L’OSPITE

Finalmente Carlo si era sistemato come meglio poteva: finalmente questo terzo inverno l’avrebbe trascorso nel calore di quella che amorevolmente lui chiamava “la baita”.

Il villaggetto di casette di legno era uno dei tanti villaggetti sorti nell’immediato doposisma, un po’ spartani, spuntati come funghi per gestire l’emergenza e poi rimasti come dimore più o meno stabili, visti i tempi lunghi della ricostruzione. “Bella eh!” disse Carlo al vicino di baita, indicando orgogliosamente la palizzata di legno della recinzione, perfettamente in tinta, fresca fresca di pittura. “Bella, bella!… Bravo! Pure io la voglio fare in tinta con il resto della baita! Se ne parla a primavera, però. Adesso mi voglio godere le vacanze di Natale in santa pace!”.

Aveva fatto proprio un bel lavoro, Carlo, quel giorno: il freddo gli aveva quasi cotto le mani, provava la stessa sensazione di quando da piccolo tirava gli attacchi degli sci con le mani gelate. Stessa sensazione, quarant’anni e un terremoto dopo. Aveva spennellato tutto il giorno la palizzata pensando a Karate-Kid e ora, stanco ma felice, si accingeva a infilarsi a letto. Il caldo del piumone era intriso dell’odore del mordente e l’aria era pregna del sentore del legno, avvolgente, calda… Gli occhi gli si fecero pesanti… le palpebre iniziarono a chiudersi come saracinesche. Ma, sul più bello dell’abbandono, proprio dentro all’orecchio, schioccò, all’improvviso… un suono piccolo piccolo ma chiaro e distinto: “CRUNCH”. Sì…. proprio così: “Crunch”! Gli occhi si spalancarono immediatamente. “Crunch?” Una grondata improvvisa di sudore affermò impetuosamente quello che la mente negava con assoluta decisione. CRUNCH CRUNCH CRUNCH. Poi silenzio. Il suo sesto senso gli urlava senza alcun dubbio: “QUI DENTRO C’È UN TARLO”. Carlo restò terrorizzato dall’orrendo sospetto, mordendo il piumone e battendo i denti. Quali ataviche paure può mai scatenare un coleottero nella mente di un uomo adulto e consapevole? Che male può fare una piccola farfalla? Poco o niente, in verità: è solo che un tarlo dentro una casetta di legno situata dentro un villaggetto di casette di legno è come un’ape in un campo di fiori, un bifidus nello yogurt, un virus nella calca della fiera della Befana, l’orso Yoghi nel cestino della merenda. Un altro CRUNCH evocò, nella mente di Carlo, fumetti di Walt Disney e storie di Paperino in cui le termiti divoravano all’istante il letto del povero papero mentre ci dormiva dentro, facendolo finire su un mucchietto di segatura. Il fatto è che in quella casetta di legno c’erano tutti i soldi di Carlo: aveva venduto per comprarla, aveva fatto gli accomodi, curato i particolari, la veranda, i mobili su misura, la stufa di ghisa, perfino la Iacuzzi. “No, non può essere. Le casette di legno vengono trattate, mica sono fatte di truciolato!?! Ci sarà una garanzia, suvvia! Ci sarà, nel peggiore dei casi, un trattamento, una disinfestazione! Sì, sarà così… deve essere così. Ora dormo, domani ci si pensa”.
Si girò dall’altra parte e si addormentò, in un turbinìo di pensieri e di preoccupazioni, la più seccante delle quali confluiva nel sorriso beffardo della sua ex-moglie, Alberta, che aveva cercato di dissuaderlo in tutti i modi da quello che lei definiva un “incauto acquisto”. “Come si sta ad Auschwitz?” Si informava di tanto in tanto Alberta, per telefono, così, giusto per sfottere un po’. “Vi fanno fare l’alzabandiera, la mattina, al villaggio? Ehehehe .. C’è pure il capocampo della Protezione Civile che suona la tromba?” Oppure, cavalcando la vena telefilmica: “Chi di voi ha vinto la candidatura per girare La Casetta nella Prateria?” Altre volte andava sul genere western, tipo: “Quando apre il saloon?” Ma il sugo della storia era sempre questo: “Come fai a vivere lì, tu che hai sempre abitato in Via ed Arco delle Terziarie?”. Alberta non avrebbe mai accettato il compromesso di quelli che si erano adattati nelle periferie. Piuttosto sarebbe morta nella consapevole precarietà di una bidonville ai margini della Zona Rossa, pur di non vivere nell’illusoria stabilità campestre del villaggetto degli Hobbit, sedia a dondolo e pipa in bocca. Nella mente di Carlo, in quella notte piena di paure, la faccia di Alberta si confondeva in modo inquietante con quella del tarlo.

Il giorno dopo, intorpidito dal freddo e dalla preoccupazione, il nostro eroe telefonò al precedente proprietario della baita e gli spiegò la questione. Naturalmente quello cadde dalle nuvole. Scava e scava, di passaggio in passaggio, si risalì al fatto che il villaggetto era nato come struttura provvisoria, che le casette non erano state costruite per durare, che il legno non era trattato, che i costi iniziali erano stati bassi ma che poi, perduta velocemente la memoria di tutto ciò, dai primi acquirenti ai secondi ai terzi le casette erano finite a prezzi di mercato, come le vere case di legno. Come si suol dire… “quella, la carota…”. Com’è che il tarlo non stava nelle casette nate a sfizio per farci il barbecue a fianco dei villoni? Com’è che il tarlo non stava nelle dependance abusive nate per farci le festicciole? Colpa della carota! Parecchi aquilani rimasti in mezzo a una strada avevano investito su quelle sistemazioni “autonome” come fossero definitive, per morirci dentro: i loro figli, chissà quando, avrebbero potuto recuperare la muratura, i loro figli avrebbero dovuto ripescare il bandolo della matassa tessuto dai nonni e dai bisnonni, superando una (forse due) generazioni di arraffa-arraffa. Carlo, gli altri come Carlo, potevano solo resistere, tenere accesa la fiaccola, non mollare il fazzoletto di terra sotto ai piedi. La saggezza popolare di costoro non ripose mai alcuna fiducia nei potenti, belli che sistemati al calduccio di case vere.

