma la mia vita non può essere tutta utile e non può essere tutta scuola. Io voglio che la mia città mi sia utile, che essa sia viva dentro la mia vita”.

• “Un “nostro luogo” è un posto dove, chi prima e chi dopo, ci si incontra senza darsi un appuntamento. Ora questi posti non esistono più e si sono ricreati come posti virtuali sui social: “Quelli di Via Strinella”, “Quelli del Castello”. Ci si parla sui social. Fa tristezza, è tutto falsato”.

• “Vogliamo risposte concrete. Le autorità devono aiutarci ad uscire da questa situazione. Non sarà un gruppo di ragazzi a cambiare le cose, non ce la faremo, è troppo complicata la questione”.

• “Chiediamo luoghi di incontro, dopo quattro anni di attesa, strutture, spazi polifunzionali, adibiti al divertimento e all’istruzione. Eventi, concerti, serate. Eventi che valorizzino il territorio come gite, viaggi, escursioni, visite guidate”.

• “L’unica cosa di cui sono convinta, in questa confusione che ho dentro, è che non voglio mai più avere la parola “precarietà” nel mio futuro”.

• “Esci, bevi, ti ubriachi, ti dimentichi per un po’ di dove ti trovi e al mattino ricomincia tutto com’era prima. Io vivo in un paese e qui c’è un bellissimo spazio polifunzionale dove ci sono computer, rete Internet, sala studio, sala musica e sala relax. Perché queste cose non si possono fare anche all’Aquila? Quando i miei compagni di classe mi telefonano per chiedermi di scendere all’Aquila io gli dico: “ma che ci vengo a fare?”. Però se non possiamo incontrarci non possiamo neanche organizzare qualcosa di coinvolgente, qualcosa che ci faccia sentire vivi”.



okkupaz




Li ffigliole. Villanella a ballo. NCCP.


QUANDO TORNERO’ A CASA

terrazzosfumato

Sarà di Primavera.

Qualunque sarà l’anno,
metterò vestiti nuovi
tutti leggeri e a fiori.
Sarò com’ero da bambina.

Oltre la soglia
poserò il mio piede,
chiuderò gli occhi
mi tufferò d’azzurro.

Allora, proprio allora,
a te andrà il mio pensiero,
ultimo uomo
che m’hai trovata sola
dentro a un pozzo,
in mezzo al grande parco
su una panchina verde ad aspettare
da così tanti anni,
col caos dentro la testa
e gli occhi consumati di macerie.

Manderò un bacio, allora.

Sorriderò pensando a noi
e, avvolta in quel lenzuolo tutto rosso,
fiera dell’uragano che noi fummo

sorriderò pensando che,
in barba allo scenario squallido,
il nostro gran spettacolo
… eh sì…
fu davvero un piccolo miracolo.



Ed Sheeran – The A team

STRACCIAVESTI

 
Chi si concede lacrime
ha di che godere dal piangere.

Pance facili, dita leste da ficcare
nella gola dei facili lettori.

Quanto meglio la rabbia.
Quanto più sano il silenzio.

Le lacrime non vanno da fuori a dentro,
da dentro a fuori vanno le lacrime.

Tenetevi i vostri libri bagnati,
perché non ha lacrime la compassione.

Nelle cose si trovano le lacrime.

Siano le lacrime delle cose.

 

stracciavesti

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Buddy Guy – 74 years young

L’AQUILA TOUR IN BLUES

L’Aquila, 1 settembre, domenica mattina, ore 9,00.
Faccio un giro in macchina, da Piazza D’Armi fino alle macerie di casa mia, ancora rasa al suolo. La vedrete come un piccolo sito spianato, in mezzo a palazzi già in ricostruzione.
In realtà volevo soltanto andare a scattare un po’ di foto lì in zona, poi per strada mi è saltato in mente di accendere la cam così, per gioco, e di appoggiarla al portaocchiali che avevo appeso al collo. La strada che vedrete percorrere è Via XX Settembre, e ci sono tutti i colori del sisma: i palazzi crollati, i nastri di transennamento, i puntellamenti. E fin qui niente di nuovo, la solita pappa.
Ma quando a casa ho rivisto il filmato, mi sono accorta che la musica che stavo ascoltando in macchina riusciva a sincronizzarsi perfettamente, in modo del tutto casuale, con le situazioni del tour. Per esempio, quando all’improvviso mi compare davanti un trabiccolo tipo “Ape”, carico di roba da traslocare, forse uno svuotacantine, la musica cambia, si adegua alla scena. E quando arrivo a casa…. beh.. quando arrivo a casa… che coincidenza impressionante! se mi fossi proposta di farlo, di sicuro non ci sarei riuscita. E’ che il blues ci sente…. e ci accontenta sempre.
Che ho pensato davanti a casa mia? Per la prima volta, dopo quattro anni, ho pensato:
“Basta, non me ne importa…”
E ho spento la cam.
Ma la musica continua nella testa…




L’Aquila tour in Blues

Il video non è più disponibile, qualcuno lo ha segnalato…. BOH!


UN RICORDO DA BUTTARE

I dibattiti di ogni anno prima della Perdonanza, all’Aquila, sono un classico.
La Perdonanza divide gli aquilani, da sempre, ma mai come dopo il 2009.
Qui racconto che cosa successe proprio quell’anno, a cinque mesi dal sisma.
Che accadde, nella prima Perdonanza dell’era post-sisma? Nella tendopoli di Collemaggio ci tremarono le gambe, perché dissero che avrebbero spostato il campo per far passare il Corteo storico della Bolla. E’ storia, tuttora reperibile in qualche archivio, per esempio nell’archivio storico de “Il Capoluogo”
(cfr: http://old.ilcapoluogo.com/tendopoli-di-collemaggio-non-siamo-valigie/8480).
Questa è la mia narrazione, quattro anni dopo.
Panico, indignazione e… come andò a finire.

_____________

 

“Domani ci spostano”
“Ci spostano? E perché?”
“Passa la Perdonanza”
“Passa la Perdonanza?”
“Sì, passa il corteo della Perdonanza”
“E dove ci mandano?”
“Ci smistano in altri campi”
“Ma che dici? Stai scherzando vero?”
“No, è così, l’hanno detto ufficialmente”
“Ma come? Stanno a pensa’ alla Perdonanza? E a noi ci annullano? Ci sopprimono? E in nome di che?… In nome di … DIO?”
“In nome di Dio e degli uomini, Luì, perché chi perde esce, e il lupo se lo mangia”.

          La fila davanti a noi, nella tenda-pranzo, si muove. Antonello si volta a prendere il vassoio, lo apparecchia, ci mette dentro il pane e le posate, sfila lentamente insieme a me davanti al nastro delle vivande. Il buonumore degli inservienti sembra una presa per i fondelli, in giorni come questo. Pare si divertano un sacco, gli inservienti volontari della mensa, ballano e cantano a suon di musica, come i clown che vengono periodicamente a regalarci palloncini a forma di animali. Ballano, cantano, gonfiano palloncini, tutta roba che può andar bene per chi una casa ce l’ha ancora e sa di poterci tornare, non per me, non per Antonello, non per quelli come noi. Ballano cantano gonfiano palloncini, ci urtano i nervi, ma non puoi dirlo, se no ti danno del menagramo, non puoi dirlo neanche in giorni in cui la beffa tocca il culmine, giorni come questo, in cui si decide di sgomberare il Campo di Collemaggio, il nostro campo.
Arrivati al tavolo, Antonello riprende da dove aveva interrotto, seduto di fronte a me.
“A me non è che me ne frega più di tanto”
“A me sì. E’ uno schifo. Io non lo reggo, uno spostamento”
“Che vuol dire non lo reggi? Abbiamo solo quattro stracci. Allora quando si tratterà di abbattere la casa che farai?”
“Non lo reggo, non lo reggo ti dico. Sono attaccata a questo posto come a una zattera, e non mi voglio spostare, non voglio essere smistata come un avanzo di cucina”
“Ma tu SEI un avanzo di cucina. Ma non lo vedi? Il resto della gente non lo vive come noi. Siamo in pochi, tutto sommato, a viverla così”
“E come la vivono, loro?”
“Come un’occasione. Come la loro occasione, e la coglieranno stai certa. Mettiti tranquilla, è così che va il mondo. Non sarai tu a cambiarlo”.
“Io non voglio cambiare il mondo. Voglio solo che non mi spostano di tendopoli”
“Non è possibile, loro possono quello che vogliono: dicono Pescasseroli e vai a Pescasseroli. Dicono questo si sposta da qui e si mette qui. Semplice”
“Da qui mi sposto solo per un tetto, non per un’altra tenda”.
Rimesto nel piatto, io, mentre Antonello manda giù roba senza sentire il sapore.
“Devi mangiare Luì. Ti aspettano tempi duri… devi stare in forze. Portati una bottiglia d’acqua la mattina, mettici dentro un integratore e mandala giù un po’ alla volta, quando sei al Container 19, dammi retta. L’inverno sarà lungo, anche se avrai l’assegnazione di una casa. Proteggiti, devi tirare la baracca. E cerca di dormire”.
“Sì sì, dormo, ma ci prendono e ci spostano, e io non lo sopporto. Ma non lo capiscono che siamo ancora sotto choc? Che siamo comunque stanchi e destabilizzati? E poi perché? Per far passare il corteo della Bolla? Ma non si vergognano? Una città in lutto, morti, migliaia di case distrutte e loro pensano al corteo della Bolla. Stiamo qui da cinque mesi, la basilica è sempre stata off-limits, e ora all’improvviso diventa praticabile?”
“Mettiti tranquilla, non ci puoi fare niente”
“Oh sì che posso, io non mi muovo da qua. Non sono una cosa”.

Raccogliamo i vassoi e andiamo al distributore di caffè. C’è un cartello: il caffè è stato tolto dai campi, lo considerano una bevanda eccitante.
“Bevanda eccitante? ma che bella novità!”
“Eh… Luì, non guardare al nostro campo. Pare che a Piazza D’Armi ci siano risse continue, prostituzione, spaccio… Devono tirare le redini con gli alcolici e tutto il resto”
“Ah, e perché non smistano quelli, di campi, invece del nostro, in cui queste cose non succedono e c’è gente normale?”
Quando dico ”gente normale” arriva Luciana: solite carte in mano, soliti occhiali sulla punta del naso, solita aria da fricchettona riciclata.
“Allora la firmate questa petizione? Vogliamo il diritto di assemblea che la protezione Civile ci nega. Venite, firmate”. Ci defiliamo mentre lei cerca di inseguirci e Antonello farfuglia qualcosa tipo “ma guarda ‘stra str**za, c’ha la casa agibile e la coccia fresca, perciò sta a pensà a litigà con la Protezione Civile…
Facciamo un pezzo di strada insieme, Antonello e io, verso l’uscita. Nella tenda-cambusa c’è il personale che raccoglie i moduli per le assegnazioni col Programma Gioiello.
“Tu ci credi?” mi chiede Antonello, facendo un cenno con il capo a indicare i moduli.
“Neanche un po’” dico io “e con la storia dell’informatica sistemeranno le cose al solito modo. Sarebbe così anche con la gestione locale”.
“Sarà così anche con la gestione locale, perché è quello che succederà. Ma ora dobbiamo ragionare alla giornata. Dai, in fondo non è male se ci smistano in qualche campo meglio attrezzato”
“Ma Antoné quale meglio attrezzato? io non sono in condizioni di ambientarmi da un’altra parte. Lo capisce chiunque che in queste condizioni meno ci si muove e meglio è. Ma com’è? Agli alberghi mandano gli psicologi e qua ci smistano come pacchi postali? Ah già, noi siamo la feccia, quelli che non si sono lasciati deportare. Le loro beghe politiche sulle nostre teste”
“Falla finita Luì, gioca in economia, dammi retta, non sprecare energie. Per noi la guerra è appena iniziata. Chissà quanti anni dovremo passare, noi, in queste condizioni. Non ce ne abbiamo, Luì, lascia perdere, dammi retta, economizza, economizza, abbassa la coccia e ‘ngrufa”.
“Quant’è vero Iddio io non mi sposto da qua Antonè. Devono venì con le ruspe, per levarmi dalla tenda. Io non c’ho più niente da perdere, l’hai capito o no?”.

Camminiamo verso il posto di blocco all’uscita della tendopoli. Una troupe televisiva sta  intervistando il Capocampo e qualche passante sul problema dello smistamento. C’è un tizio che dice al giornalista: “Non possiamo negare il diritto al ritorno alla normalità, L’Aquila deve volare, i fedeli hanno diritto al rito”. “La tendopoli non si tocca” dice un altro “i terremotati sono trattati come oggetti dai loro stessi concittadini, è vergognoso, e ci tocca pensare che questo sia solo l’inizio. Chi ha perso tutto verrà spostato e rispostato, e chi non ha perso niente vive tutto questo con una leggerezza imperdonabile, accusando gli altri non voler riprendere la vita normale”.
Antonello se ne va sconsolato, mi lancia uno sguardo per dire “lascia fa’, non serve”, mentre io vivo una guerra tutta mia: le gambe tremano, vogliono andare a dirne quattro, i pugni fremono, vogliono battere. Ma la testa dice no. E il cuore è piccolo come una prugna secca.

La tendopoli di Collemaggio non fu mai spostata.
Il corteo si fece con altro percorso: parco, orto botanico, cerimonia all’aperto.
La porta santa si aprì. E io andai a vedere la basilica.
Fu la prima grossa rovina che vidi con i miei occhi, dal giorno del terremoto.
Entrai, alzai gli occhi sull’abside, barcollai, cercai un posto dove appoggiarmi per non cadere. Non piansi, sentii solo un lunghissimo lamento nella testa.
Da allora, altri quattro Ventotto di agosto ho vissuto, ogni anno ricchi e sfarzosi, arroganti e pretenziosi. Da allora, li detesto. E finché non riavrò la mia casa e la mia città, posto per baracconi, per me, non ce n’è.
Vivo da persona danneggiata: non lascio più scandire il mio tempo dalle feste. Mi ascolto. Scelgo solo gente che è come me. Non fingo che non sia accaduto, non parlo mai di ali, evito banalità, non alimento giostre e giostrai per riempirmi la bocca di riso.
Mettiti tranquilla, non ci puoi fare niente” fu l’ultima cosa che Antonello mi disse quel giorno, uscendo dalla tendopoli.
E sì che sono tranquilla.
E no che non ci posso fare niente.
Solo provare a essere felice.
Ma felice veramente.

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tendopoli
 

2009 Perdonanza

IL SORRISO DI CELESTINO

           Il ritorno di Celestino in Basilica ha avuto ieri un che di prezioso e di commovente. Trasportato da una camionetta dei Vigili del Fuoco aperta e rossa fiammante, scortato da un manipolo di ragazzi dalla faccia buona e dalla divisa amica, Celestino ha avuto un rientro da film: partito dal convento di San Basilio, s’è fatto largo a fatica, su quella camionetta bassa e scoperchiata, tra i ragazzi che affollavano la zona della Fontana Luminosa come ogni domenica pomeriggio. Vestito a nuovo, col viso d’argento, i piedi un po’ sollevati, sembrava vivificato, dopo tanti secoli di immobilità. Passava e i ragazzi dicevano “Uh, guarda, Celestino!” sorpresi a vederlo girare per le strade della Zona Rossa. E così, piano piano, il povero cristiano è arrivato nella meravigliosa basilica. Ad accoglierlo, tante autorità, un bel gruppo di fedeli, tanti vescovi e prelati, in una di quelle cerimonie solenni e incensate che sa di Medioevo. Tra le autorità e i fedeli c’era la Senatrice Blundo, che ha partecipato in modo evidentemente sentito a tutta la cerimonia. Non so se sia laica o credente, la Senatrice Blundo, e non mi importa di saperlo. Lei c’era, e m’è piaciuto, perché invece ad agosto ci saranno tutti, laici e cattolici, a sfilare per Celestino nella grande sagra paesana del costosissimo corteo. E non mi piacerà. (http://www.inabruzzo.com/?p=51067) Questo ed altri pensieri mi ronzavano nella testa, ieri, pensando agli ultimi quattro anni della nostra città. Alla fine del rito mi sono avvicinata al papa del gran rifiuto e l’ho guardato da vicino. Sul volto d’argento gli hanno disegnato un sorriso, un sorriso deciso, fin troppo marcato. Dopo una prima reazione di stupore e forse anche un po’ di scandalo, ho pensato che forse è giusto così, hanno fatto bene, è stata una buona scelta, il sorriso di Celestino. E me ne sono andata a casa, canticchiando con un po’ malinconia, una vecchia e profetica canzone di De Gregori….

