DE INCURSIONE CIVICA

Il racconto è la storia di una violazione di transenne. Ecco perché la premessa.
 
 

ATTENZIONE: QUANTO QUI NARRATO E’ DA CONSIDERARSI RACCONTO DI FANTASIA. ENTRARE IN ZONA ROSSA E’ INFATTI UN REATO PERSEGUIBILE.

 

“Non ho mai infranto deliberatamente la legge in vita mia.

Le leggi tutelano i cives, le leggi sono espressione di democrazia. Le leggi sbagliate devono essere cambiate dai cittadini che in esse non si riconoscono, con gli stessi strumenti che quelle leggi hanno emanato. La testa mi ripete tutto questo, ma stavolta non ce la faccio. Annalisa mi dice: “Andiamo”, e qualcosa nei piedi non riesce a fermarsi, qualcosa nei piedi mi porta senza che la testa riesca a fermarli. Quel qualcosa nei piedi mi porta e non riesco a dire di no, come ho fatto finora. Le leggi tutelano l’incolumità dei cittadini, ma io ora non voglio essere tutelata, la mia salute ha ora un’altra priorità, e la priorità ora è VEDERLA. E’ passato troppo tempo, lei mi manca. Voglio passare dove prima passavo, voglio camminare lì in mezzo, mi manca, mi manca come l’aria buona, mi manca come un pomeriggio di shopping tra i vicoli antichi, mi manca come la biblioteca, mi manca come la sala Patini, mi manca come il pane uscito dal forno, mi manca come una vita precedente. Mi manca. E i piedi vanno, come portati dai pedali di un bicicletta in discesa. Gli occhi vogliono vedere, le mani vogliono toccare. I miei concittadini lo fanno da sempre, voglio farlo pure io. E’ il mio turno, e mi va di raccontare com’è. La pioggia torrenziale di questi giorni avrà fatto altri danni, starò attenta ai balconi e ai cornicioni, non posso farci niente, e più cammino più aumento il passo, il cuore è già dentro. La transenna lascia un varco giusto per infilarsi, chissà in quanti l’hanno varcata prima di me e quanti lo faranno dopo. Basta, è fatta, sto dentro.
Vengo ingoiata dal buio, uso la luce del telefono. Lei è morta, sventrata, puntellata come il cadavere del capo di una tribù italica in battaglia, sostenuto sotto le ascelle per incutere coraggio all’esercito, timore al nemico. E’ incazzata. E’ nera di rabbia, o così io la “sento”. Le strade sono pulite, le macerie sono ammucchiate ordinatamente in piccoli punti di raccolta. Sarà piena di veleno per i topi, immagino, oltre che di ethernit volante. Esploriamo una piccola zona. Sto meglio. Come quando vai al cimitero, è una cosa che non serve a niente ma se ci vai ti senti meglio, ogni tanto devi farlo, per te. Un piccolo giro, sapevo già tutto, ho visto tante foto, ma toccare è altro, non si manda qualcuno al cimitero al posto nostro.
“Ok, il giro è finito, usciamo, dai…”. L’ultimo flash della macchina fotografica… Troppo sparato, si vede lontano un miglio… Ci beccano. “ALTOLÀ!!!!!”. Da lontano, qualcuno grida. Restiamo impietrite. “Porc…Ecco fatto. Ci vanno tutti, ma beccano solo me, porca miseria”. Ci giriamo lentamente, scena vista in tanti polizieschi, tanto ormai qua è tutto un film. Da lontano, una torcia puntata sulla faccia. “Fermatevi!” tono secco e deciso, ma non da far paura. Pensiamo: “E chi si muove?”. Si avvicinano. “E’ fatta, una denuncia, che vergogna, è la mia fine. Ma venderò cara la pelle, farò una crociata che se la ricordano a vita, mi incateno ai cancelli del Tribunale (ma dov’è il Tribunale?) mi incateno al Comune (ma dov’è il Comune?) mi incateno all’Aquilone.. (azz… all’Aquilone???), insomma da qualche parte mi incateno e mi lascio morire di fame…”. Tutto questo mi vortica nella testa mentre loro si avvicinano. Li vedo: due ragazzini in mimetica, avranno vent’anni, mi sento ridicola, giocare a guardia e ladri, una signora attempata che infrange la legge, ma non ho la minima paura, sento la città pronta a sostenermi, le carriole mi difenderanno a spada tratta, Santa Carriola del Presidio proteggimi, dirò 3.32 preghierine…. I due ragazzi mi fanno tenerezza, chiedono scusa, bene educati, quasi mortificati per quello che sta succedendo. “Perché non vi siete fermate prima, al posto di blocco?” “Ma quale posto di blocco?” “Ah, allora non eravate voi” dice uno, rivolto più al collega che a noi, un po’ preoccupato. Mi viene in mente un flash di fuggi-fuggi di aquilani che girano come topi, infilandosi nei vicoli a destra e sinistra e ‘sti poveri ragazzi che li inseguono, investiti del doloroso ufficio della pubblica incolumità.
“Documenti”
“Non li portiamo dietro, stanno in macchina”
“Andiamo in macchina allora. Non lo sapete che è pericoloso stare qui?”
“Sì”
“Non lo sapete che ieri è crollato un balcone?”
“Sì”
“Non lo sapete che ci mettete nei guai?”
“Sì”
“Non lo sapete che dobbiamo proteggere dai saccheggiatori?”
“Sì”
“Siete dell’Aquila?”
“Sì. E dobbiamo rivederla, ogni tanto”
“Lo capiamo, ma non si può”
“Ma si deve”
“Se non siete dell’Aquila sono guai per voi”. Il ragazzo verifica la residenza.
“Bene… Siete fortunate perché siete dell’Aquila!”
“Eh… Che culo?”
Ridiamo.
Ci lasciano andare dopo un cicchetto.
Dentro, il cuore che dice: “A domà”.

