LA GATTARA

Giuseppina è veramente esistita.
Così si chiamava, la “gattara” della Villa Comunale, negli anni Sessanta. Quando le gattare non avevano i gruppi sui Facebook e la gente le considerava delle mezze matte, e forse lo erano davvero.
Il testo, scritto a ridosso del 6 aprile, nasce da una passeggiata sui luoghi della mia infanzia. Cammino, rivivo quello che succedeva. E a un certo punto…..

 

Arrivava con un’automobile scassata, una Giulietta color sabbia.
Rallentava, accostava al muretto della casa di cortina rossa di Via Filippo Corridoni, spegneva il motore, armeggiava ancora un po’ in macchina. Infine scendeva, maneggiando una rumorosa busta di plastica ricolma di spaghetti al pomodoro. “Miiiicio miciomiciomicio! Miscccch… Nz-nz-nz-nz-nz… Miciomiciomicioooo!”. Iniziava a chiamare con una voce ferma, forte, imponente. Era proprio quello il momento in cui tutti i bambini scappavano a nascondersi dietro agli alberi, o dietro ai pilastri del portico della casa di Serena, un portico ampio, libero, spazioso, pavimentato a mattonelline rosse, ottime per pattinarci sopra. “Schhhhh!!!! Zitti! non facciamoci vedere!” bisbigliava Serena, capo carismatico della banda. Ma lei, la Gattara, sapeva bene che i bambini erano nascosti lì intorno.
Dietro ai vetri delle finestre, nelle case, dietro alle tende, c’erano sempre persone a spiare la Gattara come fosse un alieno. E Lei, che lo sapeva, li controllava feroce, con la coda dell’occhio. Per dispetto alzava la voce: “Miiiiiiiiicio miciomicio! Miscccch… Nz-nz-nz-nz-nz! Venite qui, piccoliniiii! Non abbiate paura di quei brutti spioni… Ci sono io a proteggervi… Venite ciccini… C’è la mamma…”.
Una bimba più di tutti gli altri restava impietrita. Il respiro corto, il cuore che batteva così forte da temere che la Gattara in persona lo sentisse. Potevi addirittura immaginare il modo in cui la piccola cercasse di tacitarlo (“Placati, placati cuore mio, lei non ti può vedere, fatti coraggio, resisti!”). Se faceva quell’effetto sul cuore dei bambini doveva essere proprio vero che la Gattara era un strega. Lo dicevano tutti, perfino il parroco, Don Pasquale. Pare che l’avesse detto in gran segreto alla mamma di Serena. Pure il tabaccaio di Porta Napoli, che aveva il bancone così alto che i bambini non potevano sentire quello che diceva alle loro mamme, pure lui, chiamava la Gattara proprio così, “la strega”. Tutte le autorità del quartiere, parlando di lei, facevano facce strane, o due occhi che pareva dicessero “quella lì”. Dicevano che era pazza, che non aveva nessuno al mondo, solo i gatti della Villa Comunale. Che cosa mai l’avesse trasformata in una gattara, senza neanche più un nome, senza una storia, nessuno lo sapeva, o voleva dirlo.
Vediamo chi vuole venire a casa mia, stasera… “ minacciava ogni volta la Gattara a voce altissima, per tenere lontani i bambini mentre i gatti mangiavano. E muoveva qualche passo, un po’ di qua, un po’ di là, sbirciando con gli occhi nervosi e cattivi. Quando lei si avvicinava, tutti i bambini scappavano dai loro nascondigli, come stormi di tortore che si alzano in volo dopo uno sparo. Scalpiccio di piedi sul selciato, ali sotto le suole delle scarpe.
Un giorno, per puro caso, proprio la bimba più paurosa riuscì a guardare la Gattara dritta in faccia. Involontariamente, certo, perché fu la Gattara a venire a tiro del suo occhio destro, nascosto perfettamente dietro al tronco dell’albero che la proteggeva. “Vediamo chi vuole venire a casa mia, staseeeera!” aveva detto la Gattara, calcando i passi verso i nascondigli dei bambini. Scalpiccio… voli di tortore… Ma la piccola non era riuscita a muoversi. Era rimasta lì impietrita dalla paura, i piedi cementati a terra e le braccia paralizzate, strette alla corteccia dell’albero, corteccia lei stessa. L’occhio destro, appena sporgente dal tronco dell’albero, era così immobile che riuscì a vederla, solo perché fu lei stessa ad entrare nel suo campo visivo, ed eccola lì davanti, la Gattara: capelli scuri, lunghi appena fin sopra le spalle, frangetta squadrata, occhi truccati pesantemente ma grossolanamente, rossetto acceso, un po’ screpolato, cappotto dal collo sciallato, che di certo ricordava tempi migliori. Gli occhi, marcati di nero, spuntavano fuori nervosi dalla frangia compatta. “Miiicio miciomiciomicio! Miscccch!… Nz-nz-nz-nz-nz…”. Sistemò il sacchetto a terra, lasciando fuoriuscire gli spaghetti e continuando a chiamare i gatti, che iniziarono ad arrivare miagolando di riconoscenza. La Gattara si accorse della bambina dietro all’albero. Oh… Di sicuro l’avrebbe presa e portata via come recita la filastrocca dell’Uomo Nero! L’avrebbe presa e chiusa in una gabbia dentro alla sua Giulietta scassata, per poi cucinarla nel sugo degli spaghetti per i gatti! La bimba serrava le palpebre sugli occhi, sentiva la saliva riempirle la bocca, non aveva neanche il coraggio di inghiottire.
Questi bambini sono molto maleducati” disse invece la Gattara ad alta voce, camminando solennemente verso di lei. “C’è solo una bambina coraggiosa, in questo quartiere…”. Stava parlando di lei? Il cuore della piccola voleva scoppiare, oppure fermarsi, fatto sta che quelle parole ebbero lo strano effetto di convertire la paura in una strana emozione, forte e bella quanto prima la paura era stata terribile e distruttiva. “Solo una bambina non è scappata via…” gridò la Gattara, per farsi sentire dagli altri bambini. “…L’unica bambina in gamba in questo posto pieno di sbruffoni!”.
La bimba ricominciò a respirare, sentì il sangue scorrere di nuovo, i muscoli delle gambette secche rilassarsi. Poi la Gattara aggiunse, a voce così bassa che solo la bimba poté sentirla, e non lo raccontò mai a nessuno al mondo: “… Quei mentecatti dietro ai vetri mi danno della pazza… mentecatti… Piccoli topi miserabili… state alla larga dalla Gattara, state alla larga, miserabili topi…sciò!”. E raccolse il sacchetto ormai quasi vuoto, rovesciando gli ultimi spaghetti per terra. “Miiiicio miciomiciomicio! Miscccch… Nz-nz-nz-nz-nz… Andate a nanna gattini, su, fate i bravi… E state lontani dai cani… i cani ah!”.
A questo punto, la Gattara si girò verso la bimba nascosta. L’occhio destro della piccola non osò neppure sbattere la palpebra, così la fissò dritta in quegli occhi felini, neri come due olive nere. E la trovò bellissima. E pensò che era una fata.