Pezzi di strada, pezzi di bella città
Pezzi di marciapiedi,pezzi di pubblicità
Pezzi di Casa Savoia,pezzi di Borbone
Pezzi di corda, pezzi di sapone
Pezzi di fame, pezzi di immigrazione
Pezzi di lacrime e pezzi di persone
Pezzi di ferro, pezzi di cemento
Pezzi di deserto,pezzi di frumento
Ognuno è fabbro della sua sconfitta
E ognuno merita il suo destino…
… Gira i tacchi e vai in Africa, Celestino!




Francesco De Gregori – Vai in Africa, Celestino!



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IL BISOGNO DI RICORDARE, IL BISOGNO DI DIMENTICARE

Questo scritto è stato pubblicato su L’Aquilablog il 7 aprile 2013

Tra questi due bisogni viviamo lacerati e spaccati, all’Aquila. Si sta sotto il giogo di questi due padroni che si odiano e baruffano.

Il primo, il bisogno di ricordare, ti sveglia al mattino quando sei fragile, caldo di sonno. Come un martello picchia e ti dice “IO ESISTO, RICORDAMI! NON LASCIARMI MORIRE DUE VOLTE”. Ha il volto di chi non c’è più. E dei muri dei vicoli antichi, dei selciati per giocare a campana, delle strade percorse per mano quando eri creatura.

L’altro, il bisogno di dimenticare, ti assale quando ti lavi la faccia e la sollevi allo specchio. L’acqua fredda ti grida: “DIMENTICA! VAI AVANTI O PERDI ANCHE IL POCO CHE RESTA”. Ha il volto dei ragazzi, dei giovani, delle case nuove, ha la voglia di ridere, ha l’odore dei mandorli, e i sogni di un nuovo palazzo. Odora di tintura fresca, e ha un balcone colmo di gerani che ti chiama e vuol vederti affacciato.

Scarti. E inizi la giornata chiudendo i due bisogni tiranni, ricordare e dimenticare, in un angolo della testa in cui li lasci a litigare. Lavori mangi fai la spesa ami sorridi cucini dormi perfino, con il rumore di quei due che baruffano, perennemente in lite. Uno si affaccia e ti racconta dell’Aquila bella té, poi l’altro ha il sopravvento e dice: “Vai avanti”.

Così viviamo all’Aquila, dopo quattro anni.
Dobbiamo imparare, ancora, forse è presto per dire che

“… se resto, c’è un andare nel mio restare,
se vado, c’è un restare nel mio andare”…

Gibran qui parla della casa che ti tiene legato, e della strada che ti slega.
Regalavo questa poesia ai miei studenti prima dell’esame di maturità, come viatico.

“Restare e  andarsene – spiegavo – sono la stessa cosa. Perché da lontano senti la parte di te che è rimasta, da vicino ascolti quella lontana che ti chiama”. Spiegavo questo, prima della maturità.
Non siamo maturi, noi, ancora, per capire queste scarne parole. E’ presto, ancora: aspettiamo, impariamo, lavoriamo, ricostruiamo noi stessi, prima ancora delle case e delle strade.

Prima o poi ricordare non sarà più un dolore, e dimenticare non sarà più una fuga.

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Bee Gees – Don’t Forget To Remember Me

ZONE DI RIPOPOLAMENTO AQUILANE

Lo scritto uscì sull’AquilaBlog.
Raccontavo come si vive nelle C.A.S.E.
Provocatoriamente, simulai un report su uno studio-ricerca effettuato da una prestigiosa Università totalmente inventata.
Cercai di essere chiara in questa simulazione, inventando dei nomi suggestivi: “Uffinton University di Puddingbay”, “Professor Buffery”…
Ma siamo talmente pieni di prestigiose università che fanno i loro studi qui, per puro intento speculativo, che… un sacco di persone pensarono che era tutto vero!
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Chi abita nelle C.A.S.E.? Quali sono le caratteristiche delle persone che hanno deciso di stabilirsi nelle new-town? Come si relazionano gli abitanti delle case antisismiche con il resto della cittadinanza aquilana? E come si relaziona la cittadinanza aquilana residente in case vere con quella residente nelle new-town? Per rispondere a queste domande i ricercatori della Uffinton University di Puddingbay, guidati dall’esimio Professor Buffery, hanno realizzato uno studio meticoloso in quattro anni di osservazione dello Zeitgeist locale. Dalla prima emergenza a tutt’oggi, camuffati da postini, volantinari, spazzini e macellai, hanno registrato opinioni e osservato paradigmi, pervenendo ad un inventario analitico capace di evidenziare anche le implicazioni mediatiche responsabili dei più diffusi convincimenti. Dal saggio “Zone di ripopolamento aquilane” (in: “Aquilan reforestation areas and population’s behavior against C.A.S.E. project buildings”, Uffinton University, Puddingbay, 2013) propongo, in esclusiva assoluta, un report divulgativo.
Chi abita dunque nel P.C. (leggi: “Progetto C.A.S.E.”, n.d.r), secondo la rappresentazione collettiva aquilana?

  1. La prima tesi è che nel P.C. vivano dei berlusconiani colmi di gratitudine, che – privi financo di una lavastoviglie nella vita precedente – hanno qui trovato quanto da loro sognato. Trattandosi di una sacca popolare ignorante e reazionaria, è bene tenerla a distanza e impegnarla nella sua occupazione preferita: guardare partite di calcio, telenovelas e talk-show. E’ sufficiente garantire un ottimo segnale video per farla “betrayed and stricken”.
  2. In subordine, nel P.C. abitano comunisti mangiatori di bambini. Vivono di spesa proletaria e sono perfettamente mimetizzati da persone normali, pur essendo una risma di cialtroni. Numerose le reazioni contro di loro: “Che diamine. Li hanno rivestiti, gli hanno dato una casa meglio di quella di prima, gli hanno messo il giardino, il laghetto, i vialetti di ghiaia, e loro non ci vogliono stare, e criticano tutti i provvedimenti che vengono presi. E non vogliono pagare né l’acqua dei bei laghetti, né le luci dei vialetti, né la cura dei giardinetti”. La propaganda ne intervista alcuni quando è il momento di dare la caccia al colpevole del deficitfinanziario delle casse pubbliche: la colpa del deficit è del P.C. che pertanto ha il dovere di risanarlo, capro sull’altare del bilancio.
  3. Terza tesi: nel P.C. abitano slavi, albanesi, zingari e nomadi di ogni razza e provenienza che, saputo del terremoto aquilano, si sono riversati in cerca dell’Eldorado e hanno ottenuto degli alloggi per sé e per le loro tribù. Questa categoria è comunemente indicata come “last user“: ricostruita L’Aquila, i P.C. diverrebbero dei ghetti per immigrati, ammesso che le CASE siano in grado di resistere al trascorrere di tre lustri.
  4. Quarta tesi: nel P.C. abitano lavoratrici autonome, di sesso non ben definibile, che esercitano in questi caldi appartamentini la professione che prima esercitavano sulla strada. Nella casistica possiamo far rientrare anche quei personaggi di dubbia moralità che prestano il loro alloggio a colleghi amici per fare festini, in cambio di favori o denaro, quando non di prestazioni sessuali. La propaganda ne parla per consentire che i P.C. siano costantemente controllati per garantire la sicurezza dei residenti (dei residenti fuori dal P.C, naturalmente).
  5. Diffusa è anche la tesi per cui gli abitanti dei P.C. siano anche dei ricchi commercianti della Zona Rossa che, dopo aver trasferito tutti i loro averi all’estero o nelle banche svizzere, vivrebbero mimetizzati da poveri disgraziati, come Paperon de’ Paperoni nel Klondike, per evadere il fisco. A tal fine avrebbero fatto richiesta di un alloggio dei P.C. Si dice che ogni tanto costoro spariscano per una settimana, destinazione Saint-Tropez o Portofino, per controllare lo yatch ormeggiato nella baia. Tali dicerie mirano a scatenare sul P.C. le antipatie della fascia povera dei cittadini che non dormono nelle lenzuola rosse.
  6. Altra tesi: nei P.C. abitano solo gli idioti. Se non fossero idioti, avrebbero già preso delle case in affitto, invece che starsene in quelle di cartongesso, no? Pagherebbero qualcosina ma via! costerebbero di meno alla collettività (sui costi di gestione dei P.C. cfr. “Defects’ management and costs of unnecessary things in the CASE Project of L’Aquila “ibidem, pp. 315-378).
  7. Ultima tesi: l’abitante-tipo delle new-town è uno che pretende assistenza. Chiama la manutenzione per qualsiasi cosa! Se si rompe una lampadina, il rubinetto del lavandino, l’intonaco di un muro, lui chiama l’assistenza. L’immagine, falsa come Giuda, fa riferimento al cliché del meridionale piagnone, tipicamente italiota, abusato dai mass-media e ora utilizzato dagli aquilani contro gli aquilani stessi, cioè contro gli abitanti dei P.C. che continuano a lamentarsi in modo petulante e fastidioso, impedendo a tutti gli altri di riprogrammarsi l’esistenza.
  8. Un discorso a parte meritano gli abitanti dei MAP, bizzarre creature in verità, poiché pare che questi abbiano carattere piuttosto selvatico, amino la vita di campagna e (a quanto si dice) coltivino erba in giardino, in ricordo del loro passato da fricchettoni. Alcuni allevano una gallina, che vien su particolarmente allegra, perché ogni tanto dà una beccata all’erba. Le loro seratine a base di balli rurali e organetto hanno destato l’interesse del Dipartimento di Arti Cinematografiche di Puddingbay che, realizzando il corto “I’m running away from L’Aquila: life, love and hens”, si è aggiudicato il premio “Woodstock d’Italia” 2013. Fatto sta che i MAP appaiono, al resto della cittadinanza locale, autoeliminati dal gioco dell’Oca. In fondo si sono levati dalle scatole da soli, proprio come fecero i fricchettoni.

Ora, scorrendo la cronaca locale (cfr. allegato n. 48 della ricerca) emerge che alcuni episodi assimilabili alla casistica sopraelencata si sono effettivamente verificati, ma si tratta di mere eccezioni. Al contrario possiamo dimostrare che, in buona sostanza, nelle zone di ripopolamento aquilane ci si arrangia con grande dignità e si collabora per sopperire a regolamenti che non regolamentano, contatori che non contano, pulitori che non puliscono, giardinieri che non giardinano. Perché, allora, tali campagne diffamatorie? La vera colpa degli abitanti del P.C., secondo il sentire comune, è che non hanno alcuna intenzione di ricostruirsi la casa. E’ infatti lapalissiano che se ogni abitante dei P.C. si desse da fare, si rimboccasse le maniche e se ne tornasse a casa sua, L’Aquila sarebbe evidentemente già ricostruita! Logica inconfutabile… Gran parte dell’Intellighentia radical chic, insomma, sceglie questa soluzione rudimentale. La vediamo prodigarsi verso i terremotati di tutto il resto del pianeta, e schifare quelli che stanno fuori dalla porta di casa. Logica umana e civile vorrebbe che i cittadini terremotati venissero sostenuti, e i complessi antisismici ben curati. Converrebbe considerare i P.C. come una risorsa presente e futura, vedere in essi futuri alberghi, ostelli della gioventù, alloggi per famiglie dei ricoverati dell’Ospedale Regionale, case per i docenti e studenti dell’Università. E invece no: i più vedono in essi qualcosa che deve andare in malora con tutti gli abitanti. Abitanti così numerosi da avere la forza di un partito, ma così colpevolizzati da non accorgersene. Abitanti che potrebbero, con assoluta potenza contrattuale, chiedere la ricostruzione delle loro case prima di qualsiasi altra inutile velleità, potrebbero chiedere di non dirottare i soldi altrove prima di aver ricostruito le abitazioni, o di coinvolgere gliarchistar in progetti di manutenzione dei complessi antisismici, invece che in preziosi quanto inutili gioielli di Arte Contemporanea. Ma loro (sic!) non lo fanno! Questi cittadini potrebbero essere la risorsa più grande della città dell’Aquila, una risorsa intrisa di rabbia e di stanchezza, e invece ne sono il punto più fragile e scoppiato. Sarà difficile, sostiene il Prof. Buffery, sollevare i P.C. dal limbo gassoso in cui veleggiano: chi ci abita deve considerarli da un lato alloggi temporanei, quando vede risparmiare sulla fornitura dei servizi, dall’altro definitivi, quando i tempi della ricostruzione si dilatano o c’è bisogno di liquidi. Troppo facile per il Prof. Buffery e la sua equipe, addurre l’esempio delle superbollette, accolte con soddisfazione da tanti cittadini che una casa ce l’hanno. L’esimio ricercatore adduce, invece, l’esempio significativo degli isolatori antisismici: rotti, per l’opinione comune, quando serve dire che le case fanno schifo, ma perfetti, se in qualche P.C. spunta un’area di prima accoglienza. Lo studio si conclude in modo sconfortante: finché non si innescherà un circolo virtuoso in cui la soluzione per i terremotati aquilani (quelli che non hanno più la casa) diventerà la soluzione di tutta la città, le cose resteranno in questa schizofrenia collettiva e non ci sarà la spinta utile alla ricostruzione. Fino ad allora i terremotati aquilani (quelli che non hanno più la casa) dovranno rassegnarsi a stare in modo stabile in un alloggio che ha la precarietà del provvisorio e i costi del definitivo. Singolare, vero? D’altronde, si sa che “la Storia è un palinsesto che può essere raschiato e riscritto tutte le volte che si vuole”.

 

case neve

CURRICULUM VITAE

Diplomata al Liceo Classico “D. Cotugno” dell’Aquila, ho conseguito la Laurea in Lettere presso l’Università di Perugia con il massimo dei voti. La tesi di laurea in Letteratura Latina, a titolo ‘Gli Adelphoe di Terenzio’, è stata pubblicata negli Annali della facoltà di Lettere e Filosofia della Università di Perugia (Vol. XXI, 1983/84, 1, Studi Classici).

Ho curato e approfondito le competenze didattico-scientifiche nel settore dell’Italianistica, conseguendo, nell’ a.a. 1985/86, l’incarico di “Assistente incaricato alle esercitazioni per l’insegnamento di Italiano” con il Prof. Giovanni Pischedda. Nel corso di questo incarico ho pubblicato due studi tecnici sul Teatro Medievale Abruzzese. (Per una nuova lettura dell’ ‘Officium Quarti Militis’, in: Annali dell’ISEF, 1987; ‘I movimenti scenici nella Sacra Rappresentazione del Deserto’, ibidem, 1988)

Vincitrice di Concorso per le classi LVII e LXIX, sono stata nominata in ruolo nel 1987 per l’insegnamento di “Materie Letterarie e Latino nei Licei” presso il Liceo Scientifico di Sulmona. Qui ho iniziato ad approfondire lo studio delle tecniche e della didattica della scrittura creativa, guidando i miei studenti al conseguimento di importanti riconoscimenti. (4° posto al “Concorso nazionale di poesia Fabio Scovenna”, Parma, 1988; finale al Concorso “Una favola per l’Unicef” , 1989; 1° e 2° premio del Concorso di Poesia “Abruzzo Loppiano”, presieduto da Mario Luzi)

Presso il Liceo sulmonese ho inoltre frequentato nel 1987 il primo corso di Alfabetizzazione Informatica, in 50 lezioni teorico-pratiche, sostenendo il colloquio finale.

