L’ACQUA DAVANTI

Questo testo nacque in occasione di un Memorial per Franco Corsi, nell’ottobre 2012. Non sono stata un granché come nuotatrice, ma ho respirato l’atmosfera della piscina sin da piccolissima: mio padre, Valerio Nardecchia, fu Giudice di Gara ed ebbe incarichi dirigenziali all’interno della FIN. Inoltre mio fratello Dino fu un vero campione negli anni Settanta.
Senza nulla togliere a Franco, il testo risente di tutta l’emozione che provo nel ricordare mio padre. Ciao papà.

La Piscina Comunale, per noi aquilani nati negli anni Sessanta, non è solo un impianto sportivo, è un vero e proprio monumento: non c’è stato bambino aquilano che non sia entrato in vasca, foss’anche per un breve corsetto di galleggiamento. E non c’è stato medico di famiglia che non abbia prescritto dosi massicce di questo sport, considerato all’epoca il toccasana contro ogni male: curava il rachitismo e l’obesità, la tosse e il raffreddore, l’inappetenza e gli attacchi di fame, l’acne e la pelle secca. Erano i favolosi anni Sessanta e Settanta, quelli in cui tutto andava bene, quelli di Carosello, delle lavatrici e del “boom” economico. I tempi di Novella Calligaris e di Mark Spitz, il campione con i baffoni alla Tom Selleck. Da non crederci, oggi, per atleti che si depilano pure i peli del naso.

Il primo tuffo l’abbiamo fatto verso i quattro, cinque anni, a ranocchia, all’acqua bassa, con  l’istruttore che ci teneva a galla. Affondavi come un sasso e lui ti diceva “su il sedere! su il sedere!”. Allora davi un colpo di reni e imparavi a star su piano piano, come un piccolo ragno che annaspa in una pozzanghera. Imparavi la fatica e la disciplina, la fiducia verso gli adulti, la certezza illusoria che non ti avrebbero mai fatto affogare. Eri orgoglioso della tua borsa azzurra con la scritta bianca C.O.N.I., e dello stemma di “non classificato” sul costume ascellare nero, di tessuto pesantissimo. La prima cosa che ti insegnavano era il “morto a galla”, poi da lì iniziavi a imparare il dorso, e a dorso battevi le gambette mentre con lo sguardo giocavi con le robe che vedevi sul soffitto: grate, traverse, linee nere, lampade. Il respiro nelle orecchie, il ritmo cadenzato delle bracciate, l’acqua che entrava e usciva dal naso, dalle orecchie, dagli occhi… La voce dell’istruttore ti incitava, allora tu ordinavi alle gambe e alle braccia di battere più forte, perché lo diceva lui, lo diceva il tuo istruttore, ti urlava “GAMBEEEEEEE!”.
E’ lì che abbiamo imparato che tutto deve avere un respiro. E che il respiro dev’essere lo stesso del cuore.

A quell’epoca gli istruttori avevano dei lunghi bastoni neri che terminavano a manico di ombrello, e ti sostenevano la nuca da bordo vasca mentre viaggiavi a dorso. A un certo punto sentivi che il manico d’ombrello si sfilava da dietro la nuca, così battevi e battevi le gambette e andavi per un po’ liscio come l’olio, ma solo per poco, perché senza l’ombrello iniziavi ad affondare e sentivi l’acqua salire sugli occhi e sul naso. E mentre colavi a picco come un sasso nello stagno… lui ti ripescava come una trota. Perché dovevi provarla nel naso, l’acqua, dovevi capire che va rispettata, e non va mai subita. Quei venticinque metri non finivano mai, salvo poi distrarti proprio quando arrivavi, e picchiavi la testa sul bordo. Non ti avvisava, l’istruttore, dovevi stare attento. Dovevi conoscere la vasca a memoria, ogni quadratino del mosaico del fondo, ogni piccola crepa nella vasca, ogni sfumatura del canaletto poggiamani che correva sottobordo, dove, negli anni Sessanta, qualcuno ci sputava dentro.