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Tom Petty – Maty Jane last dance

IL DIALOGO DEGLI ADOLESCENTI CON LE ISTITUZIONI


Riporto qui il mio contributo al Convegno
“Rischio e resilienza negli adolescenti esposti ad eventi traumatici – 10/11 Ottobre 2011”
(Pubbl. su “Quaderni dell’Osservatorio sulla devianza minorile in Europa”
– Centro europeo di studi di Nisida) http://cdn.ais-sociologia.it/uploads/2011/09/seminario_AQ3.pdf

La fase dell’emergenza è finita: dopo due anni e mezzo si parla di resilienza, di ritorno alla normalità. In qualità di insegnante ho preso più volte pubblicamente una posizione precisa in merito alle necessità degli adolescenti aquilani, ma alcune mie previsioni sono state smentite dai fatti. Dissi, nell’estate 2010, che i ragazzi si sarebbero adattati nelle periferie, si sarebbero abbrancati in modo scomposto e avrebbero popolato nuove zone, creato nuovi equilibri, si sarebbero inventati nuovi divertimenti. Ma così non è stato: la città dei ragazzi è sempre una città parallela rispetto a quella degli adulti, ed essa ruota come un satellite intorno ad alcune stelle fisse che hanno caratteristiche sempre più globali. La generazione del “be hungry, be foolish” ruota intorno a ciò che più di tutto porta una boccata di ossigeno e di apertura mentale alla città intera: la vita degli studenti universitari. E gli studenti universitari hanno deciso che nessuna periferia vale un centro storico, se pure disastrato, se pure a cumuli di macerie, se pure chiuso quasi per intero. Sulla scia di queste abitudini universitarie, anche gli adolescenti si incontrano nei pochi nuovi/vecchi locali del centro, neanche a loro importa la scenografia post-atomica: prendono il loro drink, lo consumano nella zona antistante il locale stesso, una piazzetta, una strada, e lì parlano, ascoltano musica, fanno quello che fanno i giovani, finché alcuni escono dalle righe, bevono troppo, fanno danni, lanciano bottiglie contro i muri, smaltiscono i postumi fisiologici del troppo bere nel primo angolo o portone che capita, suscitando il giusto risentimento dei pochi che in quella zona sono riusciti a rientrare e vi abitano. Il fatto ha acceso un pesante dibattito cittadino, e la soluzione trovata è quella di non consentire l’ulteriore apertura di locali in centro storico. A questo punto c’è da chiedersi: ci interessa davvero la capacità di resilienza dei nostri ragazzi? I nostri ragazzi sono “normali”, sani e pieni di vita, pure in una condizione depressa come la nostra, pure con genitori schiantati e famiglie a pezzi. Ma siamo proprio sicuri che ci interessi quello di cui realmente hanno bisogno? Da profana, da semplice insegnante a cui sfuggono i meccanismi scientifici del processo di resilienza, mi chiedo: questa dei ragazzi va considerata come capacità di reazione? E’ un’energia che va assecondata, o è un fiume a cui vanno creati degli argini? E in questo caso: come fare per incanalare quest’acqua scomposta, come fare per non creare, al posto degli argini, dighe che generino ristagni paludosi? E’ possibile una resilienza dei ragazzi che sia imposta dagli adulti per modalità e direzioni? Chiudere una strada senza indicare un’alternativa alla strada chiusa, che cosa genera in una mente in età evolutiva? Daniel Pennac diceva che solo due verbi non possiedono l’imperativo: il verbo AMARE e il verbo LEGGERE. Non si può ordinare a nessuno né di amarci, né di leggere un libro. Io aggiungerei anche il verbo “resilire”. Non possiamo imporre il nostro modo