Ho collaborato col Dott. Massimo Giuliani ad un’esperienza di didattica della Letteratura Italiana nel campo psico-linguistico, realizzando uno studio scientifico successivamente conclusosi con una pubblicazione. (Il metodo contestuale-dinamico nell’analisi del testo letterario”, Nuova Paideia, X, 1, 1989). Al Dott. Giuliani, psicoterapeuta e ricercatore, ma soprattutto amico, dedico una intera pagina, poiché mai si è conclusa la nostra collaborazione.

Ho perfezionato le competenze didattiche sia del Latino che dell’Italiano partecipando a importanti Corsi e Convegni Regionali, Nazionali e Internazionali. (Convegno Internazionale di Perugia “Per il Latino: obiettivi e metodi nuovi”; per il settore dell’Italianistica, tra gli altri, il Seminario IRRSAE di formazione per Esperti di Lingua Italiana, L’Aquila, luglio 1989)

Trasferita al Liceo Scientifico “A. Bafile” dell’Aquila nel 1990, ho proseguito le collaborazioni al livello accademico con il Prof. Ugo Vignuzzi, Ordinario di Storia della Lingua Italiana presso la Facoltà di Lettere dell’Università dell’Aquila. Ne seguì la pubblicazione di un mio studio su un prezioso codice medievale abruzzese conservato presso la Biblioteca Nazionale di Roma (Per una nuova edizione del Codice V.E. 361 in: “Contributi di Filologia dell’Italia Mediana”, VII, 1993)

Ho rivestito il ruolo di Docente Referente per l’Educazione alla Salute. Nell’ambito di questa funzione ho completato il Corso Rogers-Gordon (Theacher Effectiveness Training“Insegnanti Efficaci” dell’IACP; Istituto dell’Approccio Centrato sulla Persona, organizzato dal Provveditorato agli Studi dell’Aquila. Amo definire questo corso, basato sulla filosofia umanistica di Karl Rogers, una pietra miliare della mia formazione di insegnante e di persona.

Negli stessi anni ho coordinato il Progetto Giovani e il CIC di Istituto per favorire le attività di promozione del benessere scolastico. In quest’ambito, particolare attenzione è stata dedicata e la redazione di un giornale di Istituto, La voce studentesca, che fu citato e recensito sul settimanale “Panorama”.
Il giornale fu poi esposto a Villa Torlonia ad Avezzano insieme ad altri lavori dei Progetti Giovani dell’intera provincia.

In ambito strettamente didattico, proseguiva intanto il mio lavoro sulla scrittura creativa: la partecipazione al Concorso Scolastico Nazionale La scuola che scrive, indetto dal Salone del Libro di Torino, ha fruttato la qualifica in finale. La giuria era presieduta da G. Davico Bonino. Il libro fu scritto dai miei ragazzi della classe 2C (a.s 1994/95). Coordinai l’organizzazione, il metodo, guidai la scrittura, curai la postfazione, come richiesto espressamente dal Bando di concorso. La raccolta di racconti fu poi pubblicata col titolo Volando Scrivendo (M.G. Editore) e premiata alla presenza del Preside, Prof. Barbati e del Provveditore agli Studi. Dott. Giancola. l’8 giugno 1996.

Funzione Strumentale per l’Area 3 nell’a.s. 1999/2000, ho curato il primo allestimento del sito-web della scuola.

L’attività di Funzione Strumentale fu meticolosamente progettata col nome “Progetto Intersezioni”.

Coordinatrice del Newspaper-game sin dalla prima edizione (2001), ho promosso la partecipazione degli studenti a questa attività di scrittura giornalistica. Il lavoro fu selezionato in ambito provinciale e poi pubblicato su una edizione speciale del quotidiano “Il Tempo”.

Sempre e comunque appassionata di scrittura, ho approfondidito le mie competenze nella didattica della scrittura creativa, sperimentandole di fatto nell’a.s.2002/2003 in diverse attività. Tra le altre, memorabile fu un Laboratorio di scrittura aperto a quindici studenti del Triennio del Bafile (in mero ordine di arrivo). Fu un Laboratorio antesignano (2002), di una moda che avrebbe trovato grande fortuna in seguito, ma non in ambito scolastico. Il laboratorio, che ebbi modo di condurre coraggiosamente da autodidatta, includeva un concorso finale, pubblicazione dei racconti sul sito web, votazione “popolare” e premiazione finale.

Un altro lavoro di particolare efficacia fu quello che condussi in ambito curriculare, Latino in una Terza: traduzioni da Catullo in “stili” diversi, alla Raymond Queneau, progetto non a caso denominato Esercizi di stile.

Ho seguito i ragazzi nella redazione di giornali di istituto, dei quali non resta che una traccia , anzi due.

Conseguita la specializzazione ministeriale sulle Tecnologie Informatiche (certificazione Tic B) nel 2003, ho applicato le conoscenze acquisite in un Corso di scrittura on-line e nel presente sito, DIDACTA, (che si chiamò inizialmente “Diotima”, poi “Sestanti”, poi infine addivenne al nome definitovo “Didacta”. Nato come “saggio finale” del Corso per le T-I-C, è successivamente divenuto un supporto didattico gratuito per gli studenti sin dall’a.s. 2003/2004, un report di buone pratiche, un archivio utile. Ne allego il progetto, ideato per l’esame utile alla certificazione T.I.C..

Funzione Obiettivo nell’a.s 2004/2005, ho curato l’allestimento del Centro di Documentazione delle attività didattiche di Istituto, un archivio tuttora esposto e consultabile.

Dal 1990, ferma restando la costante attenzione alla didattica della scrittura, mi sono occupata dell’ educazione teatrale all’interno del Liceo Scientifico, collaborando all’organizzazione dei Corsi di Propedeutica alla Recitazione, finalizzati non tanto all’acquisizione di tecniche di dizione e recitazione, quanto al miglioramento della percezione del sé nella difficile età evolutiva.

Ho rivestito l’incarico di Vicepreside dall’a.s. 2007 e fino al 2011, proprio i difficili anni in cui il Bafile, dopo il terribile sisma del 6 aprile 2009, si è posto come punto di riferimento collettivo cittadino per le numerose iniziative di cui si è fatto promotore, per le quali si rimanda alla pubblicazione del report ufficiale della scuola, “CONTAINER 19”, qui linkato.

Al momento mi sto dedicando quasi interamente alla scrittura: concentro l’attenzione non solo sulla didattica curricolare, ma anche sui temi e i problemi della ricostruzione dell’Aquila dopo il sisma, facendone materia di coinvolgimento, all’occasione, anche per i miei studenti. L’elenco di alcuni miei scritti in argomento è reperibile nella sezione Tutti i miei lavori alla quale rimando. Sempre in quest’ambito di (diciamo così) impegno sociale post-sismico, ho scritto assiduamente sul mio Blog, discretamente seguito al livello cittadino.

Compilo questo curriculum, ma solo per soddisfare la curiosità dei navigatori che hanno sentito l’esigenza di arrivare a leggere fin qui. Sappiano che la maggior parte di quello che ho scritto è volatile: non resterà come ingombro in alcuna biblioteca e non sarà carta da bruciare nel camino. Tutto ciò che scrivo viene rapidamente consumato dal web.
Onestamente, non me ne dispiaccio 🙂

Per gli eventuali “ingegneri che non hanno tempo da perdere”, fornisco anche una versione gelida di CV europeo, fatta per lavoro .

IL PRATO

Questi fatti sono tutti realmente accaduti.
Anche i personaggi (quasi tutti) nascondono persone vere.
Con un po’ di arguzia, si riconoscono 🙂
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“Dio ci ha creato la memoria per farci avere le rose anche a dicembre”

(James Matthew Barrie)

Sant’Elia s’era ingoiato il progetto C.A.S.E. con tutti gli sfollati come un boccone amaro. La ridente frazione alle spalle di Collemaggio, famosa per le fave saporite, aveva visto tutt’a un tratto piombare, dopo il sisma, ruspe, betoniere e cingolati pronti a ritagliarsi due fette belle grosse di montagna.

Un colpo di tosse, una smorfia di disgusto, e Sant’Elia se l’era ingollato tutt’intero, quel boccone, turandosi il naso. Ma quello le si era piazzato in mezzo allo stomaco, e ora lei lo digeriva con un senso di pace rassegnata, aspettando qualcosa che, prima o poi, lo assimilasse o lo espellesse pian piano, per altra via da quella da cui era entrato…

Tre anni erano passati, e il grazioso paesetto, distrutto anch’esso nella parte più vecchia, non s’era tuttavia mai fuso con le nuove case. La tenuta del Barone De Curti, antico signorotto del paese, dominava dalla collina la piana rigata dal fiume. La casa nobiliare, memore di antichi splendori, era adesso poco più che un cascinale di campagna, danneggiato qua e là dal tempo e dal sisma. Pietro faceva il possibile per mantenerne l’aspetto decoroso, ma quel cascinale era ormai solo l’ombra degli antichi fasti, troppo grande da gestire, costoso e impegnativo. La macchina di Pietro, la bella moto, l’intera tenuta, erano ormai votate a un utilizzo pressoché campagnolo, ma lui viveva tutto questo in allegria, con la rudezza del vecchio giocatore di rugby e una gentilezza quasi orientale verso le persone e verso gli animali. Mai mancava, davanti al grosso portone di legno con i battenti d’ottone del cascinale, un piatto di cibo per i gatti randagi, né l’offerta di un caffè a chi si fosse trovato a passare lì davanti.

Ma gli sfollati erano ospiti scorbutici, per quanto discreti e silenziosi. Catapultati dalla città in aperta campagna, non avevano cercato di adattarsi, e non s’abbrancavano né tra di loro, né con i santeliesi. Non mollavano le vecchie abitudini, s’affannavano a ritrovare a tutti i costi i vecchi negozi, i vecchi punti di riferimento. Testardi e ostinati come tutti gli aquilani, non volevano rinunciare ai brandelli di vita precedente, e neanche guardavano la meraviglia che li circondava. Quello splendido colle si stava offrendo generoso alla ricostruzione della loro vita, prima ancora che della loro casa, ma i più uscivano al mattino e tornavano la sera, considerando quegli alloggi niente più che un dormitorio. Se solo si fossero affacciati di notte alla finestra, avrebbero potuto conoscere i versi dei rapaci notturni, o visto brillare gli occhi delle volpi, o intravisto le grosse ali dei gufi. Ma il cuore non cancella ciò che ama, e per nulla al mondo essi avrebbero sostituito, con questi, i rumori del vento nei vicoli stretti, o gli odori umidi dei muri antichi, o i luccichii dei lastricati delle piazze cittadine.

C’erano, però, due categorie di persone che erano riuscite ad integrarsi meravigliosamente nel paesaggio: i bambini e i padroni di cani. I primi giocavano scatenati e un po’ inselvatichiti, come mai era stato possibile negli antichi quartieri urbani, i secondi godevano di altrettante libertà, prima inimmaginabili: uscire senza paletta, usare il guinzaglio lungo, non dover prendere la macchina per andare a cercare un parco. Non s’erano mai visti così tanti bambini e così tanti cani tutti insieme nello stesso posto. E quando calava la notte, e tutti rientravano, c’era da chiedersi dove si infilassero, per tanti che ne erano. S’era poi stranamente creata tra queste due categorie, non sempre affini, una bella armonia. Quando Teo, il mio cane, usciva a fare la passeggiata, i bambini gli si riversavano addosso come una nidiata di anatrelle. Lui si faceva strapazzare un po’, per niente dispiaciuto, poi proseguiva. Certo, c’erano anche cani che non ispiravano alcun tipo di effusione: un grosso alano nero, per esempio, che i bambini chiamavano “Attila”, camminava impettito ed arrogante, tal quale il suo padrone, fieri entrambi di essere guardati con paura. Allo stesso modo si comportavano i tre terribili dobermann di Gino, nati subito dopo il terremoto. Gino se li era portati dietro ovunque, li aveva nutriti e cresciuti dentro quella piccola casa. Poi, al momento di separarsene, non era stato più capace: e se li era tenuti tutti e tre, con i loro occhi infuocati e i loro denti affilati. Era certo di poter tornare presto nella sua bella casa e di poterli tenere in giardino come cani da guardia. Erano due maschi e una femmina, e Gino aveva dato loro dei nomi bizzarri: “Fintecna” la femmina, “Cineas” e “Reluis” i due maschi. Era uno spasso sentirlo urlare in modo marziale: “FINTECNA!….. SITZ! CINEAS, RELUIS!…. RRRRAUS!PLATZ!!!”. Quando li portava a spasso, pareva governare un cocchio tirato da tre cavalli. Tutti i cani della zona portavano i padroni un po’ dove il naso li guidava, ma c’era ben poco da scegliere: facevano per lo più il tondino intorno alle C.A.S.E.

Con non poco dispiacere, cani e padroni camminavano lasciandosi sulla destra o sulla sinistra del loro percorso abituale splendidi prati verdi interdetti dal filo spinato. Il più bello di questi prati si stendeva proprio davanti alla cascina De Curti: era verde d’erba medica e puntinato di fiori colorati. I cani ci infilavano il muso con insistenza vogliosa, attratti da colori e odori straordinari. Bisognava tirarli via con la forza! La tappa davanti alla cascina De Curti era obbligatoria, e non solo per quel magnifico prato profumato, anche per le irresistibili tentazioni che provenivano dalle ciotole che Pietro riempiva per i gatti. Dovevi tirar via il tuo cane di lì e promettergli di portarlo nella piazza vicina, dove una brutta chiesona post-moderna demolita dal sisma implorava pietà. Quel ripido tratto di strada, dalle C.A.S.E. alla chiesa, specie in inverno, era assai pericoloso. Il buio, due curve strette, i muri delle case addossate, le macchine che sfrecciavano frettolose, costringevano cani e padroni alla massima prudenza.

La primavera del terzo inverno iniziò col disgelo delle abbondanti nevicate di quell’anno. Oltre ai normali disagi della strada c’era anche lo sciogliersi della neve: i rigagnoli di acqua imboccavano vorticosi la discesa. Ma un bel mattino di quella primavera, un bel mattino tiepido in cui l’erba era già verde e profumata, accadde una cosa straordinaria: proprio davanti alla cascina i paletti di quel bellissimo prato di erba medica erano stati abbattuti, e il filo spinato era stato reciso per consentire il passaggio. Al nuovo varco c’era un cartello con una scritta fatta a mano che diceva: “INGRESSO LIBERO AI CANI E AI PADRONI”. Dentro al prato, felici come tre mustang, correvano Fintecna, Cineas e Reluis. Il padrone, Gino, li sorvegliava soddisfatto, agitando il guinzaglio come un lazo, con gli occhi luccicanti di soddisfazione. Al sopraggiungere di Lilli, la cagnetta di Sabrina, Gino richiamò i tre mustang e li portò via, lasciando campo libero alle due nuove arrivate. Decisi di fermarmi anch’io, e mentre toglievo il guinzaglio dal collare di Teo, sentii alle mie spalle la voce di Pietro che mi chiamava dalla macchina: ”Buongiorno! Hai visto la novità? Entra, entra! Godetevi il prato! E guarda un po’ che passeggeri porto a bordo oggi!”. Affacciato al finestrino posteriore della macchina di Pietro, con un sorriso a 72 denti, Attila sporgeva la testa fino al collo, felice, con le orecchie come due bandiere al vento. Dietro di lui spuntava la faccia del suo padrone, con un sorriso imbarazzato per la  condizione poco marziale del suo terribile cane. E anche sua.