Quel giorno la Gattara aveva detto a tutti che quella bambina era la più coraggiosa del quartiere, e da allora in effetti la bambina iniziò a diventarlo, ogni giorno di più. Si diventa sempre quello che una fata dice agli altri che tu sia.

Miiicio micio micioooooooo! Mischhhh… Nz nz nznznz…

Non c’è più nulla, in via Filippo Corridoni, ora.

Arrivo, spengo la macchina, e chiamo.

Miiicio miciomiciomicio! Mischhh!…

Rovescio la mia busta di spaghetti a terra, loro arrivano, sono pochi, tre o quattro, i pochi rimasti qui dopo il 6 aprile di tre anni fa. Sono riusciti a salvarsi dal crollo della casa con la cortina rossa, la casa di Serena, che si è seduta sul suo porticato, sbriciolata, sprofondata, ingoiata dalla terra, lei, il suo portico con il pavimento di mattonelle rosse su cui noi bambini si pattinava.

Venite, piccini… nznznznz… Venite, su!

Non c’è più nessuno che guarda da dietro le tende. Sono morti, ingoiati dalla terra. Oppure scappati via. Posso sentire lo scalpiccio dei piedi che corrono, volo di tortore dopo lo schioppo, ali sotto le suole delle scarpe… I gatti, però, sono rimasti. Sporchi, smagriti, selvatici, piccole linci selvagge, arruffati, soli.

Miciomiciomiciomicio!… Nznznznznz… Mischhhh!”.

Venite qui, piccini, la Gattara vi nutre, vi porta acqua da bere. Siete stati bravi, siete stati coraggiosi a restare in questo posto.. Venite, la Gattara vi protegge, perché siete rimasti qui senza casa, senza cibo.

I gatti mangiano avidamente, io riempio di acqua una grossa ciotola di plastica.

La polvere delle macerie mi secca la bocca, la sento nella gola. Sono passati tre anni.
E non c’è neanche una bimba, dietro un tronco d’albero, a guardarmi con il suo occhio destro sbarrato. Neanche una bimba, in via Filippo Corridoni, a vedere la Gattara come una bellissima fata senza storia.

 

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Buddy Guy – Black Cat Blues

L’ACQUA DELLE PALLE DI NEVE

 La grande nevicata del febbraio 2012, chi se la scorda? Fu una storia dentro la storia. E dentro queste due storie, ce ne fu un’altra, che ho voluto raccontare qui, romanzandola parecchio, ma riportandola “nel succo”. Alba, la protagonista, potrebbe essere una mia alunna. E quello che racconto potrebbe essere vero. Almeno in parte… Ciao Sara 😉

 