di reagire, non possiamo negare il loro, senza quantomeno ascoltare, senza offrire una alternativa. E mi chiedo: il “No e basta” è uno di quei “no che aiutano a crescere”? E vengo dunque alla mia proposta: noi qui all’Aquila potremmo avere un modo privilegiato ed esclusivo per rafforzare la fiducia che i ragazzi hanno nello Stato e nelle istituzioni. I ragazzi apprendono dal fare oltre che dallo studiare, e fare democrazia vuol dire concedere loro degli spazi in sicurezza, spazi adeguatamente gestiti da facilitatori di iniziative. La scuola fa quanto è possibile, parla di normalità, parla di valori e sentimenti solidi e costruttivi, dirige il vortice emozionale degli adolescenti, canalizzandolo. Ma mi sento di dire che questo non basta: abbiamo una grande occasione qui all’Aquila, dettata proprio dall’emergenza e dal rischio. Non basta riempirci la bocca di celebrazioni per i 150 anni, non può passare il messaggio di uno Stato esattore che delega altri nel momento del bisogno. Senza entrare nel merito delle recenti vicende di cronaca locale legate a questo problema, noi siamo qui, noi siamo lo stato, noi siamo la città, noi facciamo il nostro lavoro, anche noi ugualmente terremotati e proprio perché terremotati. E vengo al punto. Contrariamente a ogni previsione, i ragazzi la città non se la scordano, inutile provarci, non se la scordano e basta: e non se la scordano ancora di più i ragazzi dei paesi e delle periferie, rispetto a  quelli che abitavano in centro storico e che adesso magari hanno trovato nuove esperienze e nuovi vantaggi nella vita in campagna. Io li vedo, parlo, discuto con loro. I ragazzi dei paesi trovavano nella città l’unico trampolino possibile che potesse sollevarli dal campanile. E mentre quelli della zona rossa “si godono” (si fa per dire) ora la campagna e quando si annoiano praticano escursioni settimanali sistematiche a Roma e a Pescara, centri che non solo non negano loro il vantaggio della città, ma addirittura offrono più occasioni di prima, trattandosi di città ben più ricche rispetto a quanto non fosse L’Aquila prima del sisma, i ragazzi dei paesi, quelli che hanno difficoltà ad allontanarsi e a muoversi, non hanno più nulla, e rivogliono l’Aquila, perché una città significa qualità, cultura, scambio di mode e pensieri diversi. Le due realtà, STRAPAESE e STRACITTÀ, devono esistere in assoluto dialogo e scambio reciproco.

Vorrei chiudere con la parole del Presidente Napolitano, pronunciate pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno scolastico al Quirinale: il suo discorso sembra calzare in modo impressionante a noi aquilani: “Penso che nelle vostre case (per noi, leggi: C.A.S.E., con i puntini) il peso delle difficoltà si sia fatto sentire. Voglio esprimere l’augurio che il nostro incontro l’anno prossimo si svolga in condizioni migliori di quelle in cui ci troviamo oggi, ma perché questo accada bisogna essere in tanti a fare ciascuno la sua parte.” E poi, rivolgendosi ai ragazzi, Napolitano dice: “E voi, RICHIAMATE TUTTI NOI AL DOVERE DI DARVI LA SPERANZA”. Parole straordinarie, parole di fuoco: prima un appello agli adulti, a chi ha potere, ma poi un appello anche ai ragazzi, perché si sentano ascoltati dalle istituzioni e proprio per questo riescano a farsi attori, protagonisti, portatori di istanze concrete, senza arrivare né a pretese arroganti, né a rinunce frustranti. Ma tutto questo può avvenire solo se essi verranno realmente ascoltati, attraverso un dialogo istituzionale autentico e costruttivo.