Da quel giorno capimmo che non esistono cani buoni e cani cattivi, uomini buoni e uomini cattivi; ma solo uomini e cani felici o infelici. La differenza la fa un prato. Un prato sul quale correre liberi.

 

prato-fiorito


High Hopes-Pink Floyd

MARIO IL DIRIMPETTAIO

Mario è il vostro dirimpettaio. Perciò ne conoscete bene l’aspetto, il mestiere, le abitudini e tanti altri dettagli insignificanti. Il resto, invece, sto per dirvelo io.

La dipendenza – Mario sembra una persona normale, invece è un uomo molto molto impegnato nel sociale. Per esempio, è un for causes-dipendente, un miliziano degli appelli on-line, delle petizioni su web. Non gliene sfugge una: dai mustelidi della Patagonia alle stazioni eoliche, dai campi magnetici alla mattanza delle platesse, dall’aglio rosso all’uranio arricchito, dai licheni del Niamar alla patata gialla, Mario si fa carico una volta al dì, generalmente dopo cena, del suo bisogno di appartenenza globale. “WE HELP PASSIONATE PEOPLE SHARE IDEAS, FIND SUPPORTERS, RAISE MONEY, AND MAKE AN IMPACT”.Mario non può vivere senza avere un impatto. Non può proprio.

Sorvegliante solerte del web, ogni sera firma e diffonde viralmente appelli di ogni tipo e provenienza: li stana, li caccia, li scova, li intercetta e li spamma ad amici e conoscenti. Sorveglia giornalmente i suoi gurue si tuffa come un kamikaze su ogni segnalazione. Che poi, scusate se è poco, ma per un aquilano che ha sopportato un terremoto decimo grado Mercalli, diventare un combattente for causes non è, se permettete, come donare due euro con un sms! Mario, potenziale destinatario di causa, ne diventa invece promotore! Non è meraviglioso? Fa fratelli. Fa sangue. Fa figo. Fa che uno dice: “Vedi? Quello non guarda solo al suo, quello è immerso nella cacca fino al collo, ma pensa alle disgrazie degli altri”. Che animo nobile e generoso! Il senso di benessere che si diffonde dalla pancia allo stomaco dopo un clic è ogni volta per Mario pari a un bacio d’amore, a un amplesso a lungo desiderato. A volte quel clic ha il sapore dell’appagamento del neonato dopo la poppata, dello scolaretto a cui la maestra dice bravo. Altre, invece, sa di rabbia, ha il sapore freddo della vendetta. Clicchi e dici “ladro”. Clicchi e dici “Fate schifo”. Un “clic” è un fare prezioso. Anche se è un fare che non fa che questo: “clic”.

La “coccia”- In realtà è solo un lusso. Ci vuole la coccia fresca per dedicarsi allo sport del clic. Non deve mica raccogliere i suoi quattro stracci dispersi, Mario. Dopo il terremoto è rientrato a casa. La sua casa non si è mica sgretolata come un tozzo di pan secco! Solo qualche danno alle tamponature, così, robetta, ora sta meglio di prima, senza quel cappotto di cortina, con le pareti tutte nuove, nuove perfino le tegole, e le grondaie, quelle in rame, proprio belle! Giura e spergiura di averle comprate a spese sue.(Mamo’ va a ssapé). Perché lui s’è dato da fare immediatamente, non è un cialtrone, lui. Per il poco danno che era, ha comunque fatto mettere le reti elettrosaldate. Che fai, non metti la casa a norma? “Il terremoto allora non ci ha insegnato niente?”. Adora questa frase, Mario, e la ripete spesso. “Sono stato sempre sul punto, sempre vigile, ho seguito tutte le pratiche, l’ingegnere, la ditta, i materiali, e tutto il resto. Me lo merito, me lo sono guadagnato”. Con queste parole Mario vuole dire che è diventato solerte e attento. Ma la gente, a sentirlo, lo fissa con un’espressione scettica e rancorosa, tipicamente aquilana, che significa: “Tu te sci saputu vedé solo ji caxxi té”.

Io sono io, e voi…” – Per Mario sono tutti dei coglioni. Amministratori, politici, quelli che avevano deciso all’inizio, quelli che avrebbero deciso dopo: tutti coglioni. Solo lui capisce sempre tutto. Clic, Clic, Clic… Il suo grilletto virtuale. La sublimazione cibernetica di Sfida all’Ok Corrall.

Però in effetti bisogna dire che è vero, accidenti. Mario ha fatto proprio tutto bene, per filo e per segno, non ha sbagliato una mossa. Guardate, guardate che bella casa! C’è uscito pure il disimpegno insonorizzato. Giacché ci si trovava, s’è ricavato pure l’agognato bagnetto vicino alla camera, tanto comodo! Lui giura e spergiura che l’ha fatto a spese sue. (Ma mo’ va a ssapé). Peccato solo per il paesaggio: sparato come uno scandalo, il progetto C.A.S.E. gli si staglia davanti come un treno merci, lungo e bianco come un ospedale. “Pidocchiosi” pensa Mario ogni volta che ci passa davanti. “Io non avrei mai accettato di andare al progetto C.A.S.E. Eh, ma gli hanno fatto trovare la lavastoviglie, i giardinetti fioriti, a ‘sti pidocchiosi… Questi parassiti continuano a farsi assistere. Questi stanno meglio qui che a casa loro, te lo dico io!”.

La storia – Mentre sta rincasando, Mario vede sulla strada una vecchia con le sporte della spesa, direzione Progetto C.A.S.E. La vecchietta, immobile sulle strisce pedonali, lo guarda con gli occhi da Giocondor e con l’espressione indescrivibile che assume il nostro popolo quando vede i macchinoni deipeócchi resatólli. E’ chiaro che la vecchia gli sta chiedendo strada. “E vabbé, passa!” dice Mario contrariato. “Ma guarda –pensa lui – una vecchia, a piedi, con le sporte pesanti, con questo caldo!”. Mario gira la testa contrariato: è troppo sensibile, certe scene non le sopporta. La vecchia ci sta impiegando un secolo ad attraversare la strada. Ansima e sbuffa come una locomotiva. Mario brontola, la guarda, indovina un paio di chili di patate dentro una delle buste. La vecchia finalmente arriva oltre la sua metà della carreggiata, l’auto di Mario avanza per intercettare il verde al semaforo… ma il rosso scatta e lo blocca all’incrocio. Stop. La vecchia lo incalza alle spalle. Lui gira la testa e pensa. “Ma guardala! Il popolo dei morti viventi! Incapaci di reagire! Eh… Non c’è niente da fare… Le pecore non fanno il parmigiano!”.

Bruno l’Amministratore (parentesi) – In un certo senso ha ragione, Mario. Molti zombie, dopo tre anni, sono stanchi perfino di andare alle riunioni di condominio. Bruno, l’amico di Mario, Amministratore di Condomini, dice che neanche le convoca più, le riunioni: ormai fa un po’ tutto di testa sua. “E che li chiamo a fare? Tanto le norme cambiano, loro non le capiscono, le situazioni si complicano”. E quando i condòmini gli chiedono qualche informazione sullo stato dell’arte, lui ripete sempre: “Vigilantibus, non dormientibus iura succurrunt!”. I poveri condòmini, a sentire il latinorum, pensano a chissà qualebusillis, e tacciono. Lui, intanto, sistema le cose in modo da succurrere i vigilantes. E vigila niente male, Bruno. Come Mario. Vigiliano, vigilano. Temporeggiano, attendono norme nuove, aggiustamenti, congiunture, condizioni vantaggiose. E il tempo passa.

I ricchi, tanto, di tempo ne hanno un sacco. Anzi, è il tempo la loro arma migliore. Loro riescono ad averne sempre il doppio o il triplo della gente normale. Infatti vivono due o tre volte. Quello che loro chiamano “tempo”, per i poveri si chiama “vita”. Vita che se ne va e non ritorna più. La vita dei ricchi, invece, si consuma altrove. Non si sa di preciso dove, ma altrove. E il ricco non perde neppure un minuto: guadagna sempre tempo e soldi. E’ sul punto, si informa, tratta, chiede, gira, conosce, vede gente. Clicca…

Gli zombie – Quello che Mario non riesce a spiegarsi è come mai gli zombie non se ne vanno dall’Aquila. “Ma che ci restano a fare? Pensano di poter ritornare a casa loro? Ahahahah… Non capiscono che usciranno da lì con i piedi davanti? C’è l’”acquisto equivalente”, inventato dal legislatore proprio per loro! Possono ricomprare dovunque vogliano, in tutta Italia! ma loro… no! Qui vogliono restare! Ma che diamine, si rifacciano una vita altrove, suvvia, lascino fare chi ha il capitale per far risollevare la città, chi fa ripartire l’economia! Ma… tzé… quelli non hanno una coscienza civile”. Sfugge a Mario il fatto che ogni piccolo movimento, per chi ha perso tutto, comporta emorragie di denaro. Chi ha perso tutto sa bene che bisogna stare fermi, immobili, respirare appena, risparmiare le forze, tenere la testa bassa. “Pecore! La coscienza sociale richiede fatica, impegno, partecipazione. Non è fatta per le pecore! ci vuole coraggio, bisogna investire, darsi da fare, rischiare, seguire!”. Clic, clic, clic.

Dei famigerati regolamenti di condominio – Il semaforo ha una durata interminabile: il caldo è afoso, lo spettacolo desolante, e la testa di Mario continua a rovistare pensieri e preoccupazioni. “Tre anni sono passati e la popolazione assistita è ancora di 17mila persone. Diciassettemila persone. Guarda, guarda che tristezza le C.A.S.E! Bambini che strillano a tutte le ore, cani che seminano i bisogni per strada, panni stesi a destra e a manca, paraboliche grosse come funghi atomici che sbucano dalle ringhiere dei balconi, tutti i sottoscala zeppi di roba vecchia. Dio che spettacolo indecente… Questi all’anarchia ci sono abituati! Ci sguazzano! Questi sanno solo delegare. Delegano ai politici! E i politici fanno ciccia di porco!”. Quando dice così, Mario fa gli occhi piccoli piccoli. Mario odia la mafia e la politica, e lascia intendere che siano la stessa cosa. Sfugge a Mario che la povera gente non ha che la politica, per essere difesa. Non ha che una X da segnare nel segreto dell’urna, per sperare di riprendersi la vita.

La cattiva coscienza – Scatta il verde. La vecchietta con la spesa ha percorso pian piano la strada e ha raggiunto la macchina di Mario, gli sta proprio alle spalle. Chissà perché (sono i casi strani della vita), la donna appoggia a terra le sporte, alza la testa e lo fissa nello specchietto retrovisore. Solleva lentamente un braccio e lo tende davanti a sé, dritto come una spada. Forse sta tirandosi su una manica. O forse ha dolore al braccio per via del peso delle sporte, chissà. Fatto sta che la vecchia punta il braccio verso di lui. Mario la guarda, ha un sussulto, è infastidito da quella presenza nel suo specchietto. Si ravvia i capelli, si tira su i pizzi del colletto della polo. “Anche io sono un terremotato, eppure, guardate signori, io ho una coscienza civile, io vigilo”. Ma la vecchia ricompare nello specchio, sempre più cupa. Braccio alzato, bocca chiusa, sfatta di caldo, sudata, due chili di patate nella sporta, sembra dirgli: “Idiota, dov’è che vigili? Io sono qui”. Ma lui non capisce. Pensa agli appuntamenti di domani, pensa ai “Condividi” di stasera. Clic. Clic. Clic.

Conclusione – Mario, il dirimpettaio, è un miracolato. Scampato casualmente alla sorte, è convinto che il merito della sua sopravvivenza e dei suoi buoni affari sia solo il suo, che solo lui è bravo, e che gli altrisono tutti coglioni. E’ anche convinto di darsi molto da fare per la sua comunità.

E siccome il da fare non è mai troppo, ha creato una pagina feisbuc: “Gli aquilani non sono pecore”. In poche ore raccoglierà più di millecinquecento “Mi piace”. Tanto gli zombie non sono iscritti a feisbuc.

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LA TRAVERSATA

Nonna Ester era sempre contenta quando suo nipote poteva accompagnarla dove lei aveva bisogno di andare. Lorenzo, poi, era il nipote preferito: fresco fresco dei diciott’anni e fresco fresco di patente, non aspettava altro che la madre gli dicesse: “Oggi devi portare la nonna dal dottore”. Una frase che gli provocava un nonsocché, una strana effusione di calore dallo stomaco fin sopra le orecchie. “E non farle venire un infarto” raccomandava laconica la madre. “Offréchete, vai tranquilla mà!”. Ultimamente l’orgoglio dialettale di Lorenzo era divenuto prepotente, per non dire insopportabile. La nonna, in questi casi, era arcicontenta. Sarà stata l’incoscienza, sarà stata l’età, sarà che i vecchi non si aspettano di essere eterni, ma la nonna era l’unica persona al mondo felice di salire in macchina con Lorenzo, e sfidare la morte. “Vieni qua giovanotto, ché ci divertiamo!” gli diceva strizzando tutti e due gli occhi. Scattante come un virgulto, prima di uscire di casa apriva il cassetto del comodino, prendeva un mazzetto di soldi senza contarli, e faceva capire al nipote, con una smorfia di aumm-aumm, che sarebbero andati “a sfrusciarseli”. “Nonna, vedi che oggi ti levo dieci anni!”. “Sì, i dieci anni che ti restano da vivere… “ farfugliava alle spalle la madre, certa che la nonna, mezza sorda, non potesse sentire. “Ma noooo…. la faccio ringiovanire di dieci anni!” precisava il ragazzo, che non arrivava mai a capire il sarcasmo materno. E nonna Ester, con la scusa del dottore, schizzava giù per le scale, agile e secca come era sempre stata, ragion per cui all’Aquila era nota come “La Marescialla”. Vedendoli uscire a braccetto, chiassosi e pieni di energia, c’era sempre da pensare: “Chissà come torneranno, anche stavolta…”. Già. Come si fa a stare tranquilli, quando un neo-diciottenne neo-patentato deve attraversare una neo-città? Troppi nei. Per non dire che non era una città qualsiasi, ma una città di nome L’Aquila, una Signora Città Terremotata. Da Marruci, dove erano sfollati, a San Gregorio, dove stava lo studio del dottore, era una vera a propria traversata: 35 chilometri, 7 euro di benzina e 55 minuti di macchina. Un sollucchero, la città diffusa. Che poi Lorenzo non sceglieva mai le higways, preferiva lebackstreets che scorrevano nel traffico limitrofo alla città vecchia, per fare un po’ di pratica di guida in qualcosa che somigliasse a una città vera. Adorava, per esempio, passare per viale della Croce Rossa, oppure per via XX Settembre: strade con un lontano odore di città, dove guidare si faceva interessante e ti illudevi di sfilare tra le case, invece di sentirti un pastore in un presepe. Sulle strade della città vecchia, per quanto penosa, la vista dei mazzi di fiori e dei poster con i volti dei ragazzi morti era venerata da tutti: passarci davanti era un modo per sentire i morti ancora vivi, tutti e 309. Gli aquilani avrebbero voluto vedere anche quelli della Zona Rossa. “Ci mandano i turisti con la guida, a guardare, e a noi, sangue del loro sangue, non ce li hanno fanno vedere!” si inalberava la nonna, facendo tremare un po’ platealmente la voce, quando diceva questa frase. Partivano come se si trattasse di un viaggio. Velocità di crociera: 40 all’ora. Climatizzatore: acceso. Percorso mentale: preciso ma, pronto a immediata, estemporanea revisione. Il ragazzo attaccato al volante, la nonna appesa alla maniglia del finestrino, per non volarsene via da una curva.

