IL SABATO POMERIGGIO

Noi aquilani il centro storico ce lo godiamo a turni.
Per selezione spontanea e naturale, lo  popoliamo a giorni, a zone, a fasce, per età, per interessi.
E il sabato pomeriggio è il turno bello, quando ci sono tutti i ragazzini.

Da tanti anni faccio l’insegnante, eppure i ragazzini continuano a darmi l’allegria che non riscontro da nessun’altra parte. Parlo di quelli che prendo al primo anno, i piccoli, quelli che stanno nel periodo strano: voce cangiante, braccia lunghe, postura un po’ dinoccolata e un po’ scomposta. Sono allegri, proprio tanto belli, dei piccoli vulcani attivi.

Se ci cammini in mezzo per la strada, proprio come a scuola, devi stare in guardia. Non sai mai che cosa possa capitare: se ti faranno le boccacce, se vedrai volare qualche carta, un pallone, uno zaino preso per scherzare e poi lanciato in aria, che ti finisce in testa.

I ragazzini sono per i “grandi” una località intermedia, un punto di passaggio. Quasi sempre, guardandoli, vediamo in loro i bambini che non sono più, o i ragazzi che non sono ancora. E cerchiamo di guidarli come le piantine, in questa evoluzione.
Ma il sabato pomeriggio non li puoi raggiungere: il sabato è una boccata d’aria fresca.

Perciò, con tutti i dovuti accorgimenti, al fine settimana io percorro la piazza, i portici e San Bernardino. E il re di questa passeggiata è il mio canuccio anziano: i ragazzini lo chiamano, lo abbracciano, lo accarezzano. Ci sanno fare con i cani, più che coi cristiani. Teo fa tenerezza, con quella faccia bianca. Fa uscire da quei corpi in mutazione l’anima bella che è nascosta al resto.

A  me tutto questo fa allegria. Vederli popolare i portici è una manna, perché loro non sanno quel che c’era prima, per loro è tutto nuovo e bello. Loro abitano case future, come dice il poeta. Non vedono macerie. Non dicono “qua c’era questo, qua c’era quello”, come facciamo noi. Ci sarà tempo, via, per cercare le radici, e gliele insegneremo piano piano. Ma per ora ad insegnarci sono loro: occhi nuovi, parole nuove con cui ribattezzare i posti. Sono specialisti delle parole nuove, loro.

Giorni fa ho interrogato Francesco sui Promessi Sposi. Gli ho detto: “Descrivimi diffusamente Don Abbondio”. Tranquillo e serio, ha esordito in questo modo: “Don Abbondio, secondo me, era un sottone”. Ho riso così tanto, ma così tanto, che alla fine gli ho messo un voto in più.

Meritato. Perché sottone è una parola nuova, che i ragazzini conoscono e capiscono, e io no. Me l’ha spiegata lui, e poi la sera l’ho cercata su Slangopedia. Don Abbondio sottone avrebbe fatto ridere Manzoni, che l’avrebbe interpretato come un modo singolare per far vivere ancora il suo romanzo, per dargli linfa nuova. Ci sarà tempo per spiegare, ma adesso l’etichetta fa allegria.

Il dispiacere puoi trovarlo ovunque: come l’ipocrisia, o la bellezza stupida, la serietà fasulla di chi  non sbaglia mai. Il dispiacere è come la bruttezza, lo trovi ovunque vai.
La gioia, invece, devi andartela a cercare, devi voler scavare.

Spesso risiede nelle cose di passaggio: una città che nuovamente nasce, l’età di un ragazzino che cresce e si colora. Magia di tutto ciò che non è più, e non è ancora.

 

L’AMORE AI TEMPI DEL NASO

“L’amore non è nel cuore, ma è riconoscersi dall’odore”. Dice il poeta.

Quindi, se state camminando e qualcuno vi affianca e vi annusa, non è Jean-Baptiste Grenouille, il protagonista di Profumo di Suskind, che vuole scuoiarvi e fare un profumo con le vostre ghiandole sudoripare: è qualcuno che si è innamorato di voi.

L’innamoramento si verificherebbe, secondo una legge omeopatica, tra due soggetti chimicamente compatibili, e per misurare questa compatibilità ci vuole naso.

Sempre più spesso, quando parliamo d’amore, parliamo di feromoni, di ormoni, di “pelle”. Si usa il termine “annusare”, come fossimo Pallino di Bulgakov, impegnati nel disperato tentativo di recuperare un’animalità perduta.

L’espressione “andare a naso” ha sempre avuto un’accezione negativa, ma in amore si è presa la sua rivincita, in amore il naso non solo ci azzecca, spiega anche scientificamente i motivi dell’attrazione: l’amore, a quanto pare, è chimica.

Dopamina, ossitocina e adrenalina sarebbero alla base della cosiddetta sindrome saffica di cui parlava Catullo: salivazione azzerata, orecchie che ronzano, occhi annebbiati, sudorazione. Non è merito di Lesbia formosa, come pensavamo noi poveri idioti. No, è la chimica, e crea dipendenza. E’ uno stato di grazia che vorremmo durasse per sempre.

Ma in natura nulla dura per sempre, tutto scorre. E allora? Che cosa succede nel tempo, quando gli ormoni fanno pace col cervello? Succede che la sindrome si placa, il naso si abitua, e tu devi decidere che cosa fare. Alla natura, subentra la cultura.