Foto di DENIS SUVOROV

 

 

PIU’ FORTI DEL TERREMOTO

Questo articolo è stato pubblicato
dal giornale nazionale della Gilda degli insegnanti
nell’Aprile del 2011.
Racconta il modo in cui gli insegnanti aquilani hanno vissuto l’immediato dopo-sisma.

Aprile, il più crudele dei mesi, all’Aquila è più crudele che altrove.
Due anni dopo il sisma del 6 aprile 2009, abbiamo forse la lucidità per raccontare le cose con una certa distanza, senza retorica da adrenalina e senza il dolore della ferita che sanguina. E raccontare ciò che è stato ci riempie di orgoglio: la scuola aquilana si è fatta pilastro, colonna, protezione civile.
Ha militato nelle tende, nelle scuole della costa, ha ricreato comunità, ha concluso l’anno scolastico regolarmente, col dolore della morte di alunni e colleghi scritto sulla faccia, in un grande esempio di civiltà e di capacità di reazione.
L’umile lavoro dei docenti è diventato “servizio” in senso ben diverso dal solito, senza gli onori della cronaca riservati ad altre categorie e senza la possibilità di smentire l’immagine di un’Aquila “meridionale e piagnona” che pretendeva assistenza negli alberghi. Gli insegnanti aquilani hanno riaggregato i ragazzi dovunque si trovassero, dando fondo a tutta la loro forza d’animo. Splendida, sì, l’organizzazione dei C.O.M. (Centri Operativi Misti) e dell’Ufficio Scolastico, bisogna dirlo, ma chi ha militato in prima linea senza casa, senza vestiti né libri, senza città, nella mortificazione di una città che non era la propria città, di una scuola che non era la propria scuola, sono stati gli insegnanti.
Gli sfollati aquilani hanno inserito i propri ragazzi nelle scuole ospitanti, per lo più città della costa abruzzese. Si girava, in quel periodo, a cercarsi l’un l’altro, si vagava nelle classi a cercare le nostre facce spaurite. Spesso i Dirigenti locali hanno ricreato piccole classi di alunni aquilani, dove docenti aquilani tenevano insieme i pezzi di una comunità in diaspora. Chi ha scelto di non allontanarsi dalla città ha fatto servizio nelle tendopoli: le maestre hanno allestito laboratori semplicemente mettendo in circolo bambini, e con forbici e scatole di cartone, costruendo, disegnando mattoni, muri, case, in una istintiva, commovente compensazione immaginaria della terribile distruzione. I docenti delle scuole medie hanno portato libri, quando li avevano, per far ascoltare, leggere, scrivere, condividere, spolmonandosi, sbracciandosi. I colleghi degli istituti superiori hanno richiamato i ragazzi grandi alle loro responsabilità, tenendoli inchiodati ai loro compiti, dirigendoli verso l’Esame di Stato, verso la vita futura, continuando a parlar loro di tappe, di organizzazione, di vita, per superare il disorientamento e lo sbandamento. La scuola aquilana ha tenuto insieme le famiglie ovunque si trovassero, ha sostenuto grandi e piccoli, ravvivando in loro l’amore per la città ferita, il senso di appartenenza al territorio dei padri, e richiamando in modo energico all’accettazione di quanto accaduto e al suo equilibrato superamento. Anche durante l’anno scolastico successivo al sisma i docenti delle scuole aquilane di ogni ordine e grado hanno attivato fondamentali progetti di sostegno, come solo gli insegnanti sanno fare: con una delicata e incisiva arte maieutica hanno “impegnato” i ragazzi nel quotidiano, insegnando loro che dopo un disastro del genere si reagisce ’ngrufando, come si dice all’Aquila con espressione rugbystica, cioè restando testardamente al proprio posto, al proprio banco, al proprio dovere, nella mischia, ovunque sia la mischia, anche lontano dalla propria città, insegnando ad inserirsi silenziosamente e attivamente, restando legati alla memoria e alla storia.