“Ma come devo fare co’ ‘sta figlia mia? A me una figlia facile, una di quelle normali, una di quelle che vogliono i massaggi e la manicure no, eh? A me sempre la strada in salita!<”. Lo pensava, ma si guardava bene dal dirlo, Giuseppina. Tanto lo dicevano gli altri, lo dicevano tutti, alle spalle, col risolino all’angolo della bocca o l’aria di compatimento: “Poveretta, quanti guai le dà quella figlia, povera donna!”. Allora lei alzava il mento e camminava fiera, impettita. Al diavolo loro e le loro belle figlie con le unghie laccate: non ce l’avrebbe cambiata mai, la sua Alba, con quelle lì. Però ogni tanto lo pensava: “Come devo fare co’ ‘sta figlia mia?come devo fare dio mio? come devo fare?…”.  Difficile dalla nascita, Alba: chi l’aveva vista bambina, quando sembrava Heidi, felice per ogni piccola cosa, poteva anche capire. Poteva capirla sua madre, forse, o forse sua zia, che se l’era portata sempre dietro ovunque, o la sua maestra delle elementari, che era rimasta per lei come una zia saggia e prudente, una buona consigliera. “Bisogna prendere un avvocato” disse la zia Laura, preoccupata ma decisa. “Un avvocato? E chi lo paga un avvocato? E per due cause?”. “Non esagerare, dai, la prima è caduta” “E allora aspetteremo che cada anche la seconda. Di più non posso fare” “Certo che pure lei però… Per forza in prima linea deve stare? Un po’ da parte no, eh, mandare avanti gli altri… stare un po’ attenta… no eh?”
“La conosci… L’hai cresciuta insieme a me”
“E la conosco sì. Però qui mica si tratta più del gatto randagio e del cane ferito… qui andiamo sulle cose serie” “Alba è cresciuta, Laura. Prima erano ginocchia sbucciate per arrampicarsi sugli alberi, occhi neri quando si picchiava con i grandi. Ora è questo. Dovevamo aspettarcelo, su…”
“Non abbiamo fatto niente per evitarlo. Quando è andata all’università a Roma avevo pensato… avevo creduto… speravo che…”
“Non è colpa di nessuno: il terremoto c’è ogni tre secoli… E’ capitato a noi. Era destino”
“Lascia stare il destino… Piuttosto: lei lo sa? A che ora rientra?”.
Proprio in quel momento la chiave girò nella toppa, e la porta si aprì. “Accidenti….. quanta neve!….”.
La faccia di Alba, ben chiusa in un cappuccio stretto stretto e con le gote tutte rosse per il freddo, si rabbuiò appena vide dalla porta la madre e la zia sedute in cucina, davanti al tavolo. “Oddio, e mo’ che altro è successo?” ,ormorò tra i denti. “Niente, solo un’altra denuncia per occupazione di suolo pubblico, che sommata a quella dell’anno scorso per il blocco della A24 fanno due denunce. Che sommate all’abbandono dell’università, del lavoro part-time che avevi trovato, dell’affitto della casa di Roma dove però non stai, fa un sacco, ma proprio un sacco di guai”….
Alba restò ferma, in piedi ancora fuori dalla porta, rigida come un merluzzo secco. La gioia della nevicata le si era mozzata nella gola come un boccone buttato giù per lo spavento. “Come… un’altra denuncia?” “Eh sì”. “Ma solo a me?” “A te e a pochi altri”. La faccia prese un’espressione di tale rammarico che zia Laura non riuscì a non intervenire. “Dai Alba, non è la fine del mondo, risolviamo pure questa, dai, non fare così”.