“Accosta annonna, quando vedi Alberto”. “E chi è Alberto?”. “Ma come, Loré, Alberto è il farmacista, devo comprare subito la colla per la dentiera!”. “E no, nonnaaa! Ma che ne so io, dove sta Alberto? Telefono a Chi l’ha visto?Dai, accontentati di un altro farmacista “. “Eh, ‘sti giovani… non conoscono i capisaldi della città!”. “Caposaldo della città? Il farmacista? Nonna jamo su!”. “Oh, Lorè, Alberto era meglio del dottore! La colla per la dentiera che compravo a Capopiazza…” “Scì scì, nonna, Capopiazza non c’è piùùù! C’è stato il terremoto, te lo ricordi? Tra venti minuti però c’è una bella farmacia! Non hai voluto cambiare dottore, almeno cambia il farmacista!”. Non c’era stato verso di farglielo cambiare, alla nonna, quel dottore. S’era faticato per farle cambiare il supermercato, il pizzicagnolo, il parrucchiere, il fruttivendolo, il pesciarolo, ma il dottore, quello, non ci fu verso. Nelle nuove zone, nei nuovi negozi, nei nuovi giardini, la nonna si guardava intorno spaesata: “E tu chi sei? Il mio parrucchiere si chiama Daniele! Come mai non viene lui a farmi i capelli?”. Tutti le mentivano pietosamente: Daniele era andato al bar, era in ferie, era andato un attimo a casa… Lei si lasciava prendere in giro, faceva l’aria piccata e usciva dicendo: “Se Daniele non torna, io cambierò parrucchiere! Lui sì che sapeva come prendermi per i capelli! Ahahahah…”. Era la sua battuta preferita. Poi, la volta successiva, docilmente si lasciava portare dal parrucchiere sotto la nuova casa, per non dare troppi fastidi ai parenti. Ma Lorenzo era certo che stesse fingendo. “Preferisce sembrare rincoglionita, ma io lo so che sta prendendo tutti per i fondelli”, pensava sempre con aria di complicità. Il dottore, medico della famiglia da trent’anni, s’era rovinosamente trasferito a San Gregorio. E la nonna, testarda, ci si faceva accompagnare al bisogno, e se nessuno voleva, chiamava un bel taxi. Ma ora c’era Lorenzo che voleva! Certo, era una bella traversata…

Ogni volta, arrivata alla quarta rotatoria, la nonna diceva sempre la stessa, fatidica frase: “Certo che prima L’Aquila era piena di salite e discese, mo’ è diventata piena di curve, ahahahah!”. E rideva di gusto, per poi aggiungere: “Ma com’è? ‘sto terremoto ha cambiato la conformazione del terreno, eh, Loré?”. “Sci scì, no’, ha cambiato la conformazione del terreno!” la prendeva in giro il ragazzo. “Mo’ però è pure bella, L’Aquila, ve’ Loré?” “E certo che è bella! E’ bella, è bella! A me mi piace lo stesso! Guarda!… Si fila che è una meraviglia! Pare tutta ‘n autostrada!”.

“Ecco la farmacia, no’, vedi che ce l’abbiamo fatta? Mo’ guarda come parcheggio eh, no’, ti faccio un parcheggio da manuale!”. Lorenzo sistemava la sua Fiat Uno nell’ampio piazzale davanti alla farmacia come se si trattasse di un trattore da infilare in una rimessa troppo stretta. “Ma addo’ sta’ la farmacia, Loré?” “Qua, nonna! Dentro al container, dai, vieni, ti accompagno”. “No, aspettami qui annonna, faccio da sola!”. Non voleva mai essere presa sottobraccio, La Marescialla. Per questo i figli la sgridavano sempre, mentre Lorenzo la considerava una gran figa. “Bella no’, non ci sta nessuno, evvai!”. I container, qualsiasi cosa vendessero, pure le medicine, davano sempre un’impressione di disordine e di sporcizia. La nonna, uscendo, esclamava: “Temé, come sta messa la farmacia di Capopiazzaaaa!”. “Eddaje co’ ‘sto Capopiazza, nonna, stiamo ancora a San Sisto!”. “Loré, mi devi portare al Bersagliere! Mi servono le canottiere e pure le mutande!” “Ma dai, nonnaaaa, il Bersagliere no, per favore!” “Sì invece! Dove sta Renato? io lo voglio rivedere! fai contenta annonna, su”. Così dicendo, gli allungava un bigliettone da venti euro, che Lorenzo accettava, simulando un accenno di reticenza, come vuole la buona educazione. Per incoraggiare la guida timorosa del giovanotto, la nonna aggiungeva poi qualche commento del tipo: “E’ ancora bella, L’Aquila, eh Lorè? Vedi come si fila? Si fila proprio bene”. “Seee… dici che si fila? Ah no’, ’sto tizio qua davanti avrà 108 anni, e porta pure il cappello, altro che si fila!” “Eh, se avessi la patente io! Anch’io porterei la macchina, e mi vedresti sfrecciare proprio come questo signore!” “Sfrecciare? Nonna, questo va a 20 all’ora! Abbiamo una coda dietro che arriva fino a Tornimparte! Altro che signore, questo è Mister Magoo!”. “… La porterei pure io…” continuava tra sé la vecchietta “la porterei eccome, la macchina. Mica si può dare fastidio ai figli, dopo quello che è successo!”. Alla rotonda del Torrione, la nonna riconosceva sempre con entusiasmo il paesaggio, che non era molto mutato da prima del terremoto, anzi sembrava migliorato. “Rallenta rallenta! Ecco la statua del Terremoto!” e si faceva il segno della croce. Alla rotonda successiva, regolarmente diceva: “Ma qua non ci siamo già passati?”. Però notava bene la nuova statua, e si segnava ancora, un po’ intristita. “Su su, nonna dai, mo’ nonripiàgne eh, mannaggia!”

A Lorenzo piacevano, i vecchi. Erano proprio belli. Gli mettevano allegria. Tutto il contrario di quelli che lui chiamava i “quasi-vecchi”. I “quasi-vecchi” erano quelli abbastanza vecchi da essersi dimenticati dei calci nel sedere che avrebbero voluto sferrare ai loro figli quando erano adolescenti. Calci che, ora, da quasi-vecchi, riservavano con piacere, confusamente e senza scrupoli parentali, ai figli degli altri, Così, per pura, inconsapevole vendetta. Soltanto una meravigliosa presbiopia senile avrebbe poi aperto i loro occhi, tra qualche annetto. Con un po’ di fortuna sarebbero potuti diventare perfino come nonna Ester. “Eh, devi avere pazienza con i vecchi, Lorè! Hanno i loro tempi, e non possono chiamare per ogni cosa figli e nipoti, sparpagliati come stiamo, uno a destra, uno a sinistra…. Oh oh… Rallenta rallenta! Ecco un’altra statua del terremoto! Vedi, vedi quant’è bella?… ”. Altra croce. “Oh, nonna! La fai finita co’ ste croci? Mi innervosiscono la guida, eddai! E poi mi viene da togliere la mani dal volante, porca miseria!”. “Eh, figlio mio! Su, vai, vai, che sei tanto bravo!”

Solo la nonna diceva a Lorenzo che era bravo, solo lei, specie dopo il terremoto, dacché Lorenzo aveva iniziato a studiare poco e niente e a scuola andava proprio male. Così, senza nessun motivo, andava male e basta, non c’entrava niente il terremoto, né il centro commerciale, né i portici o la sua cameretta senza più le collezioni di Dragon Ball Zeta, disperse anche loro sulle strade della California. Era solo che non gli andava di studiare. I quasi-vecchi, ogni tanto, guardavano lui e i suoi compagni con gli occhi che dicevano: “Mah”. Faceva comodo lasciar credere ai quasi-vecchi che la colpa era la mancanza della casa, ma era il copione. Ogni tanto qualcuno in città se ne usciva a chiedere “ai ggiovani” di che cosa avessero bisogno. Locandine, fotografie, strette di mano, qualche progettino, articoli sui giornali, poi tutte le promesse si spegnevano come un cerino sotto a uno sputo. I ragazzi stavano al gioco: intervistine, due o tre foto in atteggiamento da macho, e gli adulti erano tutti contenti di aver fatto il loro dovere, poveracci. Però qualche quasi-vecchio in gamba, ogni tanto, da cui sentirsi capiti, si trovava. Come il professore di Scienze. Quello sì, valeva la pena accostarglisi. Gli bastava guardarti in faccia al mattino per capire se era aria. E poi sapeva sempre come tirarti fuori dal sacco. Ci riusciva sempre. Non diceva mai “i ggiovani”, lui. A volte Lorenzo ci passava la ricreazione in cortile, a vederlo fumare e a chiacchierare: ci stava bene perché a lui non usciva dagli occhi la frase: “Questo non combinerà mai niente”. Era l’unico come nonna Ester, che qualche volta gli diceva addirittura che era tanto bravo, e lui si sentiva gonfiare piano piano come un tacchinello.

“Non c’hai paura di venire in macchina con me, nonna?” “Paura? E di che? Sei proprio bravo, guai a chi dice di no! Fai questa bella traversata per portare la nonna dal dottore!”. Una volta arrivati, la nonna scendeva e faceva la sua visita. Lorenzo, nel frattempo, se ne stava prudentemente nascosto. Nei giardini davanti all’ambulatorio, infatti, c’erano sempre un sacco di bambini a giocare, e con loro inevitabilmente c’era l’altra categoria di persone dalle quali Lorenzo rifuggiva con lo stesso terrore con cui un gatto scappa via da un asilo: i “Genitori-di-figli-piccoli”. I Genitori-di-figli-piccoli aborrivano i ragazzi della sua età, li guardavano con disprezzo profondo. A trovarseli davanti, infatti, e a vederli darsi spintoni, fare gli scemi, vestiti come i parenti poveri di Naruto, sbrindellati, scaciati, con le maniche sempre troppo lunghe e i pantaloni sempre troppo calati, i Genitori-di-figli-piccoli si innervosiscono sempre. Stringono a sé le loro creature, come per paura di un orribile contagio. “Via, via, brutti fannulloni! A studiare, via! Alla vostra età, io… ehmmm… mio padre… ehmmm… mio nonno… Insomma, via!”. I ragazzacci, sghignazzando, nella stupidità che caratterizza l’età ingrata, ci credevano, alla storia del padre e del nonno, che invece erano stati adolescenti pure loro, e magari pure peggio di loro. ”Ah, se fossi io vostro padre!”, aggiungevano i Genitori-di-figli-piccoli. Non immaginavano mai che lo sarebbero stati molto presto. E allora sì che avrebbero iniziato a ingoiarsi quei calci che ora prudevano sulla punta dei piedi.

La nonna usciva sempre dall’ambulatorio con un mazzetto di ricette e la faccia soddisfatta: e così iniziava la traversata al contrario, sulla via del ritorno, rotonda dopo rotonda, pensiero dopo pensiero. “Ecco la statua dell’angelo!” diceva a un certo punto la nonna, spiccando la mano dalla maniglia, come per segnarsi di nuovo. “A nonna che fai? quella è l’aquila di bronzo del reggimento degli Alpini!” “Uh, e che ne so! Loré… A volte non mi ci raccapezzo… Non mi ci raccapezzo più”. La stanchezza, a quel punto, creava un piccolo corto circuito nel cervello della nonna. Faceva una lunga pausa e poi tirava una specie di singulto, con lo sguardo perso nel finestrino: “L’Aquila s’è spallata, Loré!”. Solo in quei momenti di confusione la nonna sembrava realizzare lucidamente l’evidenza. “L’Aquila s’è spallata”. Lorenzo, nel suo primitivismo, avvertiva che dopo questa frase la nonna sentiva una cosa allo stomaco che la tirava giù giù verso il tappetino di gomma, così cercava di distrarla come meglio poteva. “Guarda no’! Guarda che bei cantieri! Le case sono tutte incappottate, no’! Piano piano si rifanno, lo vedi no’? Sei contenta?”. “Oh, che bello, Sì sì, piano piano! Ci vuole il tempo suo. Certo io casa mia… chissà se la rivedo, eh Loré… Mi ci porti a fare un saluto? Dai Loré, poi ci prendiamo le pizze!”. Ma Lorenzo era incorruttibile. Come ce la portava, d’altra parte, in via Tre Spighe? E ogni volta se ne inventava una nuova. “Nonna, lascia perdere la casa, andiamo a prenderci il gelato!”.

Tornavano che era tardi. Come sempre, il quadretto si presentava uguale a se stesso: Lorenzo distrutto di fatica, la nonna con la faccia stralunata dal paesaggio straniero, e infine la mamma che, con il solito pessimo umore, saltava alle conclusioni, le solite, sbagliate.“Lorenzo, ma come devo fare con te? Guarda come hai ridotto la nonna!”. Ma Lorenzo sapeva, nei suoi stupidi diciotto anni, che la colpa toccava comunque e sempre a lui. E sapeva anche, con assoluta certezza, che la tristezza della nonna, l’amarezza della madre, stavolta, almeno stavolta, non erano tutta colpa sua.

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DRIVING WITH JIM!!!!!

L’AQUILA CHIAMA MIRANDOLA

Questo articolo nasce su richiesta di una pagina web, “Città della Gioia ONLUS”, che ne fece espressa richiesta per celebrare l’anniversario del 6 aprile. Risale al 2012 e fotografa un momento delicatissimo delle nostre memorie dal sottosuolo: quello del recente terremoto in Emilia. Mirandola, il paese più colpito, diventa per me l’emblema dell’eterno conflitto tra Sud e Nord. Conflitto qui risolto e pacificato dal comune buon senso civico.

Gli amici di Napoli mi chiedono una riflessione dall’Aquila sulla tragedia dell’Emilia. E’ scontato ribadire, a nome degli aquilani tutti, il dramma raccapricciante di rivedere le tende blu, la disperazione, i telecronisti in cerca di lacrime, i talk-show in cerca di colpevoli, i sismologi con la faccia da “non c’è da stupirsi l’Italia è sismica”, la Protezione Civile che sembra composta da volontari, e i volontari che sembrano invece professionisti. Perfino i monumenti-simbolo si assomigliano: per noi fu la Prefettura spezzata, per Mirandola è la torre dell’orologio spaccato. E’ normale e sacrosanto cercare istintivamente le somiglianze tra due drammi, è però doveroso riflettere poi sulle differenze, non certo per fare delle stupide classifiche, biecamente obbedienti al cliché del Nord lavoratore e del Sud piagnone, ma per capire meglio quello che ci è successo in questi tre anni. Si disse degli aquilani, i primi giorni dopo il sisma, che erano dignitosi e forti, combattivi e reattivi. Anche degli aquilani si disse che erano pronti a rialzarsi. Poi fummo trasformati in ingrati meridionali, per non aver accettato di vendere la città vecchia in cambio di pseudo-case nuove in periferia. E allora chi decide chi è “sobrio” e chi no? Vespa? Chi enfatizza il coraggio di una popolazione rispetto a quello di un’altra? Sgarbi? Discorsi beceri e grossolani, che “accomunano” e massificano dei giudizi sulle cittadinanze, per non dire sulle etnie, discorsi che si allineano su direttrici di gestione del potere, ideologie ben separate da quello che è, invece, il reale vissuto delle popolazioni. Non so se esiste ancora la Piramide di Maslow o se sia considerata ormai roba vecchia, ma ai miei tempi non potevi definirti istruito se non eri consapevole di ciò che Maslow aveva teorizzato sui bisogni primari e secondari: i bisogni di un individuo sono posti su una piramide. Alla base della piramide c’è la sicurezza, la sopravvivenza. Poi il cibo, poi la casa, poi gli affetti. Non puoi guadagnare un piano più in alto se prima non hai costruito quello più in basso. Salendo c’è il sociale, il politico, via via su fino all’arte, il massimo grado della piramide, ma anche il più lontano dalla base. Più stai in alto nella tua piramide, più ti dimentichi dei bisogni di chi è alla base. E tutto, ma proprio tutto, è determinato dalla quantità delle risorse a disposizione, diverse a seconda del livello della piramide. In questi tre anni di terremoto all’Aquila abbiamo constatato a tutti i livelli questo meccanismo, emerso in maniera limpidissima non appena le risorse a disposizione sono drasticamente diminuite. Abbiamo visto chi era al sicuro dimenticare il bisogno di sicurezza di chi non lo era, giurare il falso, approfittare, arraffare l’inutile. Persone protette, unite in clan, le abbiamo viste lucrare su altre che erano sole e si aggrappavano al poco rimasto.

