QUELLO CHE I RAGAZZI NON DICONO

Riflettere sul mondo giovanile significa camminare sul filo di due posizioni estreme, trite e stantie: da un lato quella dei “laudatores temporis acti”, gli elogiatori del buon tempo andato, quelli che dicono “ai miei tempi” e “quando ero giovane io”; dall’altro, quella di chi fa l’imbonitore, di chi crea trappole forse più taglienti, dicendo quanto sono eccezionali i giovani di oggi, così colorati, vivaci, informatici, ultratecnologici, con i loro ipod, ipad, podcast, hi-tech, e li accarezza per vendere illusioni e tenerli con catene anche peggiori di quelle del buon vecchio predicone. Difficile riflettere, dunque.
E quanto più difficile è farlo in un contesto come il nostro. I giovani aquilani, loro, quelli che “poverini”. I ragazzi ce la stanno mettendo tutta, hanno forza e volontà. Leggo i loro pensieri su Facebook, guardo i loro occhi e i loro comportamenti a scuola: sono sempre pensieri di normalità, di accettazione serena di qualcosa di ineluttabile. Gli adulti si dannano, costruiscono scenografie finte, cercano di nascondere tonnellate di macerie sotto il tappeto, e loro invece vorrebbero “esserci”. Vicini alle loro madri confuse dal disordine, ai loro padri sbattuti dalle difficoltà, vorrebbero stare lì, accudirli, sorvegliarli, star loro vicino. Noi adulti non li vogliamo, il nostro passato disneyano ci ha portato a credere di doverli allontanare, preservare dal male. Così loro ci guardano con quegli occhi di rimprovero che in realtà dicono “fatti aiutare”, e noi fingiamo, camuffiamo, diciamo che va tutto bene. Ci guardano, ci assecondano, delusi dalla nostra incapacità di fidarci di loro. Per non scontrarsi con noi si fingono ottusi, dicono qualche sciocchezza, qualche stupidaggine a tavola per farci ridere. Sorvegliano il nostro dolore. Ci spiano.
Che cosa spiano? il nostro agire di gente passata da una città capoluogo di regione alla più infima delle periferie dormitorio. Ci sorvegliano. Compatiscono la nostra condizione e si sentono offesi dal nostro far finta di nulla. Hanno forza e volontà e non hanno dubbi sulle proprie energie. A chi li accusa di non essere portatori di sogni, di progetti, di idee, io dico che a loro non importa se e quando la città risorgerà, a loro importa che genitori, amici e parenti ce la faranno a sopravvivere a questo disastro. Vivono nella paura di perdere i loro affetti, nel terrore che qualcuno si ammali: si guardano intorno, non sono sciocchi, sanno contare. E contano in silenzio padri e madri di amici che, in un modo o nell’altro, pagano fisicamente e psicologicamente un catastrofico tributo al colpo esistenziale del sisma. Lo pagano ora più che allora, perché sono stanchi, e non si accende una speranza di rinascita. Perciò i ragazzi vogliono stare qui. Muti, confusi, ma non abbandonano chi è vulnerabile. E noi a dirgli: “Ma perché non te ne vai a studiare fuori? che futuro pensi di trovare qui?”. Già: quanti sogni avevamo fatto sul loro futuro. Come li vedevamo bene, a sviluppare quello che da due, tre generazioni avevamo preparato per loro! Ma siamo degli sciocchi a considerarli ancora bambini capricciosi che rivogliono il giocattolo rotto. Il loro bel futuro era il “nostro” giocattolo. Sono cresciuti vorticosamente, in un anno mezzo.
E’ vero, c’è tanta gente che si dà un gran da fare per loro: le no-town sono letteralmente assaltate da pubblicità, offerte, sconti, promozioni, corsi di ogni tipo, dalla meditazione zen  il sassofono jazz. Tutti cercano di impegnarli, hanno paura che si sbandino. La solita fiducia sfacciata! Ma loro vogliono soprattutto stare insieme, parlare, trovarsi, ridere, tenendo sempre d’occhio i loro fragili cari. Piovono anche corsi di legalità, di  anticorruzione, antimafia, come se avessimo già delegato loro a ricostruire domani, invece di sorvegliare quelli che stanno ricostruendo oggi. Li carichiamo di un peso enorme, ingiustificato, come alibi alla nostra incapacità, come se la pesante responsabilità di una ricostruzione pulita fosse la loro. I ragazzi più grandi sorridono: gli parliamo di corruzione e il messaggio finale che arriva è “Non fate come noi”. Ma non si apprende forse con l’esempio? L’esempio non è l’unico elemento che mette d’accordo tutte le pedagogie? Non  è forse l’esempio che in-segna (lascia un segno dentro l’anima) come comportarsi? Quale progetto stiamo elaborando che possa essere proseguito da loro? Quali fondamenta alla città stiamo ponendo su cui possano poi apporre uno, due, tre piani di sviluppo? Crescono sentendoci parlare di mazzette, di denunce impunite. Si radica in loro la convinzione che i giochi sono fatti, e che su di essi non c’è nessuna possibilità di intervento. E allora? Ecco il corto circuito dei ragazzi, quelli che poi definiamo “confusi” e passivi.
Mancanza di esempio civile, mancanza di fiducia nelle loro capacità di gestire il trauma post-sismico guardandolo in faccia, senza distrazioni. Queste sono, secondo me, le chiavi di lettura della loro condizione. Ma “evitare i traumi” è stato il motto della nostra generazione, e i traumi sono come le macerie: non puoi fingere che non esistano, e sono difficili da smaltire. Il lutto si elabora toccando, guardando, vedendo quello che non c’è più. Loro “se la vogliono ricordà”, L’Aquila.
“Non vogliamo occupare la scuola” mi dicono tre studentesse rappresentanti di lista per il rinnovo del Consiglio di Istituto, illustrandomi il loro programma. “La riforma Gelmini? Noi ragazzi aquilani abbiamo altri problemi. Vogliamo che quella settimana sia dedicata a girare la Zona Rossa. Vogliamo lezioni sulla storia dell’Aquila. Vogliamo sette giorni per sognarla più bella e funzionale di come era prima. Vogliamo la storia dei terremoti prima di questo terremoto. Vogliamo studiare. Vogliamo incontrare qualcuno che ci racconti il passato e ci dica come stanno progettando la città futura. Vogliamo capire che cosa ha spinto gli antichi a restare, che cosa spinge ora noi a non andare via”.
Questi sono i nostri ragazzi.
Alcuni hanno la forza e la capacità di dare parole al loro dolore. Propongono, dicono, chiedono. Altri, i più, non sempre ci riescono: si crogiolano un po’ nel piacere del  vittimismo, o fanno finta di nulla, o rimandano il problema a domà, o restano chiusi nel consueto mutismo adolescenziale. O seguono, sempre più stancamente, la corrente politica di appartenenza. Magari “occupano” la scuola per vivere quei tre giorni di gloria che lasciano il tempo che trovano.
Poi, tornano muti come prima.
Sono stanchi, a quasi vent’anni, di giocare a “guarda l’uccellino”.

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