Alba iniziò lentamente, come un automa, a togliersi il cappotto, scrollando la neve sullo zerbino, con cura, per non bagnare il pavimento. Dopo una lunghissima pausa disse solo: “Ma perché sempre a me?”. “Oh, figlia mia, sapessi quante volte lo dico io”. Di nuovo zia Laura decise di interrompere la pesantezza: “Perché hai sette palmi di corata, Alba, ecco perché! Perché sei generosa, perché non ti risparmi e proteggi gli altri, come hai sempre fatto”. “Zia, spiegami che male ho fatto…”. Ma la madre era fuori di sé. “Siete una manica di matti. E’ per questo che avete scelto quel posto lì, vero? Perché sapete che siete matti! Gli avete pure cambiato nome, a quel posto, Casematte lo chiamate, che io per capirlo ci ho messo un anno e mezzo. Lo sapete che siete matti, perché invece di studiare e pensare al futuro, che non c’è lavoro, che non c’è più la casa, che non c’è più la città, voi state a perde’ tempo lì… Ma lo sai che la gente c’ha paura di passare lì? Lo sai che a vedervi vestiti come i fricchettoni dei tempi miei, la gente pensa alla droga? Lo sai che tutti quei cani che girano lì intorno perché li andate raccogliendo in giro, quelle persone strane con le chitarre.. ma che è… Woodstock? Lo volete capire che non è più quell’aria? Che la gente adesso ha paura? Che i tempi sono cambiati? Alba! Ma perché non fate i ragazzi normali? Lo studio, i fidanzatini, l’aperitivo, il cinemino.. dai su… ma che è?”. Alba era sempre più affranta a sentire la madre parlare così. Si lasciò cadere sulla sedia, come un vestito tolto dalla gruccia. Zia Laura le versò un po’ di caffè ancora caldo e glielo porse, girando lo zucchero nella tazzina finché lei non allungò la mano per prenderla. Giuseppina, a vederla così, si fece forza. E’ che non era colpa sua, povera figlia… Magari chissà che cosa le avevano messo in testa… Doveva esserci un piano dietro, qualcun altro che sobillava. “Ma chi ve l’ha messa in testa ‘sta cosa, insomma? Chi ci sta dietro, povera figlia mia, dillo a mamma, è andata così, vero che è andata così? è così vero Alba? E’ vero che c’è qualcun altro a monte? Però adesso la denuncia ce l’hai tu, eh, invece loro stanno a casa con i figli che vanno all’Università, eh, magari fanno la Bocconi, eh? Loro la Bocconi e voi i boccaloni, eh? Dai dimmelo! Chi è? Eh, chi è?”.
Per fortuna suonarono alla porta. Madre e figlia erano appoggiate con i gomiti sul tavolo e la testa tra le mani, sembravano corpi vuoti, solo zia Laura scattò in piedi per andare ad aprire. “Oh, guarda chi c’è! La maestra Giovanna non manca mai quando Alba si mette nei guai!”. Si salutarono, si abbracciarono, non appena Giovanna ebbe finito di sistemare fuori dalla porta l’ombrello pieno di neve. “Hai saputo della denuncia eh? Vedi che casino, cara la mia maestra comunista?”. Risero, tutte e due. La maestra Giovanna era una donna minuta, all’antica, gonna sotto il ginocchio pure quando nevicava, miope come una talpa. Zia Laura la chiamava sempre maestra comunista per via delle idee di Alba, per prenderla in giro. “Ecco qua la tua pupilla! E noi che abbiamo fatto tanto per farla studiare!” ridevano. “Eh, non è la maestra comunista! – rideva Giovanna – è che tua nipote è una ribelle!… E poi ha una vera passione per le cause perse!”. Una bella risata ci voleva proprio. Dalla cucina, però, non riuscirono a condividere il buon umore. Alba fissava la tazzina di caffè. Il setaccio ancora una volta aveva separato la farina dalla crusca. E lei era la crusca. “Muor giovane colui che al cielo è caro!” recitò la maestra Giovanna “e vaglielo a spiegare, Alba, a chi prende i libri come cose che devono fare solo gli altri!”. “Oh, qui non muore nessuno!” si svegliò all’improvviso la madre. “Ma è una metafora, Giuseppì, muore inteso come si sacrifica, si immola per la causa!” “Ma quale causa?” “L’Aquila, la civitas” “E chi vi paga? Perché non lasciate decidere ai preposti, professionisti, tecnici, gente pagata per questo?” “Eh, Giuseppì… Mica tutti so’ capaci! Se tutti gli uccelletti conoscessero il grano, povero contadino!”. “E solo la figlia mia il grano lo deve conoscere? E solo lei viene beccata dal contadino, che se la cucina poi bene bene dentro al sugo per la polenta?”.