Gente che non ha perso nulla, dare dello stracciavesti a chi aveva perso tutto e lo gridava, e non lasciargli neanche la dignità del lamento imbronciato, non concedergli neppure il beneficio del grido o del pianto, salvo poi rubarglielo dalla bocca, quel grido, imitarlo, quando è stato il momento di venderselo, anzi di rivenderselo come proprio. Abbiamo visto ravanare nei mucchi dei panni donati anche quando di panni ce n’erano fin troppi, solo per il gusto di farlo. Stornare denari dai bisognosi del necessario, per darli a chi li ha usati per il superfluo. Abbiamo visto un sacco di gente dare il peggio di sé. Il darwinismo sociale premia chi ha bei gomiti, grossi e muscolosi. Mi ricordo che una delle prime cose che ho capito in tendopoli è stata che non sarei sopravvissuta facilmente restando una personcina “bene educata”. Una sera avevo bisogno di un pigiama pulito e nella tenda-vestiario ne avevo trovato uno, bello felpato, adatto alle notti già fredde di ottobre, e ce l’avevo in mano, quel pigiama, come un regalo di Natale. L’ho appoggiato un attimo su un cesto e qualcuno me l’ha portato via sotto il naso. Non ho saputo dirgli niente e ho dormito vestita, quella notte, prendendomela con me stessa per aver dimenticato da qualche parte la mia borsa con il cambio abiti. Mai però, neanche per un momento, ho pensato che avrei dovuto diventare anch’io un animale e contendermi un pigiama a gomitate. I tanti individui che non si animalizzano quando le risorse diminuiscono, vivono con orgoglio. E stanno in Abruzzo, in Emilia, nel Belice, in Irpinia, nelle Marche, in Umbria, e dove che sia. Sono quasi invisibili, hanno braccia senza gomiti, sono caparbi, hanno un brutto carattere, il profilo basso, induriti dalle difficoltà, diventano schivi. Qualcuno li chiama fessi, qualcuno sognatori. Molti di loro se ne vanno dalla loro terra, alla fine, a cercare contesti nei quali non siano costretti ad una animalizzazione obbligata. Quando c’è un dramma, insomma, amici miei di Napoli, la gente si divide in chi diventa animale e chi no, a tutti i livelli. E non è un fatto di istruzione o di cultura, di Nord o di Sud, di Emilia o di Abruzzo. Per chi non si animalizza non esiste terra o campanile, non esiste sangue o antenato che valgano la pena di perdere la propria dignità calpestando quella degli altri.

Tuttavia c’è qualcosa in Emilia di profondamente diverso rispetto all’Aquila. Si tratta di una sensazione tangibile, una sorta di maggiore preoccupazione collettiva, di tutela, quella che in Latino si chiama “cura”. In Emilia il territorio consiste in una rete industriale tessuta intorno alla zona colpita: c’è la consapevolezza sociale che se si ferma quel nodo, ne risentirà l’intera zona intorno, l’intera regione. Ecco perché il terremoto di Mirandola e dintorni è il terremoto di tutta l’Emilia. Da noi il terremoto dell’Aquila è divenuto quello di tutto l’Abruzzo per arraffare la carne buttata nella gabbia, per ravanare nel cesto degli aiuti, chi ne aveva bisogno e chi no. L’Abruzzo è una terra dura, divisa da montagne, niente rete per la terra dei cinghiali. E L’Aquila è ancora più dura, montanara e isolata com’è, con quell’alterigia di blasone antico che ha sempre infastidito le città limitrofe. Ma senza rete i disastri sono affar tuo. E’ evidente che la democrazia è il contrario dell’autarchia, ecco perché l’umanizzazione si ottiene attraverso una rete di relazioni che rendono la tua porzione di esistenza necessaria perché sussista anche quella degli altri. Le città, come gli individui,  dovrebbero trovarsi dentro una rete economica, e la rete economica dovrebbe diventare poi rete industriale, produttiva, finanziaria, fino ad arrivare a quella culturale, umana e di solidarietà tra le comunità urbane e rurali. Non vedetela come una riduzione, amici, dico solo che forse dovremmo ribaltare il tavolo: non essere solidali perché siamo bravi, ma perché siamo comunque “legati” in rete, e un tuo crollo è anche un mio crollo. Ormai l’abbiamo sperimentato di persona: non può essere l’ideologia, non può essere la religione né i buoni sentimenti a costringerci a farci carico del prossimo colpito da una calamità, e a farcene carico con una carità statale pelosa che poi ti ricatta. Oggi, con un terremoto alle spalle, con una vita monca di tutto, io credo profondamente e crudamente che l’unica molla che consente di rialzarsi in questi casi è l’interesse e la convenienza comune affinché questo accada. I principi umanitari parlano un linguaggio diverso, certo superiore: in questo caso, amici di Napoli, l’aiuto si dà “amando”, addirittura. Ebbene, io credo che l’espressione “sussistenza in rete” possa bene costituire un terreno di dialogo comune tra laici e credenti, tecnici e politici, colti e incolti, per la costruzione di una società migliore. Ci sarà sempre un fortissimo gap, certamente, tra chi crede in un valore e chi spera in un guadagno: ma potrebbe essere un buon inizio per avviare una cultura della condivisione, una cultura della sicurezza, una scalata collettiva della piramide. Per non diventare animali. Per “restare umani”.

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LA GATTARA

Giuseppina è veramente esistita.
Così si chiamava, la “gattara” della Villa Comunale, negli anni Sessanta. Quando le gattare non avevano i gruppi sui Facebook e la gente le considerava delle mezze matte, e forse lo erano davvero.
Il testo, scritto a ridosso del 6 aprile, nasce da una passeggiata sui luoghi della mia infanzia. Cammino, rivivo quello che succedeva. E a un certo punto…..

 

Arrivava con un’automobile scassata, una Giulietta color sabbia.
Rallentava, accostava al muretto della casa di cortina rossa di Via Filippo Corridoni, spegneva il motore, armeggiava ancora un po’ in macchina. Infine scendeva, maneggiando una rumorosa busta di plastica ricolma di spaghetti al pomodoro. “Miiiicio miciomiciomicio! Miscccch… Nz-nz-nz-nz-nz… Miciomiciomicioooo!”. Iniziava a chiamare con una voce ferma, forte, imponente. Era proprio quello il momento in cui tutti i bambini scappavano a nascondersi dietro agli alberi, o dietro ai pilastri del portico della casa di Serena, un portico ampio, libero, spazioso, pavimentato a mattonelline rosse, ottime per pattinarci sopra. “Schhhhh!!!! Zitti! non facciamoci vedere!” bisbigliava Serena, capo carismatico della banda. Ma lei, la Gattara, sapeva bene che i bambini erano nascosti lì intorno.
Dietro ai vetri delle finestre, nelle case, dietro alle tende, c’erano sempre persone a spiare la Gattara come fosse un alieno. E Lei, che lo sapeva, li controllava feroce, con la coda dell’occhio. Per dispetto alzava la voce: “Miiiiiiiiicio miciomicio! Miscccch… Nz-nz-nz-nz-nz! Venite qui, piccoliniiii! Non abbiate paura di quei brutti spioni… Ci sono io a proteggervi… Venite ciccini… C’è la mamma…”.
Una bimba più di tutti gli altri restava impietrita. Il respiro corto, il cuore che batteva così forte da temere che la Gattara in persona lo sentisse. Potevi addirittura immaginare il modo in cui la piccola cercasse di tacitarlo (“Placati, placati cuore mio, lei non ti può vedere, fatti coraggio, resisti!”). Se faceva quell’effetto sul cuore dei bambini doveva essere proprio vero che la Gattara era un strega. Lo dicevano tutti, perfino il parroco, Don Pasquale. Pare che l’avesse detto in gran segreto alla mamma di Serena. Pure il tabaccaio di Porta Napoli, che aveva il bancone così alto che i bambini non potevano sentire quello che diceva alle loro mamme, pure lui, chiamava la Gattara proprio così, “la strega”. Tutte le autorità del quartiere, parlando di lei, facevano facce strane, o due occhi che pareva dicessero “quella lì”. Dicevano che era pazza, che non aveva nessuno al mondo, solo i gatti della Villa Comunale. Che cosa mai l’avesse trasformata in una gattara, senza neanche più un nome, senza una storia, nessuno lo sapeva, o voleva dirlo.
Vediamo chi vuole venire a casa mia, stasera… “ minacciava ogni volta la Gattara a voce altissima, per tenere lontani i bambini mentre i gatti mangiavano. E muoveva qualche passo, un po’ di qua, un po’ di là, sbirciando con gli occhi nervosi e cattivi. Quando lei si avvicinava, tutti i bambini scappavano dai loro nascondigli, come stormi di tortore che si alzano in volo dopo uno sparo. Scalpiccio di piedi sul selciato, ali sotto le suole delle scarpe.
Un giorno, per puro caso, proprio la bimba più paurosa riuscì a guardare la Gattara dritta in faccia. Involontariamente, certo, perché fu la Gattara a venire a tiro del suo occhio destro, nascosto perfettamente dietro al tronco dell’albero che la proteggeva. “Vediamo chi vuole venire a casa mia, staseeeera!” aveva detto la Gattara, calcando i passi verso i nascondigli dei bambini. Scalpiccio… voli di tortore… Ma la piccola non era riuscita a muoversi. Era rimasta lì impietrita dalla paura, i piedi cementati a terra e le braccia paralizzate, strette alla corteccia dell’albero, corteccia lei stessa. L’occhio destro, appena sporgente dal tronco dell’albero, era così immobile che riuscì a vederla, solo perché fu lei stessa ad entrare nel suo campo visivo, ed eccola lì davanti, la Gattara: capelli scuri, lunghi appena fin sopra le spalle, frangetta squadrata, occhi truccati pesantemente ma grossolanamente, rossetto acceso, un po’ screpolato, cappotto dal collo sciallato, che di certo ricordava tempi migliori. Gli occhi, marcati di nero, spuntavano fuori nervosi dalla frangia compatta. “Miiicio miciomiciomicio! Miscccch!… Nz-nz-nz-nz-nz…”. Sistemò il sacchetto a terra, lasciando fuoriuscire gli spaghetti e continuando a chiamare i gatti, che iniziarono ad arrivare miagolando di riconoscenza. La Gattara si accorse della bambina dietro all’albero. Oh… Di sicuro l’avrebbe presa e portata via come recita la filastrocca dell’Uomo Nero! L’avrebbe presa e chiusa in una gabbia dentro alla sua Giulietta scassata, per poi cucinarla nel sugo degli spaghetti per i gatti! La bimba serrava le palpebre sugli occhi, sentiva la saliva riempirle la bocca, non aveva neanche il coraggio di inghiottire.
Questi bambini sono molto maleducati” disse invece la Gattara ad alta voce, camminando solennemente verso di lei. “C’è solo una bambina coraggiosa, in questo quartiere…”. Stava parlando di lei? Il cuore della piccola voleva scoppiare, oppure fermarsi, fatto sta che quelle parole ebbero lo strano effetto di convertire la paura in una strana emozione, forte e bella quanto prima la paura era stata terribile e distruttiva. “Solo una bambina non è scappata via…” gridò la Gattara, per farsi sentire dagli altri bambini. “…L’unica bambina in gamba in questo posto pieno di sbruffoni!”.
La bimba ricominciò a respirare, sentì il sangue scorrere di nuovo, i muscoli delle gambette secche rilassarsi. Poi la Gattara aggiunse, a voce così bassa che solo la bimba poté sentirla, e non lo raccontò mai a nessuno al mondo: “… Quei mentecatti dietro ai vetri mi danno della pazza… mentecatti… Piccoli topi miserabili… state alla larga dalla Gattara, state alla larga, miserabili topi…sciò!”. E raccolse il sacchetto ormai quasi vuoto, rovesciando gli ultimi spaghetti per terra. “Miiiicio miciomiciomicio! Miscccch… Nz-nz-nz-nz-nz… Andate a nanna gattini, su, fate i bravi… E state lontani dai cani… i cani ah!”.
A questo punto, la Gattara si girò verso la bimba nascosta. L’occhio destro della piccola non osò neppure sbattere la palpebra, così la fissò dritta in quegli occhi felini, neri come due olive nere. E la trovò bellissima. E pensò che era una fata.

Quel giorno la Gattara aveva detto a tutti che quella bambina era la più coraggiosa del quartiere, e da allora in effetti la bambina iniziò a diventarlo, ogni giorno di più. Si diventa sempre quello che una fata dice agli altri che tu sia.

Miiicio micio micioooooooo! Mischhhh… Nz nz nznznz…

Non c’è più nulla, in via Filippo Corridoni, ora.

Arrivo, spengo la macchina, e chiamo.

Miiicio miciomiciomicio! Mischhh!…

Rovescio la mia busta di spaghetti a terra, loro arrivano, sono pochi, tre o quattro, i pochi rimasti qui dopo il 6 aprile di tre anni fa. Sono riusciti a salvarsi dal crollo della casa con la cortina rossa, la casa di Serena, che si è seduta sul suo porticato, sbriciolata, sprofondata, ingoiata dalla terra, lei, il suo portico con il pavimento di mattonelle rosse su cui noi bambini si pattinava.

Venite, piccini… nznznznz… Venite, su!

Non c’è più nessuno che guarda da dietro le tende. Sono morti, ingoiati dalla terra. Oppure scappati via. Posso sentire lo scalpiccio dei piedi che corrono, volo di tortore dopo lo schioppo, ali sotto le suole delle scarpe… I gatti, però, sono rimasti. Sporchi, smagriti, selvatici, piccole linci selvagge, arruffati, soli.

Miciomiciomiciomicio!… Nznznznznz… Mischhhh!”.

Venite qui, piccini, la Gattara vi nutre, vi porta acqua da bere. Siete stati bravi, siete stati coraggiosi a restare in questo posto.. Venite, la Gattara vi protegge, perché siete rimasti qui senza casa, senza cibo.

I gatti mangiano avidamente, io riempio di acqua una grossa ciotola di plastica.

La polvere delle macerie mi secca la bocca, la sento nella gola. Sono passati tre anni.
E non c’è neanche una bimba, dietro un tronco d’albero, a guardarmi con il suo occhio destro sbarrato. Neanche una bimba, in via Filippo Corridoni, a vedere la Gattara come una bellissima fata senza storia.

 

gatti
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Buddy Guy – Black Cat Blues

LE PIETRE DELL’AQUILA

Articolo per un giornale on-line, teso ad informare su una ennesima attività iniziata con i miei studenti.

Che cosa pensano dell’attuale vita aquilana coloro che al 6 aprile 2009 avevano 14 anni? Erano ragazzi abbastanza grandi da aver vissuto la città in autonomia, e se la ricordano bene, oggi, legati ad essa da quel vincolo profondo che chiamiamo “appartenenza”, maternità, infanzia, pancia. Abbastanza grandi da avere senso critico, prossimi al voto, ormai vicini a decidere se tagliare o meno il cordone ombelicale che li lega al passato, restare o andarsene via. Dunque che cosa pensano delle condizioni della città, che cosa sperano per lei?