E così, abbandonato da Dio e dagli uomini, Carlo, dopo un paio di giornate infernali in cui meditò di mollare tutto e mettersi a fare il cacciatore di cinghiali, si piegò infine docilmente a fare l’unica cosa ragionevole: digitare su Google la parola “TARLO”. Due giorni dopo, preventivo alla mano non proprio leggero, si presentò alla baita una squadretta di ghostbuster in tuta bianca, mascherina e attrezzi del mestiere. Invitarono il povero Carlo a farsi da parte e gli dissero di tornare a tarda sera.

I vicini iniziarono a canzonare: “Oh, Carlo, ma ti sei comprata la baita con l’ospite? Ehehehe…. Gli fai pagare l’ICI??? Ahahaha”. A vederlo darsi da fare, così affannato e preoccupato, tutti si affacciavano sull’uscio e lo chiamavano: “Ehi, Tarlo! Ops… Carlo! Ahahaha”.

Ridete, ridete” diceva lui ai vicini strafottenti “secondo me io faccio in tempo a  immunizzarmi, ma voi?? Secondo me… no! ahahahah!”.

Dopo le prime risate, anche i vicini vissero progressivamente le stesse fasi del tarlo di Carlo. Perché quelli, i tarli, si sa… volano! Dopo la negazione ci fu il dubbio e poi la certezza. Poggiarono l’orecchio sulla parete e …..“CRUNCH!”. Anche per loro. La psicosi del tarlo si diffuse a macchia d’olio, nessuno più riusciva a dormire. CRUNCH CRUNCH CRUNCH CRUNCH! Sembrava una maledizione, danni e beffe a ripetizione! E prima il terremoto e poi le C.A.S.E. e poi la crisi e poi le liti tra ingegneri e Comune, tra Comuni e Commissari, tra ingegneri e condomini, tra ingegneri e amministratori di condominio! E infine lo spread, i tagli, addio ai soldi per la ricostruzione. E pure quando uno, esasperato, si organizzava una bella baita per conto suo e mandava tutto e tutti a farsi fottere e decideva di mettersi a fare il cacciatore di cinghiali… esso fatto… CRUNCH!. La vita superava la fantascienza: Alien.. La guerra dei mondi…. Visitors… un incubo. Carlo sognava quel tarlo appoggiato sulla bocca, grande come la farfalla del Dottor Lecter. Gli abitanti del villaggetto, alla fine, si erano coalizzati in questa nuova guerra da combattere, dopo le mille altre battaglie perse dopo il terremoto. “A testa alta, quatrà, e acqua in bocca! ‘stu cazz’ ‘e terramotu! Di gente che rrìe ne sémo sintita pure troppa, mo’ ci manchéa pure ju tarlu…. Stétese zitti… e jemm’ ‘nnanzi!”. Si parlava dei tarli solo con chi ce li aveva: “meglio invidiati che compianti”, dice il proverbio.

Gli abitanti del villaggetto misero in atto tutte le strategie per annientare il divoratore di casette. Il primo tentativo andò male. CRUNCH CRUNCH CRUNCH. Il tarlo era al suo posto, alla faccia dei gosthbuster. Secondo tentativo suggerito da Google: smontaggio e spennellata. Carlo si trasferì per due giorni da Alberta, mentre una nuova squadra di gosthbuster dava la caccia alle farfalle e soprattutto alle loro uova. Inutile anche questo. Terzo tentativo: il microonde. Stavolta le avrebbero cotte senza scampo. Prezzi scontati (si fa per dire) da parte della ditta, dato il numero consistente di casette da disinfestare.

Quasi mezzanotte, ormai, qualche giorno dopo. Il vicino di baita era uscito a fumare e a salutare Carlo con due bicchieri in mano, nonostante il freddo pungente e il discorso di Napolitano in televisione. “Allora, Carlo… che ne dici? Pensi che ne usciremo?”. Carlo mugugnò: “Mmmhh…Dunque… le uova si schiudono ogni 6.5 settimane, il che fa almeno 8 deposizioni, e il numero delle femmine aumenta del numero di Eulero elevato al numero delle settimane, meno 0.393111, che è il coefficiente basato sul tasso di natalità del tarlo: perciò a tutt’oggi ci sono e^8-0.393111, vale a dire: 2012 femmine pronte a deporre circa 50 uova a testa: sì, duemiladodici!” …. Manco a farlo a posta! “PUM!!! PUM!!!! PUUUMM!!!! BUON DUEMILADODICI A TUTTIIIIIIII!!!!” fu il coro di voci festanti da tutte le casette. Il vicino di baita gli porse il bicchiere: “Buon anno, Cà” . Carlo e il tarlo erano tutt’uno, ormai: gli era entrato nella testa. “Salute, auguri!” ….“Cin-cin!”… “Prosit!!!”.

Da lontano, altrettanto festoso, un sommesso e impercettibile…. “CRUNCH”.