Alba non diceva una parola. La mente viaggiava verso il ricordo di quel “no” forte e imperioso che aveva sentito a Roma, dopo il sisma, e a quei pensieri che l’avevano riportata qui. “La mia città è distrutta, i miei amici, i miei parenti, tutti quelli che ci stanno dentro. Io non posso stare in nessun altro posto che questo, tutto mi chiama. Anni passeranno, e passeranno decenni. Questo sarà il baluardo, il fronte. Qui la vita ha il suo significato. Qui si può pensare alla terra, curarla. Qui si può ritagliare un angolo. So che non dovrei lasciare gli studi, il lavoro, la grande città, tutto quello per cui ho faticato finora… E’ che non riesco a non farlo. La mia città è ferita a morte, ha bisogno di cure. Qui… io… sono… io sono… felice!”.
Il telefono interruppe il flusso dei pensieri: Alba rispose subito, disse qualche monosillabo, poi riappese. “Inizia il torneo, vi saluto, devo andare” disse, come se si fosse riaccesa all’improvviso.
“Ma che torneo?”
“Battaglia a palle di neve”.
“Che? Battaglia a palle di neve?”
“Sì, facciamo una festa alla neve”
“Una festa alla neve? Ma se questa nevicata ha messo in ginocchio tutta la città!”
“Non tutta”
“Ma che dici Alba? … A che ora torni?”
“Quando finisce la festa alla neve. La neve che pulisce, purifica, nutre la terra”
“Ma figlia mia, tu te ne stai a uscì, te stai a impazzì! La neve impedisce il passaggio, le cure, rovina i pochi palazzi rimasti… la neve è una disgrazia!”
“Per voi è sempre una disgrazia: sia che nevica, sia che non nevica. Perché neanche la guardate, la neve. Guardate solo la strada asfaltata che vi deve portare dove non serve andare. E tutto quello che vi limita in questo trasporto, il sole, il vento, l’afa, l’acqua, la sabbia e la neve, tutto quello che vi sciupa il vestito è solo… è solo… qualcosa che vi sciupa il vestito”.
“Ma quale vestito? Ma che stai a ddì, figlia mia, vieni qua, tu stai male!”.
La maestra Giovanna prese Giuseppina per il braccio e la tirò a sé. “Lasciala stare, Giuseppì. E’ sconvolta dalla notizia, su… E poi è l’età, deve passare”. “Ah! – esclamò la povera madre – e quando sarà passata, che cosa si ritroverà in mano, Alba? Te lo dico io! Solo acqua! L’acqua delle palle di neve!”…