E’ quello che ho cercato di scoprire aderendo ad un’attività didattica che li ha visti protagonisti: scrivere i loro pensieri in argomento, per accompagnare le fotografie esposte nella mostra del M.tro Sergio Stignani, a titolo “Le pietre dell’Aquila”, progettata e curata da Riccardo Badolato. Ospiti d’onore all’indomani dell’inaugurazione della mostra alle Grotte del Boldini nei pressi del Castello d’Este a Ferrara, i ragazzi del liceo Bafile hanno avuto ieri una splendida occasione per dimostrare quanto questo tragico vissuto possa trasformarsi in una buona occasione.

I pensieri dei ragazzi illuminano le fotografie di una luce particolare, conferendo loro un significato speciale, al punto da divenirne supporto. Ciò che i ragazzi hanno raccontato dell’Aquila abbraccia un po’ tutte le loro emozioni e i loro pensieri. Raccontano di una città avvolta da un “silenzio assordante”, un posto in cui “le ferite non sanguinano, ma neanche cicatrizzano”. Qualcuno parla di un “corpo ferito”, alcuni addirittura di un “cadavere”. Si sentono offesi dal turismo macabro che li circonda: “La fotografano pensando che sia una nuova Pompei: una città senza alcuna speranza di tornare com’era”. Rivendicano a modo loro un passeggio aperto con le vetrine, i bar, i portoni aperti a mostrare lo scorcio dei cortili, cose normali per tutti gli abitanti di una città, eppure speciali, per chi una città non ce l’ha più. Insistenti e rancorose le loro riflessioni sulle strade che non portano più a niente, sui “fondali posticci fatti di casette prefabbricate e centri commerciali”. Lamentano il provvisorio definitivo: “E’ inutile puntellare, se non si sa puntualizzare”. Raccontano la difficoltà di una giornata fatta di spostamenti dai pochi posti certi (le nuove abitazioni, la scuola e la palestra) ai non-luoghi di incontro: “a piedi non si arriva da nessuna parte”, e “le rotatorie ti accompagnano velocemente all’uscita da tutto”. Raccontano una “vita da criceti, pronti a correre nella ruota con l’angosciante certezza di ritrovarci sempre nello stesso punto”. Alcuni vivono una sorta di straniamento, non riconoscono più i luoghi della vicina infanzia. “Quando provo a tornarci è come se non fosse lei, come se non fosse mia”. Ultimamente qualcuno ha aggiunto le nuove sensazioni: “Sono tornata dove sono cresciuta e non ho riconosciuto i luoghi, non sembravano neanche più quelli, irriconoscibili come un posto mai visto e abbandonato da qualcun altro”. Ricorrente la parola “abbandonare”: come se serpeggiassero sensi di colpa, come se i ragazzi vedessero ora la città dell’infanzia simile a una persona viva, malata e abbandonata morente. Pochi coloro che si profondono in slanci di generosità: “Ti sei seduta, stanca di tanta polvere e tanto sudore. Ma io ti aiuterò, ti tirerò con la mia mano”. “Viviamo in un mare in tempesta” scrive un altro, non a caso. Non dev’essere facile per un adolescente vedere gli adulti, normalmente punto di riferimento e modello di equilibrio, arrabattarsi in un caos di una normalizzazione che ancora, dopo tre anni, fatica ad imporsi. Le case “B” diventano “A”, i traslochi si susseguono ancora vorticosamente, i C.A.S. diventano C.A.S.E. e le C.A.S.E. cambiano. Raccogliere i loro pensieri rientra nel piano generale della cura della memoria, e invitarli ad esternare la nostalgia per la città del “prima” non significa alimentare un facile vittimismo, al contrario è cura del ricordo dei luoghi antichi, affinché i ragazzi stessi diventino consapevoli attori di un futuro che hanno scelto e non subìto. Alcuni di loro non riescono a non parlare ancora di quel giorno, che ha segnato per sempre la loro esistenza. “Palazzi e chiese verranno ricostruiti, ma il cuore e l’anima non verranno ricostruiti più”, dice Francesco, portando con sé il fantasma della serenità di cui godeva prima e insistendo su quella “ricostruzione immateriale” che gli adulti praticano autonomamente, in virtù di una bella attrezzatura già solidamente conquistata con la maturità. “La polvere del crollo nasceva con lei e moriva con lei, e io non lo sapevo” dice Carolina, insistendo su quell’attimo in cui gli occhi erano fissi sul crollo, spartiacque della storia di settantamila vite.

Ma veniamo al loro impegno per la città: Luca dice con franchezza ed onestà “Ho paura”. E ci spiega che non è una paura legata al futuro, o alla ricostruzione di casa sua: “Avverto la grave situazione della mia città, ma ciononostante non sento il dovere di informarmi. E sono ancora più turbato quando penso di non essere l’unico”. Paura di delegare, dunque, di non partecipare alla ricostruzione, ma anche paura di impegnarsi in prima persona, impotenza, inadeguatezza. Sintesi estrema quella di Elena: “Ieri avevamo una città. Oggi abbiamo un enorme cantiere. DOMANI resta tutto da vedere”. Anche Arianna enuclea un magma esplosivo: “E’ un terremoto incessante quello con cui lottiamo ogni giorno. Un terremoto di leggi mancate, giri di soldi, burocrazia, una ricostruzione difficile”. Alcune analisi sono anche sagaci, come questa di Eliana e di Alessandra: “L’Aquila era città medievale fatta di crocicchi, dovevi decidere dove andare, potevi sceglierlo”. Roberta chiede, ma velatamente pretende, condiziona la sua scelta: “Se lei non mi abbandona, io non l’abbandono”. Qualche volta la consapevolezza della complessità della situazione li porta ad esprimersi con un filo di rassegnazione. Non sono più bambini capricciosi che pestano i piedi per avere tutto e subito: gli adulti vorrebbero che stessero buoni in un angolo, oppure che diventassero tigri disposte a “spallare la città” per mettere il sale sulla coda a chi si occupa di ricostruzione. E invece loro capiscono che ci vuole tempo, si accontentano della sfrenata movida del sabato in Zona Rossa, e di qualche passeggiata infrasettimanale: “sole e speranza risplendono tra i nostri ruderi”, dice Lorenzo. Ma il sole è sempre lo stesso, dentro un cielo così azzurro che puoi girare tutto il mondo ma non sarà mai quello della tua città natale.

All’inizio di questa ennesima avventura avevo chiesto ai ragazzi di scrivere le loro riflessioni anonimamente, per vincere quella forma di pudore che spinge i ragazzi a tenersi dentro il loro pensiero. Ma poi, pian piano, ho invitato chi se la sentiva a firmare, a riconoscere come sua la propria creatura. Un po’ alla volta tutti si sono ripresi con orgoglio quanto prima buttato via come un responso di sibilla scritto su una foglia. Solo un pensiero è rimasto senza autore, nessuno ha voluto riconoscerlo. “Vivere alla giornata e non avere alcuna progettualità: questo è quello che sto vivendo”, forse rinnegato dal suo stesso autore, forse, alla fine dell’esperienza ferrarese, pensiero ripudiato come vile e dunque disconosciuto. Ferrara li ha accolti facendoli sentire orgogliosi del loro coraggio, incitandoli alla forza della reazione. La Dott.ssa Patrizia Bianchini, assessore provinciale alla Pianificazione Territoriale e all’Urbanistica di Ferrara, ha avuto per loro parole di forza e di encomio. Abbiamo visitato Ferrara, abbiamo passeggiato in un’isola pedonale fantastica, gelosamente curata e custodita. Ma in ogni situazione il coro era unanime: “Questo si potrebbe fare all’Aquila!” oppure “Perché non lo proponiamo al Sindaco?”. Grande stupore davanti al fossato del Castello Estense, colmo d’acqua. “Lo vogliamo così pure all’Aquila!”. Grande ammirazione per l’isola pedonale dominata dalle biciclette. E qualcuno ha iniziato a sognarla anche per L’Aquila: “Biciclette, ma elettriche, da prelevare con una scheda magnetica a valle e da restituire a monte”. La sognano più bella e più nuova di come era prima. A volte ho sorriso, ascoltandoli, e ho ripensato a quel vecchietto di Santo Stefano di Sessanio che, intervistato dal noto architetto belga artefice del restauro del paese, gli aveva detto in tono deluso e quasi di rimprovero: “eh… Ju sete refattu cchiù vecchiu de come era prima…” I ragazzi sognano un centro diverso ma uguale, nuovo ma vecchio, tecnologico ma medievale. Quanto sia importante farli uscire dall’Aquila, quanto sia necessario aprirli al confronto, è inutile sottolinearlo: solo in questo modo chi di loro sceglierà di restare potrà farlo con fierezza e con fermezza. Si parte sempre per tornare. E chi non parte mai, se ne andrà via davvero, portandosi dietro pezzi di storia dimenticata. Con orgoglio posso sostenere che l’esperienza ferrarese per la mia classe 4 D abbia fatto magnifico pendant con le parole che questa mattina il Prof. Alberto Asor Rosa ha riservato agli studenti del Bafile: “Ho fatto un giro nella città vecchia, e ne sono rimasto profondamente turbato. Gli Italiani non hanno fatto, per questa città, quello che avrebbero dovuto fare. E bisognerà battersi per questo”. Battersi per questo.

A sera, al termine del viaggio, le porte del pullman si aprono all’aria fina della montagna. Pur dentro un anonimo megaparcheggio ai margini della Zona Rossa, mi ritrovo a scrutare qualche ragazzo che scende dall’autobus, poggia i piedi a terra: si sente a casa. E sono certa di aver fatto la cosa giusta per lui quando lo sento mugugnare fra i denti: “Ah! Finalmente… L’Aquila bella mé

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foto prese da Facebook

L’ACQUA DELLE PALLE DI NEVE

 La grande nevicata del febbraio 2012, chi se la scorda? Fu una storia dentro la storia. E dentro queste due storie, ce ne fu un’altra, che ho voluto raccontare qui, romanzandola parecchio, ma riportandola “nel succo”. Alba, la protagonista, potrebbe essere una mia alunna. E quello che racconto potrebbe essere vero. Almeno in parte… Ciao Sara 😉

 

“Ma come devo fare co’ ‘sta figlia mia? A me una figlia facile, una di quelle normali, una di quelle che vogliono i massaggi e la manicure no, eh? A me sempre la strada in salita!<”. Lo pensava, ma si guardava bene dal dirlo, Giuseppina. Tanto lo dicevano gli altri, lo dicevano tutti, alle spalle, col risolino all’angolo della bocca o l’aria di compatimento: “Poveretta, quanti guai le dà quella figlia, povera donna!”. Allora lei alzava il mento e camminava fiera, impettita. Al diavolo loro e le loro belle figlie con le unghie laccate: non ce l’avrebbe cambiata mai, la sua Alba, con quelle lì. Però ogni tanto lo pensava: “Come devo fare co’ ‘sta figlia mia?come devo fare dio mio? come devo fare?…”.  Difficile dalla nascita, Alba: chi l’aveva vista bambina, quando sembrava Heidi, felice per ogni piccola cosa, poteva anche capire. Poteva capirla sua madre, forse, o forse sua zia, che se l’era portata sempre dietro ovunque, o la sua maestra delle elementari, che era rimasta per lei come una zia saggia e prudente, una buona consigliera. “Bisogna prendere un avvocato” disse la zia Laura, preoccupata ma decisa. “Un avvocato? E chi lo paga un avvocato? E per due cause?”. “Non esagerare, dai, la prima è caduta” “E allora aspetteremo che cada anche la seconda. Di più non posso fare” “Certo che pure lei però… Per forza in prima linea deve stare? Un po’ da parte no, eh, mandare avanti gli altri… stare un po’ attenta… no eh?”
“La conosci… L’hai cresciuta insieme a me”
“E la conosco sì. Però qui mica si tratta più del gatto randagio e del cane ferito… qui andiamo sulle cose serie” “Alba è cresciuta, Laura. Prima erano ginocchia sbucciate per arrampicarsi sugli alberi, occhi neri quando si picchiava con i grandi. Ora è questo. Dovevamo aspettarcelo, su…”
“Non abbiamo fatto niente per evitarlo. Quando è andata all’università a Roma avevo pensato… avevo creduto… speravo che…”
“Non è colpa di nessuno: il terremoto c’è ogni tre secoli… E’ capitato a noi. Era destino”
“Lascia stare il destino… Piuttosto: lei lo sa? A che ora rientra?”.
Proprio in quel momento la chiave girò nella toppa, e la porta si aprì. “Accidenti….. quanta neve!….”.
La faccia di Alba, ben chiusa in un cappuccio stretto stretto e con le gote tutte rosse per il freddo, si rabbuiò appena vide dalla porta la madre e la zia sedute in cucina, davanti al tavolo. “Oddio, e mo’ che altro è successo?” ,ormorò tra i denti. “Niente, solo un’altra denuncia per occupazione di suolo pubblico, che sommata a quella dell’anno scorso per il blocco della A24 fanno due denunce. Che sommate all’abbandono dell’università, del lavoro part-time che avevi trovato, dell’affitto della casa di Roma dove però non stai, fa un sacco, ma proprio un sacco di guai”….
Alba restò ferma, in piedi ancora fuori dalla porta, rigida come un merluzzo secco. La gioia della nevicata le si era mozzata nella gola come un boccone buttato giù per lo spavento. “Come… un’altra denuncia?” “Eh sì”. “Ma solo a me?” “A te e a pochi altri”. La faccia prese un’espressione di tale rammarico che zia Laura non riuscì a non intervenire. “Dai Alba, non è la fine del mondo, risolviamo pure questa, dai, non fare così”.
Alba iniziò lentamente, come un automa, a togliersi il cappotto, scrollando la neve sullo zerbino, con cura, per non bagnare il pavimento. Dopo una lunghissima pausa disse solo: “Ma perché sempre a me?”. “Oh, figlia mia, sapessi quante volte lo dico io”. Di nuovo zia Laura decise di interrompere la pesantezza: “Perché hai sette palmi di corata, Alba, ecco perché! Perché sei generosa, perché non ti risparmi e proteggi gli altri, come hai sempre fatto”. “Zia, spiegami che male ho fatto…”. Ma la madre era fuori di sé. “Siete una manica di matti. E’ per questo che avete scelto quel posto lì, vero? Perché sapete che siete matti! Gli avete pure cambiato nome, a quel posto, Casematte lo chiamate, che io per capirlo ci ho messo un anno e mezzo. Lo sapete che siete matti, perché invece di studiare e pensare al futuro, che non c’è lavoro, che non c’è più la casa, che non c’è più la città, voi state a perde’ tempo lì… Ma lo sai che la gente c’ha paura di passare lì? Lo sai che a vedervi vestiti come i fricchettoni dei tempi miei, la gente pensa alla droga? Lo sai che tutti quei cani che girano lì intorno perché li andate raccogliendo in giro, quelle persone strane con le chitarre.. ma che è… Woodstock? Lo volete capire che non è più quell’aria? Che la gente adesso ha paura? Che i tempi sono cambiati? Alba! Ma perché non fate i ragazzi normali? Lo studio, i fidanzatini, l’aperitivo, il cinemino.. dai su… ma che è?”. Alba era sempre più affranta a sentire la madre parlare così. Si lasciò cadere sulla sedia, come un vestito tolto dalla gruccia. Zia Laura le versò un po’ di caffè ancora caldo e glielo porse, girando lo zucchero nella tazzina finché lei non allungò la mano per prenderla. Giuseppina, a vederla così, si fece forza. E’ che non era colpa sua, povera figlia… Magari chissà che cosa le avevano messo in testa… Doveva esserci un piano dietro, qualcun altro che sobillava. “Ma chi ve l’ha messa in testa ‘sta cosa, insomma? Chi ci sta dietro, povera figlia mia, dillo a mamma, è andata così, vero che è andata così? è così vero Alba? E’ vero che c’è qualcun altro a monte? Però adesso la denuncia ce l’hai tu, eh, invece loro stanno a casa con i figli che vanno all’Università, eh, magari fanno la Bocconi, eh? Loro la Bocconi e voi i boccaloni, eh? Dai dimmelo! Chi è? Eh, chi è?”.
Per fortuna suonarono alla porta. Madre e figlia erano appoggiate con i gomiti sul tavolo e la testa tra le mani, sembravano corpi vuoti, solo zia Laura scattò in piedi per andare ad aprire. “Oh, guarda chi c’è! La maestra Giovanna non manca mai quando Alba si mette nei guai!”. Si salutarono, si abbracciarono, non appena Giovanna ebbe finito di sistemare fuori dalla porta l’ombrello pieno di neve. “Hai saputo della denuncia eh? Vedi che casino, cara la mia maestra comunista?”. Risero, tutte e due. La maestra Giovanna era una donna minuta, all’antica, gonna sotto il ginocchio pure quando nevicava, miope come una talpa. Zia Laura la chiamava sempre maestra comunista per via delle idee di Alba, per prenderla in giro. “Ecco qua la tua pupilla! E noi che abbiamo fatto tanto per farla studiare!” ridevano. “Eh, non è la maestra comunista! – rideva Giovanna – è che tua nipote è una ribelle!… E poi ha una vera passione per le cause perse!”. Una bella risata ci voleva proprio. Dalla cucina, però, non riuscirono a condividere il buon umore. Alba fissava la tazzina di caffè. Il setaccio ancora una volta aveva separato la farina dalla crusca. E lei era la crusca. “Muor giovane colui che al cielo è caro!” recitò la maestra Giovanna “e vaglielo a spiegare, Alba, a chi prende i libri come cose che devono fare solo gli altri!”. “Oh, qui non muore nessuno!” si svegliò all’improvviso la madre. “Ma è una metafora, Giuseppì, muore inteso come si sacrifica, si immola per la causa!” “Ma quale causa?” “L’Aquila, la civitas” “E chi vi paga? Perché non lasciate decidere ai preposti, professionisti, tecnici, gente pagata per questo?” “Eh, Giuseppì… Mica tutti so’ capaci! Se tutti gli uccelletti conoscessero il grano, povero contadino!”. “E solo la figlia mia il grano lo deve conoscere? E solo lei viene beccata dal contadino, che se la cucina poi bene bene dentro al sugo per la polenta?”.