E’ qui che emerge, in tutto il suo splendore, il valore della scuola pubblica: LA SCUOLA PUBBLICA RESTA. Non scompare con disinvoltura per seguire il flusso del denaro e ricomparire due anni dopo, “a cose fatte”, a comunità ricreata, a vita più o meno apparentemente ricominciata. La scuola pubblica assiste ai disastri, similmente alla protezione civile, ci mette del suo, in termini di energie, di responsabilità, di amore per il proprio lavoro, di buona volontà.
Gli insegnanti aquilani, così poco celebrati, per nulla saliti agli onori della cronaca, come invece è toccato ai politici, agli imprenditori, ai giornalisti, perfino ai parroci, hanno militato in silenzio ed umiltà, come hanno fatto anche i medici, gli infermieri, i Vigili del Fuoco.
Categorie “socialmente utili” di cui nessuno si ricorda, se non con un “bravo” subito dimenticato, magari sotteso a un risolino di compatimento: ciò che fanno è considerato dovuto, sono “pagati per questo”. Ciò che gli insegnanti aquilani hanno speso in termini di energia emotiva, di passione, di forza d’animo, è stato fondamentale per la città ferita.
Davanti alle disgrazie gli insegnanti ci sono sempre, lo considerano un dovere morale senza aver fatto giuramenti, senza alcuna iscrizione ad Albi professionali, senza alcun codice deontologico se non quello che sanno darsi da soli, vivendo nelle scuole, che non sono e non saranno mai “aziende”, ma fucine di formazione dove si scambiano pensieri, emozioni ed esperienze, magari ci si confronta con valori diversi, nell’obiettivo di formare adulti consapevoli, che effettueranno scelte consapevoli. Quale prezzo hanno queste doti, messe in campo anche quando si è colpiti in prima persona? La scuola pubblica non si imbosca, lega il passato al futuro, lavora sul territorio e sulla memoria storica, educa al rispetto dei padri e dei padri altrui, coltiva valori collettivi che una società civile dovrebbe imporsi di preservare. Essa ripudia il motto “me ne frego”, e sposa quello di Don Milani, “mi preoccupo”. Le scuole pubbliche italiane si parlano e si confortano: all’Aquila è stata una pioggia di gemellaggi, di raccolte di fondi realizzate da altre scuole di tutta Italia, da Siracusa a Legnano. In una gara di solidarietà, la scuola aquilana ha avuto il conforto di tanti colleghi lontani, di tanti studenti che hanno mandato anche i loro pensieri, i loro scritti, utili a chi li ha spediti tanto quanto a chi li ha ricevuti. Il messaggio sottile è che lo Stato deve esserci, che nello Stato in cui si sceglie di crescere e di convivere bisogna identificarsi, superando settarie divisioni geografiche, etniche e timocratiche.
E’ così che i ragazzi apprendono cosa sia il valore più importante per l’umanità: la solidarietà senza limiti di razza, censo e religione. “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. Valori trasversali, valori che nel in un periodo così pericolosamente pervaso da fanatismi settari si ha il dovere di preservare e tramandare. Valori che non producono guadagno, non sono facili da digerire e sono impopolari. Come il Latino.

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I DUE LATI DELLA STESSA STRADA

Quando Pasquale mi ha chiesto di scrivere qualcosa per l’anniversario del 6 aprile ho pensato subito che non l’avrei fatto. Per me, come per tanti aquilani, ogni giorno è il 6 aprile. E finché non riavrò la mia casa e la mia città, sarà sempre il 6 aprile, non un giorno diverso da quello. Poi ho riflettuto, e ho pensato che il mio modo di vivere il ricordo della città perduta è descriverla, come fanno tanti altri miei concittadini, che parlano, raccontano, come fosse un bisogno irrefrenabile, o l’unica via di uscita da quella che da subito abbiamo capito essere una profondissima palude. E’ tuttora il nostro modo di vivere: scrivere e ricordare.

Ma il 6 aprile io starò zitta, e molti altri aquilani lo faranno.

Scrivo oggi, 3 aprile, perché da domani io starò a casa, accenderò una candela e la metterò fuori dalla finestra, come ho fatto l’anno scorso. Con una candela cambierò il mio avatar su Facebook, come tutti quelli che accenderanno una piccola luce per i 309 morti di quel giorno e per tutti quelli che, dopo quel giorno, per due anni, hanno continuato a morire di dolore, per quelli che dopo quel giorno si sono ammalati, per quelli che ora hanno bisogno di psicofarmaci, che hanno attacchi di panico, che non rivedranno mai più la città.