Puoi decidere di seguire il naso finché morte non ti separi (dal naso), e allora sarai un eterno adolescente. Non a caso il termine “adolescente” viene dal latino ad-oleo, che significa “inizio ad avere odore”. Come Jean-Baptiste Grenouille, diventerai un collezionista. Niente da dire, in verità, ma è una scelta poco pratica, perché richiede un sacco di energie e la natura non ce ne regala così tante.

Oppure ti fai due conti, e inizi una valutazione costi-benefici: lo “stress da naso” è nocivo per il sistema cardiovascolare. Conviene iniziare a mangiare un kiwi al giorno, praticare una dieta bilanciata e ostentare un grande apprezzamento per un profumo che in realtà non senti più. In questo caso, alla chimica subentra l’immaginazione.

Oppure, infine, riesci a praticare un sano sentimento di pietas. Sai sorridere dei difetti che sono lì, evidenti, senza negarli, tangibili come l’odore che nel tempo cambia, ma che riconosci sempre: è la tua storia. Le piccole debolezze, le fragilità, diventano affinità elettive.

E questo non è più chimica.
Non è più immaginazione.
Questo è Arte.

IL PACCO

Oggi avrei dovuto scrivere un elzeviro simpatico, ed era praticamente già tutto nella testa, dovevo solo dettarlo. E invece c’è qualcosa di urgente che mi assilla, qualcosa di terribile che noi insegnanti, in gergo, con voluti e sottintesi doppi sensi,  chiamiamo: “il pacco”.

Il pacco di compiti da correggere.

Il pacco è cupo, aggressivo, una fatica disumana, di quelle che rimandi perché è troppa. Il pacco ti devasta. Dopo aver corretto il pacco di Italiano vedi tutte le pronomicelle che ballano: ce, c’è, ce n’è, ce ne, gli, le, glielo, gliel’ho, là, l’ha, la, se, s’è, sé… Vedi ognuno con la i, vedi le h nei posti sbagliati. Ti  vengono i dubbi sulla beneficenza, sulla pasticceria, sulle i che vanno che vengono, sulle ciliegie, sulle lance e sulle fasce. E ti chiedi perché mai nessuno dei ragazzi usi il vocabolario, che è lì, è a loro disposizione. E la risposta è semplice: perché per aprire il vocabolario di Italiano devi avere un dubbio. E il dubbio non c’è.

Ecco allora che, dopo aver corretto il pacco, hai bisogno di una camera di decompressione, tipo ritirarti in una comunità di recupero a leggere Dostoevskij e a coltivare bonsai.

Eppure nel pacco ci sono anche delle belle sorprese: idee nuove, spunti originali! Però stanno tutte nella brutta copia, sotto le cancellature. Sotto quei ghirigori neri e nervosi intravedi bellissimo il pensiero che si affaccia… Ma poi si ferma, si blocca, e si ritira rassegnato. E la bella copia, in due scarne colonnine, porgerà l’articolazione di un pensiero elementare, perché ciò che i ragazzi non riescono a dire viene prontamente eliminato, insieme al pensiero complesso.

Tanti alunni mi dicono: Pressoré, eddai, io a Italiano sono sempre andato male!

Lo dicono con una punta di orgoglio, perfino! “A Italiano”: cioè quella roba lì piena di sentimentalismo, fiorellini, arcobaleni e paesaggi. Anche nell’immaginario collettivo degli adulti la meravigliosa vita dei laureati in Lettere si colloca  ai piedi dell’ermo colle, davanti a una siepe, a non fare un tubo, se non a guardare la luna con ciglio nebuloso e tremulo.

Almeno fosse per colpa dell’alcool. No, è nebuloso e tremulo per le lacrime. Perché “Italiano” è una tragedia. Morti, stragi, parricidi, guerre, malattie. E’ venuta meno anche quell’empatia che un tempo faceva fraternizzare con un Giovannino Pascoli. Oggi l’unico punto di riferimento concreto è la cavallina storna che portava colui che non ritorna. Perché muoiono tutti, a “Italiano“.

Oppure  “Italiano” è quando t’innamori e stai nella pineta a sentire i rumori delle foglie sotto la pioggia, mentre giochi a nascondino con Ermione mezza nuda. E questo è già un aspetto che potrebbe essere più interessante, ma è solo la fantasia erotica di un ricco nullafacente. “Italiano” non serve a niente: è il regno dell’inutile, mentre tutto il resto del mondo fa i soldi.

E non diamo come sempre la colpa di tutto questo ai telefoni cellulari: litterae non dant panem, da sempre. La mistificazione dello scientismo impone da sempre che – scusate il bisticcio – le lettere non sappiano contare.

E invece no. “Italiano” è tutto ciò che abbiamo per elaborare ed esprimere il pensiero.

E potremo continuare a farlo solo se la civiltà che ci circonda sarà in grado di conferire a questa disciplina la dignità e il rispetto che essa merita. E se non dovesse accadere, allora resteremo solo noi a scuola, a dire che scrivere, bisogna.

Perciò adesso a noi due, pacco malefico. Grazie a te forse domani un ragazzo riuscirà a dire di più, a dire meglio, a dire perché. Magari domani un ragazzo riuscirà a spiegare  perché dirà “sì”, quando dirà sì.

E perché dirà “no” quando un giorno (speriamo) dirà: “NO”.