LA PUGLIETTA – IL SEQUEL

A sei anni dall’uscita della prima “Puglietta”, il sequel.

“La Puglietta”, per chi non lo sapesse,  è quella parte della nostra Piazza dove al mattino batte il sole.

A una cert’ora, infatti, Piazza Duomo si fa di due colori: scura la metà che sta dal lato della Villa, chiara e assolata quella che dà sul lato opposto. Ecco, quella lì, proprio quella a solatìo, è la Puglietta. E’ quella parte calda della piazza che i nostri vecchi chiamavano “Puglietta” ironizzando sulla transumanza, e sul nostro passato pastorale.

Un bel calduccio c’era alla Puglietta, come quello che cercavano i pastori che accompagnavano le greggi al Tavoliere, scappando dal freddo dell’inverno montanaro.

Mentre la piazza, al centro, era il regno delle donne e del mercato, la Puglietta era il regno degli uomini, l’androceo dei vecchi, un piccolo senato. Le femmine si davano da fare a commerciare, a contrattare, a sistemare le granaglie al centro della piazza; e i maschi che le avevano portate lì dalla campagna, quando il sole usciva, andavano a stagliarsi contro il muro.

Quel muro piano piano iniziava a riscaldarsi, e loro gli stavano da presso, contenti dell’appoggio, in fila: sembravano piccioni lungo una grondaia. Ciarlavano e guardavano i passanti. La Puglietta diventò pian piano il circoletto spensierato di anziani e pensionati di ogni tipo.

La piazza è bella adesso, nuova, radiosa. Non ti ricordi più della Puglietta, né del passato antico pastorale. La rivuoi viva, quella piazza, allegra, moderna, vissuta finalmente dalla gente.

Ma quando arrivi, ogni tanto, tu guarda la Puglietta. Ricordati dei vecchi. Hanno pagato un prezzo caro, loro, una seconda guerra. Ogni tanto ricordati di quelli che, appena giunti al mare, piano piano, mese a mese, sono volati via, chiedendo scusa del disturbo dato ai figli. Nemmeno la consolazione di vedersi scritto sopra “6 aprile”. Ma fu quello il giorno, lo sappiamo.

Chi aveva i mezzi, o gli strumenti per sopravvivere al disastro, adesso è un reduce, sopravvissuto ad una guerra, come se non bastasse quella vera, combattuta da bambini.

Mia madre è intrappolata dentro l’incubo che è stato. A una cert’ora, tutti i pomeriggi, quando la luce piano piano si trasforma, lei con la testa rivive tutto da principio: prima la tenda, poi la finanza, poi la casa provvisoria, e poi la casa nuova, che non riconosce.

Poi, verso sera, entra in un altro sogno. Vuole con sé la borsa, l’ombrello, il cappotto e il cappello. E sta seduta, in ansia, come se aspettasse il treno. Da cinque anni in qua, tutte le sere, fino al giorno dopo. Una tortura.

E’ Dino a portare questo peso grande. Io vado, sto un po’ con lei, l’abbraccio, scavalcando quella borsa stretta sulle gambe. Mi faccio largo sotto a quel cappello, la bacio, cerco di raggiungerla. Le dico piano piano: “sì, madre, aspetta, aspetta… non andare”.

AMICHE GENIALI

Le mie amiche conoscono il valore del denaro e della fatica che si fa per guadagnarselo, perciò comprano vestiti solo se serve, e quando serve.

Mi raccontano ora dei saldi di fine stagione nei negozi griffati, normalmente inavvicinabili. Lo chiamano momento di sciapo, bella definizione per viversi questo strano rito collettivo in maniera consapevole. Ma non trovano quasi mai quello che si aspettavano, quindi alla fine comprano poco o niente in queste svendite.

Le esperienze dei saldi di fine stagione possono ridursi, effettivamente, a due tipologie: autolesionistiche e con gratificazione a soglia.

Nelle autolesionistiche tutto ti sta male: vai in cabina, ti provi l’abito, e quasi sempre avanzano cinque centimetri sia alle mani che ai piedi.  Le commesse ti intimano di uscire dalla cabina, e tu da dentro, con la voce di Clint Eastwood rispondi: vieni a prendermi!