Ma Alba in quel momento era lontana, camminava e vedeva il futuro: sé stessa, il suo ragazzo, i suoi figli, quei figli nati dal terremoto del 2009, e dalla nevicata del 2012.

I figli, quelli che l’estate era estate, l’inverno era inverno.

Quelli che avrebbero ricostruito L’Aquila.

 

L’OSPITE

Finalmente Carlo si era sistemato come meglio poteva: finalmente questo terzo inverno l’avrebbe trascorso nel calore di quella che amorevolmente lui chiamava “la baita”.

Il villaggetto di casette di legno era uno dei tanti villaggetti sorti nell’immediato doposisma, un po’ spartani, spuntati come funghi per gestire l’emergenza e poi rimasti come dimore più o meno stabili, visti i tempi lunghi della ricostruzione. “Bella eh!” disse Carlo al vicino di baita, indicando orgogliosamente la palizzata di legno della recinzione, perfettamente in tinta, fresca fresca di pittura. “Bella, bella!… Bravo! Pure io la voglio fare in tinta con il resto della baita! Se ne parla a primavera, però. Adesso mi voglio godere le vacanze di Natale in santa pace!”.

Aveva fatto proprio un bel lavoro, Carlo, quel giorno: il freddo gli aveva quasi cotto le mani, provava la stessa sensazione di quando da piccolo tirava gli attacchi degli sci con le mani gelate. Stessa sensazione, quarant’anni e un terremoto dopo. Aveva spennellato tutto il giorno la palizzata pensando a Karate-Kid e ora, stanco ma felice, si accingeva a infilarsi a letto. Il caldo del piumone era intriso dell’odore del mordente e l’aria era pregna del sentore del legno, avvolgente, calda… Gli occhi gli si fecero pesanti… le palpebre iniziarono a chiudersi come saracinesche. Ma, sul più bello dell’abbandono, proprio dentro all’orecchio, schioccò, all’improvviso… un suono piccolo piccolo ma chiaro e distinto: “CRUNCH”. Sì…. proprio così: “Crunch”! Gli occhi si spalancarono immediatamente. “Crunch?” Una grondata improvvisa di sudore affermò impetuosamente quello che la mente negava con assoluta decisione. CRUNCH CRUNCH CRUNCH. Poi silenzio. Il suo sesto senso gli urlava senza alcun dubbio: “QUI DENTRO C’È UN TARLO”. Carlo restò terrorizzato dall’orrendo sospetto, mordendo il piumone e battendo i denti. Quali ataviche paure può mai scatenare un coleottero nella mente di un uomo adulto e consapevole? Che male può fare una piccola farfalla? Poco o niente, in verità: è solo che un tarlo dentro una casetta di legno situata dentro un villaggetto di casette di legno è come un’ape in un campo di fiori, un bifidus nello yogurt, un virus nella calca della fiera della Befana, l’orso Yoghi nel cestino della merenda. Un altro CRUNCH evocò, nella mente di Carlo, fumetti di Walt Disney e storie di Paperino in cui le termiti divoravano all’istante il letto del povero papero mentre ci dormiva dentro, facendolo finire su un mucchietto di segatura. Il fatto è che in quella casetta di legno c’erano tutti i soldi di Carlo: aveva venduto per comprarla, aveva fatto gli accomodi, curato i particolari, la veranda, i mobili su misura, la stufa di ghisa, perfino la Iacuzzi. “No, non può essere. Le casette di legno vengono trattate, mica sono fatte di truciolato!?! Ci sarà una garanzia, suvvia! Ci sarà, nel peggiore dei casi, un trattamento, una disinfestazione! Sì, sarà così… deve essere così. Ora dormo, domani ci si pensa”.
Si girò dall’altra parte e si addormentò, in un turbinìo di pensieri e di preoccupazioni, la più seccante delle quali confluiva nel sorriso beffardo della sua ex-moglie, Alberta, che aveva cercato di dissuaderlo in tutti i modi da quello che lei definiva un “incauto acquisto”. “Come si sta ad Auschwitz?” Si informava di tanto in tanto Alberta, per telefono, così, giusto per sfottere un po’. “Vi fanno fare l’alzabandiera, la mattina, al villaggio? Ehehehe .. C’è pure il capocampo della Protezione Civile che suona la tromba?” Oppure, cavalcando la vena telefilmica: “Chi di voi ha vinto la candidatura per girare La Casetta nella Prateria?” Altre volte andava sul genere western, tipo: “Quando apre il saloon?” Ma il sugo della storia era sempre questo: “Come fai a vivere lì, tu che hai sempre abitato in Via ed Arco delle Terziarie?”. Alberta non avrebbe mai accettato il compromesso di quelli che si erano adattati nelle periferie. Piuttosto sarebbe morta nella consapevole precarietà di una bidonville ai margini della Zona Rossa, pur di non vivere nell’illusoria stabilità campestre del villaggetto degli Hobbit, sedia a dondolo e pipa in bocca. Nella mente di Carlo, in quella notte piena di paure, la faccia di Alberta si confondeva in modo inquietante con quella del tarlo.

