IL MERLO

E’ una delle tante storie del primo periodo, il più duro. Avevamo più forza fisica, è vero, ma eravamo tutti sotto choc.
Questa storia era sempre rimasta dentro di me, non ero mai riuscita a raccontarla.
L’ho liberata nell’imminenza del 6 aprile, ed è stato il mio modo di parteciparlo quest’anno.
Perché più passa il tempo, e più, per dire del presente, mi torna in mente il passato…
Mah!

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Giorni duri, quelli dei cartelli rossi che urlavano C.O.M. 1, C.O.M 2, C.O.M 3.

Agosto. L’Ufficio di Vicepresidenza era un container, il Container n°19. La cabina di comando che collegava la mia scuola al resto del mondo era tutta lì, un filo volante portava la luce, un altro portava la rete.

Arrivo al piazzale della scuola e vedo un camion enorme, snodato, composto da due dinosauri giganteschi. Sta cercando di fare manovra per entrare nel piazzale. Mi avvicino e vedo al posto di guida un autista piuttosto malconcio, scuro, pieno di capelli e di barba. “Deve scaricare”. Così è scritto sulla bolla.
Il camionista è slavo, parla un po’ di Inglese, ma io non capisco e chiamo Anna, che è madrelingua. Discorsi animati, gesticolazioni. Sbrigo altre carte, li guardo dal finestrino del container, alla fine si capisce che è proprio così, deve scaricare per noi. Si tratta di una donazione, sono computer. Computer? Ma è fantastico! Nessuno riesce a capire chi li manda e quanti sono, ma una cosa è certa: sono tanti, tanti, tantissimi scatoloni enormi dentro a quel grandissimo camion, probabilmente non semplici pc, ma intere postazioni. E allora su, diamoci da fare. Il camionista si piazza con i piedi sul cruscotto, mastica una gomma.
Enzo va a telefonare per cercare una ditta di trasporti attrezzata per lo scarico merci. Passa un’ora al telefono, ma niente da fare, pare che tutti i mezzi siano impegnati, la gente sta portando via i mobili dalle case rotte. Il camionista si agita, inizia spazientirsi. Dice qualcosa sbraitando, io chiamo di nuovo Anna per sapere che cosa vuole. “Dice che lui deve ripartire”. “Deve ripartire? Ma stiamo scherzando? Noi dobbiamo scaricare i nostri computer!” “Dice che non è un problema suo, che tra due ore lui riparte, carico o scarico, lui deve tornare in Romania”. “In Romania? Con i nostri computer? Ma siamo matti? Dobbiamo fare qualcosa”. Enzo sembra scoraggiato, provo a fargli animo, a dirgli di cercare altre ditte, io decido di provare con i Vigili del Fuoco. Niente da fare, tutti i mezzi sono occupati, siamo in piena emergenza. Insisto un po’ al telefono con i Vigili, con garbo, vergognandomi in verità, perché forse quei computer non sono quella che si dice “una priorità”, ma io penso ai ragazzi, all’inizio della scuola, alla consolazione di avere quel parco macchine nuovo, a quanto possa essere importante per loro, senza una città, avere una scuola ben attrezzata. E così tento il tutto per tutto, telefonata dopo telefonata.

Mi guardano tutti un po’ scettici, al Container n°19, non capiscono questa ostinazione. Telefonata dopo telefonata, faccio la faccia tosta, voglio parlare con il Comandante, dico, telefonata dopo telefonata, “sta a Roma” mi dicono “riunioni di emergenza”, dicono, telefonata dopo telefonata, passa un’altra ora, telefonata dopo telefonata, il tempo corre e io cerco di correre più di lui. Il camionista sembra essersi calmato. Ha disteso lo schienale, i piedi sempre in alto, poggiati sul cruscotto, forse dorme.

Alla fine riesco a parlare con il Comandante, a Roma. E lui mi ascolta. Non sbuffa, non lo avverto seccato, non lo avverto frettoloso. Anzi, nella sua voce che dice solo “Mi dica, professoressa”, avverto uno spiraglio, un barlume di possibilità. E così vomito nel telefono tutta la mia ansia. “Ingegnere, è assolutamente importante scaricare questi scatoloni, ci aiuti, sarà un anno scolastico duro, questa scuola sarà agibile, potrà essere un punto di riferimento per tutta la città, per tanti studenti, potremo tenere aperto il pomeriggio, potremo tenere impegnati i ragazzi, tenere dei corsi, l’inverno è lungo…”.
Io parlo, lui ascolta. E più lui ascolta, più io parlo. Gli trasmetto tutta la mia disperazione.

Non so dire perché vidi in quei computer la soluzione di tanti problemi, questo non lo so. So solo che sotto quel porticato tutto scorticato io vedevo uno spazio chiuso, un centro polifunzionale coperto per i giovani, con quelle postazioni ben sistemate, il wireless, e tanti ragazzi. E mi sentivo addosso tutta la responsabilità di quello scarico.