La questione del fuori misura è seria. Questi grandi stilisti fanno i vestiti per gli alieni. Ma gli alieni non quelli buoni, tipo E.T., no, gli alieni quelli altissimi, bianchissimi e magrissimi, senza capelli e con due buchi neri inclinati al posto degli occhi. Per indossare una giacca non ci vogliono le spalle, devi essere una stampella. I pantaloni sono concepiti in modo da reggersi sulle ossa dei fianchi, che tu non hai visto sporgere neanche dopo che hai fatto l’operazione alle tonsille. Dovremmo pensare, dunque, che le persone che comprano le firme siano tutte altissime, bianchissime e magrissime, ma di fatto poi non è così, è un trucco: quando aprono bocca li senti dire: “Teleeeefono… caaaasa”. Ma il vestito copre la realtà.

C’è una buona consolazione a tutto questo: gli alieni devono pur spogliarsi, prima o poi. E non dev’essere bello vivere col terrore di doverlo fare.

Veniamo alle gratificazioni a soglia: significa che l’abito ti sta benissimo finché non varchi la soglia della boutique. Subito dopo ti sta da schifo. Si evince, da tutti i racconti delle mie amiche, che lo shopping seasonal sales è come l’amore: cieco. Saranno le luci, sarà lo scintillio dell’arredo, sarà l’effetto Pretty Woman, fatto sta che ti guardi in negozio, e ti sta bene tutto. Sei pure alta e bionda. Poi però esci.

Evviva la mia amica geniale, che se ne infischia delle mode, e compra gli abiti solo quando le servono! Una volta, per esempio, aveva un bell’abito da cerimonia, di buona fattura, costoso e di alta qualità. E – come dice la parola – lo usava per le occasioni speciali. Alla fine di una cerimonia in cui lo aveva indossato con garbo ed eleganza, un’altra amica, però un’amica perfida (insieme alle amiche geniali ci sono sempre anche quelle perfide) andò di proposito a salutarla:

– Ciaaaao caaaara…. Come staaaaai….

– Ah, ciao! quanto tempo che non ci vediamo…

– Sì, non ci vediamo dal matrimonio di Giorgio, tre anni fa!

La perfida pronuncia la frase in maniera infingarda,  lanciando uno sguardo da capo a piedi al vestito di lei, che è lo stesso della cerimonia di tre anni prima.

Senza scomporsi, la mia amica geniale le fa: “Io posso sempre comprarmi un vestito nuovo. Ma tu una testa nuova dove te la vai a comprare?

E dove se la va a comprare? Certi articoli che costano davvero tanto, in termini di fatica. E non vanno neanche in saldo…

 

 

QUANDO VOLAVANO I PIATTI

Sulla fiera della Befana è stato già scritto tutto. Perciò condividerò con voi qualcosa di molto personale. Lo ammetto senza remore: io subisco il potere fascinatorio degli imbonitori che vendono i piatti.

I primi che io ricordi si mettevano a piedi piazza, davanti al palazzo delle Poste e Telegrafi, dove lavorava mio padre. Quella strabiliante abilità nel lanciare i piatti davanti ai compratori, in realtà, è venuta meno nel tempo, e oggi non è bello com’era in antico, quando i piatti volavano, ammonticchiandosi uno sull’altro, in ordine sfalsato, fino a formare una torre tremolante di un servizio da dodici tutto colorato. Capitava che ogni tanto si rompesse qualche pezzo, ma l’imbonitore, senza scomporsi, cambiava servizio e ricominciava l’asta: “E vi ci metto sopra la zuppiera! e vi ci metto pure le tazzine!… E mi voglio rovinare… vi ci aggiungo pure il piatto da portata!… Aggiudicato a quel signore!”.

Di quel servizio, nel corso dell’anno, si rompeva sempre qualche pezzo, e spesso a San Silvestro gli si faceva fare un altro tipo di volo: fuori dalla finestra, per ricomprarne uno nuovo dopo cinque giorni, alla fiera della befana. La mattina di Capodanno vedevi allora sulla strada cocci su cocci, una barbarie che aveva il valore simbolico di fare spazio alla roba nuova, buttando via quella rimasta spaiata.

Oggi puoi ancora trovare gli imbonitori dei piatti nelle fiere, o nelle televendite sulle reti commerciali dedicate, ma non troverai mai più lo spettacolo dei piatti che volano. Nelle televendite, più che i piatti, trovi stracci magici, sbucciapatate, affettatrici, spremiagrumi: tutti attrezzi che nelle mani degli imbonitori appaiono miracolosi tanto quanto nelle vostre saranno aggeggi infernali. Ma il potere ipnotico dell’imbonitore è ancora integro, con i piatti e senza piatti: statistiche alla mano, sembra che chi soffre di insonnia trascorra una buona parte della notte a guardare le televendite, e quello che prima era un rito collettivo, festoso e apotropaico, è diventato un piacere onanistico, notturno e solitario.

A questo punto vi starete chiedendo che c’è di personale in tutto questo.