Il giorno dopo, intorpidito dal freddo e dalla preoccupazione, il nostro eroe telefonò al precedente proprietario della baita e gli spiegò la questione. Naturalmente quello cadde dalle nuvole. Scava e scava, di passaggio in passaggio, si risalì al fatto che il villaggetto era nato come struttura provvisoria, che le casette non erano state costruite per durare, che il legno non era trattato, che i costi iniziali erano stati bassi ma che poi, perduta velocemente la memoria di tutto ciò, dai primi acquirenti ai secondi ai terzi le casette erano finite a prezzi di mercato, come le vere case di legno. Come si suol dire… “quella, la carota…”. Com’è che il tarlo non stava nelle casette nate a sfizio per farci il barbecue a fianco dei villoni? Com’è che il tarlo non stava nelle dependance abusive nate per farci le festicciole? Colpa della carota! Parecchi aquilani rimasti in mezzo a una strada avevano investito su quelle sistemazioni “autonome” come fossero definitive, per morirci dentro: i loro figli, chissà quando, avrebbero potuto recuperare la muratura, i loro figli avrebbero dovuto ripescare il bandolo della matassa tessuto dai nonni e dai bisnonni, superando una (forse due) generazioni di arraffa-arraffa. Carlo, gli altri come Carlo, potevano solo resistere, tenere accesa la fiaccola, non mollare il fazzoletto di terra sotto ai piedi. La saggezza popolare di costoro non ripose mai alcuna fiducia nei potenti, belli che sistemati al calduccio di case vere.

E così, abbandonato da Dio e dagli uomini, Carlo, dopo un paio di giornate infernali in cui meditò di mollare tutto e mettersi a fare il cacciatore di cinghiali, si piegò infine docilmente a fare l’unica cosa ragionevole: digitare su Google la parola “TARLO”. Due giorni dopo, preventivo alla mano non proprio leggero, si presentò alla baita una squadretta di ghostbuster in tuta bianca, mascherina e attrezzi del mestiere. Invitarono il povero Carlo a farsi da parte e gli dissero di tornare a tarda sera.