Il terremoto dell’Aquila è stato la prosecuzione di un destino antico: ha colpito a chiazze, a famiglie. Chi sì, chi no. Chi duramente, chi affatto, anche se comunque ha tolto a tutti la città antica. Nel centro storico, in mezzo alle macerie, alcune case sono rimaste in piedi. Alcune zone di periferie hanno edifici intatti, di fronte ad altri distrutti. Molto spesso è successo che su una stessa strada, il lato destro è stato colpito, il lato sinistro è rimasto illeso. Questa “ingiustizia” fatale, questa cecità chirurgica, quest’agopuntura del destino, sono stati una rovina, perché ci hanno diviso e ci hanno resi deboli. Il sisma ha catalizzato dei processi nefasti. Ci troviamo ora nell’orrida condizione per cui pagherà il prezzo più caro, in vite umane e in denaro, proprio chi è stato più colpito. In queste situazioni viene fuori il peggio, e non perché siamo aquilani meridionali, piagnoni e corrotti, ma perché è scritto nella natura di una società globale che vive una battuta d’arresto, è basata sulla concorrenza, è immatura, incolta: una società che non si è nutrita di libri che coltivassero il valore della pietas, piuttosto ha preferito ad essi i manuali e i vademecum su come si diventa ricchi e famosi. Musil diceva che la Storia procede come una palla da biliardo sul tappeto verde, non c’è una logica, non c’è un avanti o un indietro, c’è solo un gioco di spinte. Ebbene, la spinta prevalente è oggi il denaro. Tutti hanno cercato di lucrare sul povero destino di chi all’Aquila ha perso tutto ciò che aveva. Nemici interni, nemici esterni, spesso nemici antichi, che hanno riso e continuano a ridere. Mai intercettati, volteggiano sulla preda. Come se non bastasse, il terremoto dell’Aquila è divenuto un campo da gioco di contrapposizione politica, una palestra per fare prove di forza e braccio di ferro tra poli opposti, un tavolo per giocare a Risiko. Militanti della politica, vecchie volpi pronte a lanciarsi per menare le mani, gente in cerca di una guerra da combattere, nostalgici di crociate, affaristi, investitori, tutti costoro aspettano. Aspettano…. Quale cielo migliore dell’Aquila? Li abbiamo visti volteggiare, immediatamente, sui cieli ancora pieni della polvere dei muri crollati. Pian piano i loro cerchi disegnati nell’aria si son fatti più stretti. Altri predatori, d’altro genere, sono comparsi più tardi, subdoli, uscendo dai loro anfratti, dai nascondigli, dai cespugli, in branco.

Possono attendere tutto il tempo che vogliono, loro. Noi no.

Non siamo stati capaci di difenderci. Ci è stata scippata la nostra buona volontà, la nostra voglia di lavorare. Le abbiamo provate tutte, con i comitati, con la legge di iniziativa popolare, con i cortei, con le mille forme d’arte che gli aquilani hanno nel sangue, teatro, cinema, letteratura, giornalismo. Abbiamo girato l’Italia, abbiamo raccolto il gesto generoso di tanti che ci sono stati vicini, come gli amici di Napoli, città sorella, che ci ha “adottati” e seguiti, dando prova di grande solidarietà umana.

 Ma ai comitati si sono contrapposti altri comitati, a leggi altre leggi, a crociate altre crociate, come i due lati della stessa strada, quello sano contrapposto a quello rotto.

Eccoci, ora siamo stanchi. Davanti all’intera Africa che esplode, davanti all’intero Giappone ingoiato dal mare, che cos’è L’Aquila, che qualcuno si ricordi di lei? Eppure gli amici di Napoli sono qui, vogliono sapere di noi, si preoccupano dei nostri ragazzi, di come vanno a scuola, se sono contenti, se riescono a studiare su buoni libri pieni di pietas. I nostri amici di Napoli si ricordano, vogliono sapere…

Il pessimismo della ragione mi dice che saremo a lungo in queste condizioni, che la popolazione si dimezzerà, che in tanti se ne andranno scrollandosi la polvere dai sandali. L’ottimismo della volontà mi dice che ci sono persone oneste che fanno il tifo per noi, che ci seguono da lontano con partecipazione e affetto, persone che – impotenti quanto noi – hanno comunque fiducia nel progresso della società civile: quella palla bianca sul tappeto verde prima o poi deve andare in buca, e l’ottimismo della volontà grida che la Storia subisce battute d’arresto, sempre paga tributi terribili di vite umane e di generazioni intere, ma alla fine garantisce un gradino superiore a quello del secolo precedente. E’ toccato a noi, la nostra generazione paga per le prossime quindici: la Storia insegna che in tanti resteranno all’Aquila, tosti e coriacei come giocatori di rugby, a ingoiare la polvere, a dare spallate, a giocarsi la vita qui, perché non c’è nessun altro posto dove potrebbero o vorrebbero essere.

Il 6 aprile, secondo me, questi staranno in silenzio.

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Tom Waits – Wrong side of the road