CENTO GIORNI DI NULLA

Questo articolo è stato scritto come “Nota” su Facebook dopo la giornata dei “Cento giorni”, il giorno di festa pazza con cui i ragazzi delle classi Quinte di tutta la città celebrano il count-down di cento giorni dall’Esame di Stato. In seguito al verificarsi di pesanti atti di vandalismo nel cortile del Bafile, con lanci di uova, cemento ed estintori, l’opinione pubblica si schierò compatta contro i ragazzi autori degli atti vandalici, chiedendo per loro una punizione esemplare. A termine della vicenda, i danni furono risarciti da tutti i ragazzi delle Classi Quinte del Liceo Bafile, che fu teatro della vicenda.

Il disastro dei Cento Giorni davanti al “Bafile” a Collesapone ha giustamente destato le scandalizzate reazioni della città intera, specialmente di chi, da questo disastro, ha ricevuto danni materiali. Da operatori della scuola, da persone che vivono con questi ragazzi e che con loro trascorrono metà della loro vita, abbiamo il dovere di cercare di capire che cosa stia succedendo. La giustizia farà il suo corso, i responsabili segnalati alle Forze dell’Ordine pagheranno personalmente il loro vandalismo, ma ora sta a noi, dopo il grido di scandalo, a mente fredda, portare all’attenzione dell’opinione pubblica la parola “PERCHÉ”, e proporre qualche chiave di lettura. Partiamo dal principio: per i non addetti ai lavori, o per chi non ha figli in età da Esame di Stato, l’orrenda tradizione dei Cento Giorni viene da decenni mutuata dalla tradizione militare del “Mak pi 100”, la fine del reclutamento. Da che io ricordi questa “tradizione” è stata sempre osservata dagli studenti degli ultimi anni, ed è sempre stata strutturata in momenti diversi e distinti, come le personalità del Dottor Jakyll e di Mr. Hyde. Di mattina, a scuola, il perfido Hyde lancia sberleffi e atti più o meno vandalici agli insegnanti e agli studenti “che restano in galera”. In tarda mattinata subentra il Dott. Jakyll: una ripulita e via, il bravo ragazzo va al Santuario di San Gabriele, per il rito della benedizione della penna con cui scriverà la prova d’esame. Poi torna Mr. Hyde, con la scampagnata a suon di arrosto abbondantemente annaffiato per tirare su il morale. A cena torna Jackyll: i ragazzi, belli e in tiro, lindi e pinti, compunti e corretti, giacca e cravatta i maschi, tailleur e tacco-15 le femmine, con garbo ed eleganza accolgono i loro insegnanti (specie quelli che saranno i membri interni all’Esame di Stato) presso locali elegantemente predisposti, con un menù di prim’ordine. Ci saranno scambi di regali, poesie, rime e canzoni in linea con le materie scolastiche. Dopo cena inizierà la fase top-secret: ballare fino all’alba, e nessuno di noi sa più nulla di questo, né vuole saperne. Così è sempre stato, così si è consolidata nel corso degli anni una tradizione che la mia generazione non ha vissuto e che pertanto tollera con un’alzata le spalle, sbuffando e aspettando che “passi”, come una malattia esantematica, come ha aspettato che passasse il morbillo, o la varicella, quando erano piccoli. Così è sempre stato, dunque.