Ebbene, c’è che ogni giorno, quando io svuoto la lavastoviglie, tiro fuori i piatti e li sbatto ad uno ad uno sul piano della cucina, facendo lo stesso identico rumore che facevano gli imbonitori. E quel rumore mi piace, mi dà una gioia intima e profonda. Sarà l’acciottolìo di cui parla Gozzano nella Signorina Felicita, quando Maddalena tira via le stoviglie? O non sarà piuttosto la sensazione provata davanti allo spettacolo dell’imbonitore della bancarella dei piatti sotto al Palazzo delle Poste e Telegrafi? Non so rispondere a questa domanda, ma quello che so è che svuotare la lavastoviglie, uno dei lavori domestici più noiosi, finisce per farmi sorridere, mi dà allegria, e il suono dei piatti che sbattono uno sull’altro mi coccola e mi accompagna per il resto della giornata.

Beh, a casa si lamentano parecchio, in verità: “Può essere che devi fare quel casino quando svuoti la lavastoviglie?”.

Eeeeh quante storie! – dico tra me – tappatevi le orecchie!
E continuo a sbattere i piatti, con gusto e precisione.

E se ne rompo qualcuno, pazienza.
I piatti in cui si mangia devono fare il loro ciclo.
E bisogna fare spazio, per far entrare i colori nuovi.

BUON ANNO, ENRICO

Enrico mi scrive a ogni festa comandata.

Non usa WhatsApp, non usa auguri preconfezionati, non usa le gif con le solite idiozie, non mi inoltra auguri impersonali, non mi inserisce in una comoda mailinglist da cui fare “invia a tutti” e togliersi il pensiero. Niente di tutto questo: Enrico usa ancora i messaggini, i vecchi “sms”, ormai in disuso. Mi scrive frasi deliziose, garbate, dal sapore antico. Lo stile della sua scrittura potrebbe definirsi ottocentesco. E ogni volta è una sorpresa: Capodanno, Pasqua, Ferragosto, Natale: gli auguri di Enrico non mancano mai.

Oggi, per esempio, gli auguri più belli sono stati i suoi: “Il 2019 è stato un anno pesante, ma bisogna andare avanti, il 2020 sarà migliore. Tanti cari auguri. Enrico”.
Che c’è di strano? direte voi.

Di strano c’è che io non so assolutamente chi sia Enrico.

Sono anni, ormai: ad ogni festa comandata lui fa capolino, con le sue parole dolci e rassicuranti, capaci di lasciarmi stupefatta. Poi, per qualche giorno, mi assale lo stesso dubbio amletico: che faccio? gli rispondo? gli scrivo: “Signor Enrico, non so chi lei sia, ma sappia che io non la conosco, lei ha sbagliato numero, pertanto le consiglio di guardare bene chi sia la persona a cui lei intende scrivere, perché quella non sono io”. Sì, è questo che dovrei fare.

Ma ogni volta ci ripenso, e lascio stare. Perché Enrico ci tiene tanto a mandare questi auguri. Non si aspetta nessuna risposta, ne è prova il fatto che continua a scrivermi. Forse dovrei telefonargli, forse dovrei spiegargli a voce l’equivoco. Ma ogni volta mi dico che è meglio di no, che se lui continua a scrivere, pur non avendo risposta, forse ha bisogno di sapere che comunque quella persona esiste, e che lo legge, e che è contenta di ricevere i suoi auguri. Enrico, sei uomo d’altri tempi: ti immagino nel tuo salotto demodé, a cercare le parole ad una ad una, con la calma di un vecchio orologio a pendolo… tic-tac-tic-tac…

Ho deciso, non chiamerò neanche stavolta. In fondo, che fastidio mi dà? Nessuno. E se il caso ha voluto che quell’ sms finisse a me, e non a qualcuno che si infastidisse e lo bloccasse dicendo “ma guarda che idiota”, qualcosa vorrà pur dire! Perciò, Enrico, ti aspetto. A Pasqua, e poi a Ferragosto, e poi a Natale, i tuoi auguri saranno più dolci di quegli stupidi “inoltri” così trandy, ma così impersonali…

So bene che cosa state pensando: che quegli auguri non sono per me, e che perciò non dovrebbero darmi alcun piacere. Ma è così dolce il fatto che esista al mondo qualcuno che scrive senza aspettarsi nulla in cambio, allora perché deluderlo? e se poi non trovasse mai più la persona a cui scrive? No. Non sarò certo io a dargli una coltellata, mai!

Certe cose è meglio non toccarle, e lasciarle stare così come sono. Buon anno, Enrico.