Di anno in anno, i distintivi sul costumino cambiavano: “Cavalluccio marino”, “Delfino”, “Pesce spada”, “Squalo”. Il cloro profumava, aveva un buon odore, come quello del vapore caldo che ti investiva all’ingresso, quando aprivi la porta. E quando finiva l’allenamento e uscivi dalla vasca, l’aria non era più il tuo elemento: fuor d’acqua ti sentivi pesante, cercavi a tentoni le ciabatte, te le infilavi barcollando, la testa girava per la stanchezza, gli occhi bruciavano, andavi quasi a tentoni nello spogliatoio. E quello spogliatoio in cima alle scale era il regno delle mamme. Ah! le mamme del Club L’Aquila Nuoto, pronte con gli asciugamani, il fon, la merenda. Le mamme che ci accompagnavano in trasferta, le mamme che a momenti si buttavano in acqua con te, per darti una spinta di più. A stropicciarti la schiena con l’accappatoio, a farsi la sauna nei vapori di docce bollenti, ad asciugare i capelli e a dire ogni volta che dovevi tagliarteli. Le vedevi urlare sugli spalti, incitare e sudare: in ogni trasferta l’aquilano era figlio di tutte, solo lui contava, per tutte, allo stesso modo.

“… Aaaaa pòstoooooo!”. Quante volte ho sentito mio padre, giudice di gara, intimare questa frase, e ho visto il fremito sulle gambe tese degli atleti! Dino, Claudio, Mirella, sul dado di partenza, aspettavano lo sparo che dava il via alla gara, indiscussi campioni. Molti di quei bambini nuotano ancora oggi. Perché nuotare è un po’ come volare, se lo hai fatto una volta non ci rinunci più, neppure da vecchio. E se hai i reumatismi, o se proprio non ne puoi più dell’acqua, nuoti comunque con il pensiero, perché un nuotatore vive come se nuotasse: acqua in bocca, poche chiacchiere, fare, non parlare, sentire il ritmo del cuore e del respiro…sciafff, sciafff, sciafff... Solo nuotando senti il ritmo che batte.

Se mai hai nuotato nella tua vita, quando incontrerai qualcuno che è stato un nuotatore, saprai di avere qualcosa in comune con lui. Forse il silenzio. O quella pelle da delfino. Se mai incontrerai qualcuno che è stato un nuotatore, all’Aquila in particolare, dove si nuota in mezzo alle macerie, forse ti sembrerà un po’ burbero e solitario, perché lui è come una conchiglia deposta dal mare sulla sabbia. Un nuotatore è come un Terranova: nuotare, salvare, tirare, è un istinto naturale. Egli sa che l’acqua, quella, non tutti se la possono permettere, non tutti sono come lui, non sanno nuotare. Galleggiano, galleggiano, si può essere assolutamente certi che galleggiano. Ma muovono la testa a destra e sinistra, sgrullano i capelli, fanno un sacco di schizzi. Il loro gusto non è nell’acqua, è fuori. E’ negli occhi di chi li guarda.

Il nuotatore prende la sua corsia, si tuffa, fende l’acqua in silenzio, la taglia e la cavalca. E guadagna la vasca. Un nuotatore guarda solo l’acqua, davanti.

acqua

Florence – What the water gave me
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Quando vuole pregare
lei va alla piscina comunale
mette la cuffia e gli occhialini
entra nell’acqua ma non è capace
di domandare, o forse non ci crede.
Allora fa una bracciata e dice
eccomi, poi ne fa un’altra
e ancora eccomi. Eccomi dice
ad ogni bracciata. Eccomi a te
che sei acqua e cloro

e questi corpi a mollo come spadaccini.

E nello spogliatoio, dopo, alla fine
prova sempre una gioia –
quasi l’avessero esaudita
di qualche cosa che non ha chiesto
che non sapeva. Che mai saprà
cos’era.

Mariangela Gualtieri