Alba non diceva una parola. La mente viaggiava verso il ricordo di quel “no” forte e imperioso che aveva sentito a Roma, dopo il sisma, e a quei pensieri che l’avevano riportata qui. “La mia città è distrutta, i miei amici, i miei parenti, tutti quelli che ci stanno dentro. Io non posso stare in nessun altro posto che questo, tutto mi chiama. Anni passeranno, e passeranno decenni. Questo sarà il baluardo, il fronte. Qui la vita ha il suo significato. Qui si può pensare alla terra, curarla. Qui si può ritagliare un angolo. So che non dovrei lasciare gli studi, il lavoro, la grande città, tutto quello per cui ho faticato finora… E’ che non riesco a non farlo. La mia città è ferita a morte, ha bisogno di cure. Qui… io… sono… io sono… felice!”.
Il telefono interruppe il flusso dei pensieri: Alba rispose subito, disse qualche monosillabo, poi riappese. “Inizia il torneo, vi saluto, devo andare” disse, come se si fosse riaccesa all’improvviso.
“Ma che torneo?”
“Battaglia a palle di neve”.
“Che? Battaglia a palle di neve?”
“Sì, facciamo una festa alla neve”
“Una festa alla neve? Ma se questa nevicata ha messo in ginocchio tutta la città!”
“Non tutta”
“Ma che dici Alba? … A che ora torni?”
“Quando finisce la festa alla neve. La neve che pulisce, purifica, nutre la terra”
“Ma figlia mia, tu te ne stai a uscì, te stai a impazzì! La neve impedisce il passaggio, le cure, rovina i pochi palazzi rimasti… la neve è una disgrazia!”
“Per voi è sempre una disgrazia: sia che nevica, sia che non nevica. Perché neanche la guardate, la neve. Guardate solo la strada asfaltata che vi deve portare dove non serve andare. E tutto quello che vi limita in questo trasporto, il sole, il vento, l’afa, l’acqua, la sabbia e la neve, tutto quello che vi sciupa il vestito è solo… è solo… qualcosa che vi sciupa il vestito”.
“Ma quale vestito? Ma che stai a ddì, figlia mia, vieni qua, tu stai male!”.
La maestra Giovanna prese Giuseppina per il braccio e la tirò a sé. “Lasciala stare, Giuseppì. E’ sconvolta dalla notizia, su… E poi è l’età, deve passare”. “Ah! – esclamò la povera madre – e quando sarà passata, che cosa si ritroverà in mano, Alba? Te lo dico io! Solo acqua! L’acqua delle palle di neve!”…

Ma Alba in quel momento era lontana, camminava e vedeva il futuro: sé stessa, il suo ragazzo, i suoi figli, quei figli nati dal terremoto del 2009, e dalla nevicata del 2012.

I figli, quelli che l’estate era estate, l’inverno era inverno.

Quelli che avrebbero ricostruito L’Aquila.

 

L’OSPITE

Finalmente Carlo si era sistemato come meglio poteva: finalmente questo terzo inverno l’avrebbe trascorso nel calore di quella che amorevolmente lui chiamava “la baita”.

Il villaggetto di casette di legno era uno dei tanti villaggetti sorti nell’immediato doposisma, un po’ spartani, spuntati come funghi per gestire l’emergenza e poi rimasti come dimore più o meno stabili, visti i tempi lunghi della ricostruzione. “Bella eh!” disse Carlo al vicino di baita, indicando orgogliosamente la palizzata di legno della recinzione, perfettamente in tinta, fresca fresca di pittura. “Bella, bella!… Bravo! Pure io la voglio fare in tinta con il resto della baita! Se ne parla a primavera, però. Adesso mi voglio godere le vacanze di Natale in santa pace!”.

Aveva fatto proprio un bel lavoro, Carlo, quel giorno: il freddo gli aveva quasi cotto le mani, provava la stessa sensazione di quando da piccolo tirava gli attacchi degli sci con le mani gelate. Stessa sensazione, quarant’anni e un terremoto dopo. Aveva spennellato tutto il giorno la palizzata pensando a Karate-Kid e ora, stanco ma felice, si accingeva a infilarsi a letto. Il caldo del piumone era intriso dell’odore del mordente e l’aria era pregna del sentore del legno, avvolgente, calda… Gli occhi gli si fecero pesanti… le palpebre iniziarono a chiudersi come saracinesche. Ma, sul più bello dell’abbandono, proprio dentro all’orecchio, schioccò, all’improvviso… un suono piccolo piccolo ma chiaro e distinto: “CRUNCH”. Sì…. proprio così: “Crunch”! Gli occhi si spalancarono immediatamente. “Crunch?” Una grondata improvvisa di sudore affermò impetuosamente quello che la mente negava con assoluta decisione. CRUNCH CRUNCH CRUNCH. Poi silenzio. Il suo sesto senso gli urlava senza alcun dubbio: “QUI DENTRO C’È UN TARLO”. Carlo restò terrorizzato dall’orrendo sospetto, mordendo il piumone e battendo i denti. Quali ataviche paure può mai scatenare un coleottero nella mente di un uomo adulto e consapevole? Che male può fare una piccola farfalla? Poco o niente, in verità: è solo che un tarlo dentro una casetta di legno situata dentro un villaggetto di casette di legno è come un’ape in un campo di fiori, un bifidus nello yogurt, un virus nella calca della fiera della Befana, l’orso Yoghi nel cestino della merenda. Un altro CRUNCH evocò, nella mente di Carlo, fumetti di Walt Disney e storie di Paperino in cui le termiti divoravano all’istante il letto del povero papero mentre ci dormiva dentro, facendolo finire su un mucchietto di segatura. Il fatto è che in quella casetta di legno c’erano tutti i soldi di Carlo: aveva venduto per comprarla, aveva fatto gli accomodi, curato i particolari, la veranda, i mobili su misura, la stufa di ghisa, perfino la Iacuzzi. “No, non può essere. Le casette di legno vengono trattate, mica sono fatte di truciolato!?! Ci sarà una garanzia, suvvia! Ci sarà, nel peggiore dei casi, un trattamento, una disinfestazione! Sì, sarà così… deve essere così. Ora dormo, domani ci si pensa”.
Si girò dall’altra parte e si addormentò, in un turbinìo di pensieri e di preoccupazioni, la più seccante delle quali confluiva nel sorriso beffardo della sua ex-moglie, Alberta, che aveva cercato di dissuaderlo in tutti i modi da quello che lei definiva un “incauto acquisto”. “Come si sta ad Auschwitz?” Si informava di tanto in tanto Alberta, per telefono, così, giusto per sfottere un po’. “Vi fanno fare l’alzabandiera, la mattina, al villaggio? Ehehehe .. C’è pure il capocampo della Protezione Civile che suona la tromba?” Oppure, cavalcando la vena telefilmica: “Chi di voi ha vinto la candidatura per girare La Casetta nella Prateria?” Altre volte andava sul genere western, tipo: “Quando apre il saloon?” Ma il sugo della storia era sempre questo: “Come fai a vivere lì, tu che hai sempre abitato in Via ed Arco delle Terziarie?”. Alberta non avrebbe mai accettato il compromesso di quelli che si erano adattati nelle periferie. Piuttosto sarebbe morta nella consapevole precarietà di una bidonville ai margini della Zona Rossa, pur di non vivere nell’illusoria stabilità campestre del villaggetto degli Hobbit, sedia a dondolo e pipa in bocca. Nella mente di Carlo, in quella notte piena di paure, la faccia di Alberta si confondeva in modo inquietante con quella del tarlo.

Il giorno dopo, intorpidito dal freddo e dalla preoccupazione, il nostro eroe telefonò al precedente proprietario della baita e gli spiegò la questione. Naturalmente quello cadde dalle nuvole. Scava e scava, di passaggio in passaggio, si risalì al fatto che il villaggetto era nato come struttura provvisoria, che le casette non erano state costruite per durare, che il legno non era trattato, che i costi iniziali erano stati bassi ma che poi, perduta velocemente la memoria di tutto ciò, dai primi acquirenti ai secondi ai terzi le casette erano finite a prezzi di mercato, come le vere case di legno. Come si suol dire… “quella, la carota…”. Com’è che il tarlo non stava nelle casette nate a sfizio per farci il barbecue a fianco dei villoni? Com’è che il tarlo non stava nelle dependance abusive nate per farci le festicciole? Colpa della carota! Parecchi aquilani rimasti in mezzo a una strada avevano investito su quelle sistemazioni “autonome” come fossero definitive, per morirci dentro: i loro figli, chissà quando, avrebbero potuto recuperare la muratura, i loro figli avrebbero dovuto ripescare il bandolo della matassa tessuto dai nonni e dai bisnonni, superando una (forse due) generazioni di arraffa-arraffa. Carlo, gli altri come Carlo, potevano solo resistere, tenere accesa la fiaccola, non mollare il fazzoletto di terra sotto ai piedi. La saggezza popolare di costoro non ripose mai alcuna fiducia nei potenti, belli che sistemati al calduccio di case vere.

E così, abbandonato da Dio e dagli uomini, Carlo, dopo un paio di giornate infernali in cui meditò di mollare tutto e mettersi a fare il cacciatore di cinghiali, si piegò infine docilmente a fare l’unica cosa ragionevole: digitare su Google la parola “TARLO”. Due giorni dopo, preventivo alla mano non proprio leggero, si presentò alla baita una squadretta di ghostbuster in tuta bianca, mascherina e attrezzi del mestiere. Invitarono il povero Carlo a farsi da parte e gli dissero di tornare a tarda sera.

I vicini iniziarono a canzonare: “Oh, Carlo, ma ti sei comprata la baita con l’ospite? Ehehehe…. Gli fai pagare l’ICI??? Ahahaha”. A vederlo darsi da fare, così affannato e preoccupato, tutti si affacciavano sull’uscio e lo chiamavano: “Ehi, Tarlo! Ops… Carlo! Ahahaha”.

Ridete, ridete” diceva lui ai vicini strafottenti “secondo me io faccio in tempo a  immunizzarmi, ma voi?? Secondo me… no! ahahahah!”.

Dopo le prime risate, anche i vicini vissero progressivamente le stesse fasi del tarlo di Carlo. Perché quelli, i tarli, si sa… volano! Dopo la negazione ci fu il dubbio e poi la certezza. Poggiarono l’orecchio sulla parete e …..“CRUNCH!”. Anche per loro. La psicosi del tarlo si diffuse a macchia d’olio, nessuno più riusciva a dormire. CRUNCH CRUNCH CRUNCH CRUNCH! Sembrava una maledizione, danni e beffe a ripetizione! E prima il terremoto e poi le C.A.S.E. e poi la crisi e poi le liti tra ingegneri e Comune, tra Comuni e Commissari, tra ingegneri e condomini, tra ingegneri e amministratori di condominio! E infine lo spread, i tagli, addio ai soldi per la ricostruzione. E pure quando uno, esasperato, si organizzava una bella baita per conto suo e mandava tutto e tutti a farsi fottere e decideva di mettersi a fare il cacciatore di cinghiali… esso fatto… CRUNCH!. La vita superava la fantascienza: Alien.. La guerra dei mondi…. Visitors… un incubo. Carlo sognava quel tarlo appoggiato sulla bocca, grande come la farfalla del Dottor Lecter. Gli abitanti del villaggetto, alla fine, si erano coalizzati in questa nuova guerra da combattere, dopo le mille altre battaglie perse dopo il terremoto. “A testa alta, quatrà, e acqua in bocca! ‘stu cazz’ ‘e terramotu! Di gente che rrìe ne sémo sintita pure troppa, mo’ ci manchéa pure ju tarlu…. Stétese zitti… e jemm’ ‘nnanzi!”. Si parlava dei tarli solo con chi ce li aveva: “meglio invidiati che compianti”, dice il proverbio.

Gli abitanti del villaggetto misero in atto tutte le strategie per annientare il divoratore di casette. Il primo tentativo andò male. CRUNCH CRUNCH CRUNCH. Il tarlo era al suo posto, alla faccia dei gosthbuster. Secondo tentativo suggerito da Google: smontaggio e spennellata. Carlo si trasferì per due giorni da Alberta, mentre una nuova squadra di gosthbuster dava la caccia alle farfalle e soprattutto alle loro uova. Inutile anche questo. Terzo tentativo: il microonde. Stavolta le avrebbero cotte senza scampo. Prezzi scontati (si fa per dire) da parte della ditta, dato il numero consistente di casette da disinfestare.

Quasi mezzanotte, ormai, qualche giorno dopo. Il vicino di baita era uscito a fumare e a salutare Carlo con due bicchieri in mano, nonostante il freddo pungente e il discorso di Napolitano in televisione. “Allora, Carlo… che ne dici? Pensi che ne usciremo?”. Carlo mugugnò: “Mmmhh…Dunque… le uova si schiudono ogni 6.5 settimane, il che fa almeno 8 deposizioni, e il numero delle femmine aumenta del numero di Eulero elevato al numero delle settimane, meno 0.393111, che è il coefficiente basato sul tasso di natalità del tarlo: perciò a tutt’oggi ci sono e^8-0.393111, vale a dire: 2012 femmine pronte a deporre circa 50 uova a testa: sì, duemiladodici!” …. Manco a farlo a posta! “PUM!!! PUM!!!! PUUUMM!!!! BUON DUEMILADODICI A TUTTIIIIIIII!!!!” fu il coro di voci festanti da tutte le casette. Il vicino di baita gli porse il bicchiere: “Buon anno, Cà” . Carlo e il tarlo erano tutt’uno, ormai: gli era entrato nella testa. “Salute, auguri!” ….“Cin-cin!”… “Prosit!!!”.

Da lontano, altrettanto festoso, un sommesso e impercettibile…. “CRUNCH”.