Deve averlo sentito, l’Ingegnere Comandante dei Vigili del Fuoco, perché quella voce calma e calda disse: “Quanto sono grandi, questi scatoloni, professoressa?” “Dico “Ognuno più o meno sarà un metro e mezzo per un metro e mezzo, dovrebbero essere delle postazioni attrezzate“. “Mi lasci vedere, la richiamo io”, dice.

Restai in agitazione, non riuscivo a sbrigare altre carte, lo sguardo puntava su quel camion enorme, enorme come la città in macerie, enorme come la speranza che avevo di scaricare tutti quei computer. Circa mezz’ora dopo squilla il telefono. “Professoressa?” dice la voce. “Sì sono io, mi dica Ingegnere, ha buone notizie per noi?” “Guardi, siamo riusciti a conciliare, è possibile interrompere un lavoro per un’ora. Speriamo che sia un tempo sufficiente per voi”. Io pensai disperata che in un’ora ne avremmo scaricato sì e no un terzo. “Badi, adesso le manderò un mezzo adatto. Si chiama ‘merlo’. Vedrà…”. Sentii nella sua voce un tono di soddisfazione ma anche – come dire – paterno. Non lo dimenticherò mai, mai in tutta la mia vita.

Esco dal container n°19 e inizio a chiamare tutti, dal Dirigente, al Segretario, ai bidelli che stazionano sotto un albero per ripararsi dal caldo. Mi sento fuori di me dalla soddisfazione. “Arrivano i Vigili del Fuoco, arrivano i Vigili del Fuoco, ci aiutano loro, ce l’abbiamo fatta”.

Io non so perché per me era vitale questa storia dello scarico dei computer. Le nostre reazioni non erano sempre normali, in quel periodo, e la cosa certa è che io avevo paura di quell’inverno che doveva arrivare, tanta paura. Sembrava che nessuno ci pensasse, all’inverno dei ragazzi, invece io non riuscivo a pensare ad altro. Ed è ancora così.

Intanto il tempo passava e i Vigili del Fuoco non si vedevano. L’attesa, il caldo afoso di quella mattina, s’erano fatte le due, e io iniziavo a cedere allo sconforto. Forse non avevano potuto interrompere quel lavoro, forse non riuscivano più a venire. Il camionista aveva ricominciato ad agitarsi, a sbraitare, Anna cercava di dirgli che il mezzo stava arrivando, lui le diceva che comunque ormai ci sarebbe voluto troppo tempo per liberare il camion.
E finalmente sentimmo il rombo di un motore.

Non ci fu alcun bisogno di chiedersi se fosse lui, perché aveva ragione l’Ingegnere, era proprio inconfondibile, lui, IL MERLO, creatura stupenda, agile, veloce, scattante, col suo becco giallo, e due Vigili sopra che io vidi come eroi su un ippogrifo. Ho amato quel merlo non appena l’ho visto, ma ancora di più l’ho amato non appena ha iniziato a lavorare. Con un’agilità sorprendente il merlo infilava le sue zampe sotto ogni scatola, la sollevava delicatamente e poi la appoggiava a terra. Riusciva a muoversi in spazi angusti con un’agilità sorprendente, scartando tra gli scatoloni, il camion e il porticato. Erano le quattro ormai, erano andati tutti via tranne il Preside, Enzo, Paolo e io. Vidi il Preside togliersi la giacca e iniziare con Enzo a sistemare gli scatoloni appena appoggiati a terra, spingendoli sul pavimento perché trovassero posto senza occupare tutto lo spazio che avevamo preparato nell’atrio agibile della scuola. Il camionista aveva capitolato, e ormai era rassegnato ad aspettare che finissimo.

Aprimmo il primo scatolone messo a terra: il contenuto era strano… le postazioni erano colorate… Provammo a montarne una. Sedioline piccolissime… Erano postazioni per bambini. Dopo i primi momenti di smarrimento, ricontrollata la bolla, l’indirizzo, il destinatario, tutto giusto, era però evidente che la donazione era per una scuola materna: sicuramente avevano dato il nostro indirizzo per motivi logistici. “Va bene, ancora meglio, saranno per i bambini, che hanno ancora meno strumenti dei ragazzi grandi, per trascorrere questo inverno”.
Come previsto dal Comandante, in un’ora lo scarico fu completato, i due Vigili non smisero un solo secondo di lavorare, alternandosi alla guida. Ci salutammo, alla fine, pieni di soddisfazione.
E noi restammo lì. Distrutti di fame, di stanchezza e di fatica.

Quando andarono via tutti, io restai da sola, seduta sullo scalino del portico, e mi misi a piangere.
Vi sembrerà stupido, ma il momento in cui è comparso il merlo resta uno dei più fulgidi della mia vita.
Non lo so perché oggi ho voluto raccontare questa storia.
Forse perché ogni anno è più forte il peso.
O forse perché non è capitato più che piombasse un merlo dal cielo, come un miracolo.
E che io mi sedessi su uno scalino a piangere.



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