LA SALUTE

      

 

Per me il Latino è la lingua che insegno a scuola.

Ma da quando Marta mi ha invitato a quella festa, proprio da allora, “latino” è diventato il ritmo di un mondo pieno di sole, inutilmente desiderato da bianchi freddolosi e dotati di “due piedi sinistri”, come diceva sempre la mia amica Mayeline, cubana de Cuba.
Ma
i maestri di Latino – e Marta lo è – non sono come tutti gli altri bianchi: i maestri sono diversi, sembrano quasi neri, hanno la carne soda e i piedi giusti per disegnare cerchi in cielo, in terra e in ogni luogo.
Mi hanno invitato alla fiesta latina, e ho accettato volentieri.

La Balera è un regno che bisogna esplorare almeno una volta nella vita. Se sei nato quando si cantava Come on baby light my fire, o sei cresciuto con i Pink Floyd, oppure innamorandoti di Jim Morrison, beh, allora alla balera ci vai per dire: “Mister Livingston, I suppose”. Qui le porte della percezione sono talmente lontane che lo spazio è infinito per quanto è vuoto. Qui il massimo della percezione è indovinare la taglia del reggiseno degli esemplari femmina, che vestono livree da corteggiamento improponibili. Qui il difetto diventa un pregio da ostentare: culoni enormi fasciati da leggins spietati, fianchi tozzi sottolineati da cinture alte e luccicanti. Qui la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo. Qui sembra di essere ai tropici: ragni, serpenti, coccodrilli, versi di tucani e cacatua. Qui si prendono sul serio, e la convinzione è peggio della pazzia.

Per questo è un non-luogo, Ou-topos. Utopia.
In una parola: la salute.
Magnifico: sto.

Ma sto da spettatrice stronza, e da spettatrice stronza mi frulla nella mente un refrain“È il 1963 quando Dian Fossey lascia il suo lavoro da educatrice alla volta del continente nero, con l’obiettivo di studiare una specie di primate di cui si sa poco o nulla: il gorilla”. Come Dian Fossey, ancora una volta nella vita, mi metto a distanza, in prospettiva antropologica, nel tentativo (anche) di individuare un Mr. Livingston in mezzo agli indigeni danzanti, per  bussargli sulla spalla, dire la famosa battuta e aspettarmi come risposta un “No” dettato dal terrore di dover tornare alla “civiltà”.

Tutti ballano, e io seduta a chiacchierare con una sconosciuta antropologa come me. E abbiamo entrambe i piedi calati in uno stampo di cemento.
Salsa, Joie de vivre, anima mundi, perché io no? perché i primitivi sì, e io no? perché resto sempre fuori? perfezionismo isterico? colpa del blues? di Bruce? culto della bellezza? diffidenza? Boh. Penso che ci son voluti due secoli per fare del buon blues bianco e ce ne vorranno altrettanti per mover la cadera.
Mi piacciono le cose vere, la mia ricerca è l’autentico.

Marta, però, è una forza della natura, un vulcano. Lei riuscirebbe a ballare perfino Lou Reed. Riuscirebbe a ballare Il Silenzio di Nini Rosso. Ballerebbe perfino un lago, l’aria, l’acqua ferma stagnante di una palude. La trasformerebbe in salsa. Quando si muove Marta, ricorda l’acqua minerale, ricorda Silvana Mangano in Mambo, ti fa venire voglia di essere sano, e felice. Questo significa autenticità.
L’ho salutata, è stata contenta, la mia promessa è stata onorata.
Quindi già comincio a pensare a come squagliarmela senza dare troppo nell’occhio.

Noto l’avvicinamento di un giovane uomo a una giovane donna e mi viene in mente “Quei due” di Paolo Conte. “Due note e il ritornello era già nella pelle di quei due… il corpo di lei mandava vampate africane, lui sembrava un coccodrillo…”. Maledetta letteratura, ti fa vivere di rimandi, e di rimando in rimando vivo la scena con quello che tecnicamente si chiama straniamento: gli occhi di un alieno appena atterrato su un altro pianeta.

Vaglielo a spiegare a questi, che è la prima volta che atterro in una discoteca. Che noi abbiamo sorriso di tutto il pop del mondo, finché non sono arrivati Eco e Kundera, che hanno buttato tutto in vacca. … In vacca? Avverto nella mia testa nuove note, da lontano… Op, op, op…. com’è misteriosa la leggerezza…

E se fossero giusti questi?
Se fosse giusta la leggerezza?
Se fosse questa, la salute?

Se fosse l’Augusta di Zeno?
Perché non salvarsi ballando?
Perché almeno non far finta di essere sani?

Oh, cara balera, tenera cultura popolare, dolce piazza, ballo di strada, Rueda de Casino, ti prego, tirami fuori i piedi dal cemento e facciamo uno scambio equo e solidale! Io ti do un po’ della mia anima, tu mi dai un po’ del tuo corpo!

Ma – ahimé – chi beve dal calice dell’ inchiostro è corrotto, e non torna indietro.
Certo non mi cambierei con la donna-gatto, ma potrei tirare fuori i piedi dal cemento… potrei fare un passaggio di liana… sconfiggere il fantasma sacrificale.

POTREI SGUINZAGLIARE UN GORILLA CONTRO IL CAMMELLO DI NIETZSCHE!

Bello. Ci farei. Anche solo per vedere chi vince.

Ma è quasi mezzanotte, e per me la serata finisce qui, quando inizia per i sani.
I sani non lavorano?
Da malata, io domani lavoro.
E poi, se il locale si riempie, mi vengono di sicuro le caldane.
Furtivamente riprendo la borsa e il cappotto.

Uscendo, tiro un respiro bello.

Aria fredda, nevischio, gente che arriva, coppie che si abbracciano, inizia la serata luccicante di brillantina, volgarmente oggi chiamata “gel”.

E io che vado controcorrente, come un salmone.

Vicino alla macchina, mi aspetta il fantasma di Jim.
Sigaretta, camicia aperta, gomito appoggiato al tettuccio.
Gli dico eddai, su, non rompere. Lo sai quanto mi farebbe bene al cervello ricordare tutti quei passi e quelle sequenze? Lo sai quanto sarebbe importante per il coordinamento? Si chiama “salute”.

Sorride triste.

Gli dico: “Trova pace, riposa una buona volta, provaci almeno”
Gli do un bacio sulle labbra, e pufff… sparisce.

Dicono che non sia morto.
Dicono che cavalca ancora tutte le tempeste.

Porca miseria, è vero.
Pure le mie, ancora.

Encore.
Un corps.

 

Riders on the storm…

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