Ma quest’anno, il primo dopo la “pseudo-normalizzazione”, è successo qualcosa di nuovo.
Negli anni passati, le dinamiche Jackyll-Hyde erano identiche: stessi trattori, stessi lanci di uova, stesse balle di fieno, stessi boccioni di vino, stesse galline portate al guinzaglio. Abbiamo forse dimenticato le vetrine dei negozi del centro storico, fracassate dagli studenti delle scuole del centro, qualche anno fa? Noi docenti vivevamo la mattina dei Cento Giorni col terrore: le nostre macchine incartate nella carte igienica, la farina battuta con l’acqua sul parabrezza, i bigliettini non proprio amorevoli lasciati sotto i tergicristalli. E allora? Dov’è la differenza? Che cosa è successo? E’ successo che prima, ogni scuola “passava la sua varicella” nella propria camera: gli studenti rissavano e strafacevano nel PROPRIO cortile, il Carnevale dei maturandi si assurgeva a protagonismo davanti ai PROPRI compagni, quelli di ogni giorno. Quest’anno, invece, l’appuntamento è stato a Collesapone per tutti i maturandi dell’Aquila. Già tempo prima stava succedendo qualcosa. I ragazzi del polo di Collesapone si sono aggregati, e da tempo si sono contrapposti a quelli del “polo” di Pettino. Diciamo che i pianeti L’Aquila Est/L’Aquila Ovest, già da qualche tempo si guardavano di sottecchi. Alla prima occasione di gridare “E’ qui la festa?”, la situazione è sfuggita clamorosamente di mano a tutti. Si è “combattuto” al cortile del Bafile, e i carrelli della spesa servivano a portare le munizioni sul luogo della battaglia. Significativo il tipo di munizioni, adeguato all’era post-sismica: quest’anno brillavano 32 (trentadue) estintori sottratti (mi dicono) al Progetto C.A.S.E., e il cemento (sic!), al posto dell’innocua farina. Devo interpretare, o ci si arriva facilmente da soli? La lettura che propongo è la seguente. Scarso o nullo senso di appartenenza. Refrattarietà ad adeguarsi ai nuovi equilibri di dispersione sul territorio. Opposizione in poli. Inasprirsi della competizione. Emergere di problematiche sociali (polo di Pettino significa Liceo Classico, polo di Collesapone significa Scientifico ed Istituti Tecnici). E poi desiderio di superare il decentramento. Desiderio di fare tanta più baldoria quanto più si è repressi. Desiderio di esplodere. Desiderio di divertirsi appena capita, ma con premeditazione, meticolosa preparazione fin nei minimi dettagli. Troppo rare le occasioni di divertimento per i ragazzi all’Aquila. E credetemi, sono sempre loro, sono gli stessi, sono i nostri ragazzi, quelli che abbiamo cresciuto, quelli che hanno spiccato gli estintori dalle C.A.S.E. non sono i figli del vicino di casa, non sono i figli degli altri, sono proprio i nostri figli. Quelli che prima del terremoto giocavano a Ji guerrieri de ju Torriò, e che invece adesso si ritrovano senza volere a giocare proprio a Gangs of New York, dando voce inconsapevolmente a un disagio prima lontanissimo dalla nostra piccola realtà provinciale. Possiamo gridare allo scandalo, stupirci della loro immaturità. Anzi dobbiamo.

Ma subito dopo, da adulti maturi, abbiamo il dovere di comprendere, per aiutare a cambiare quello che c’è da cambiare. Io credo che inconsapevolmente tutta questa violenza sia dettata dalla difficile situazione esistenziale della nostra città, ma anche da un’ansia più generalizzata. Tra cento giorni, dopo gli esami, inizierà il loro percorso di vita vera. Finora li abbiamo seguiti e coccolati, protetti e tutelati anche dal terremoto. Tra un po’, lì fuori, dovranno avanzare con il coltello tra i denti. Circostanza che certamente non li giustifica, ma che potrebbe spiegare la loro voglia indescrivibile di cretineria.

Noi adulti siamo mortificati da quanto è accaduto. Pagheranno solo i ragazzi del Bafile? Pagheranno anche gli altri? Puliranno il cortile? L’ultima lezione va data.

Purché linciare, punire, gridare allo scandalo contro quei quattro bambacioni che hanno più visibilità e deficienza degli altri e che dovranno come sempre prendere la lezione in vece di tutti gli altri, finti innocenti, gli altri che hanno saputo nascondersi bene, non sia un modo per evitare, ancora una volta, di mettere a fuoco i problemi veri, quelli che devono essere risolti.

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