I vicini iniziarono a canzonare: “Oh, Carlo, ma ti sei comprata la baita con l’ospite? Ehehehe…. Gli fai pagare l’ICI??? Ahahaha”. A vederlo darsi da fare, così affannato e preoccupato, tutti si affacciavano sull’uscio e lo chiamavano: “Ehi, Tarlo! Ops… Carlo! Ahahaha”.

Ridete, ridete” diceva lui ai vicini strafottenti “secondo me io faccio in tempo a  immunizzarmi, ma voi?? Secondo me… no! ahahahah!”.

Dopo le prime risate, anche i vicini vissero progressivamente le stesse fasi del tarlo di Carlo. Perché quelli, i tarli, si sa… volano! Dopo la negazione ci fu il dubbio e poi la certezza. Poggiarono l’orecchio sulla parete e …..“CRUNCH!”. Anche per loro. La psicosi del tarlo si diffuse a macchia d’olio, nessuno più riusciva a dormire. CRUNCH CRUNCH CRUNCH CRUNCH! Sembrava una maledizione, danni e beffe a ripetizione! E prima il terremoto e poi le C.A.S.E. e poi la crisi e poi le liti tra ingegneri e Comune, tra Comuni e Commissari, tra ingegneri e condomini, tra ingegneri e amministratori di condominio! E infine lo spread, i tagli, addio ai soldi per la ricostruzione. E pure quando uno, esasperato, si organizzava una bella baita per conto suo e mandava tutto e tutti a farsi fottere e decideva di mettersi a fare il cacciatore di cinghiali… esso fatto… CRUNCH!. La vita superava la fantascienza: Alien.. La guerra dei mondi…. Visitors… un incubo. Carlo sognava quel tarlo appoggiato sulla bocca, grande come la farfalla del Dottor Lecter. Gli abitanti del villaggetto, alla fine, si erano coalizzati in questa nuova guerra da combattere, dopo le mille altre battaglie perse dopo il terremoto. “A testa alta, quatrà, e acqua in bocca! ‘stu cazz’ ‘e terramotu! Di gente che rrìe ne sémo sintita pure troppa, mo’ ci manchéa pure ju tarlu…. Stétese zitti… e jemm’ ‘nnanzi!”. Si parlava dei tarli solo con chi ce li aveva: “meglio invidiati che compianti”, dice il proverbio.

Gli abitanti del villaggetto misero in atto tutte le strategie per annientare il divoratore di casette. Il primo tentativo andò male. CRUNCH CRUNCH CRUNCH. Il tarlo era al suo posto, alla faccia dei gosthbuster. Secondo tentativo suggerito da Google: smontaggio e spennellata. Carlo si trasferì per due giorni da Alberta, mentre una nuova squadra di gosthbuster dava la caccia alle farfalle e soprattutto alle loro uova. Inutile anche questo. Terzo tentativo: il microonde. Stavolta le avrebbero cotte senza scampo. Prezzi scontati (si fa per dire) da parte della ditta, dato il numero consistente di casette da disinfestare.

Quasi mezzanotte, ormai, qualche giorno dopo. Il vicino di baita era uscito a fumare e a salutare Carlo con due bicchieri in mano, nonostante il freddo pungente e il discorso di Napolitano in televisione. “Allora, Carlo… che ne dici? Pensi che ne usciremo?”. Carlo mugugnò: “Mmmhh…Dunque… le uova si schiudono ogni 6.5 settimane, il che fa almeno 8 deposizioni, e il numero delle femmine aumenta del numero di Eulero elevato al numero delle settimane, meno 0.393111, che è il coefficiente basato sul tasso di natalità del tarlo: perciò a tutt’oggi ci sono e^8-0.393111, vale a dire: 2012 femmine pronte a deporre circa 50 uova a testa: sì, duemiladodici!” …. Manco a farlo a posta! “PUM!!! PUM!!!! PUUUMM!!!! BUON DUEMILADODICI A TUTTIIIIIIII!!!!” fu il coro di voci festanti da tutte le casette. Il vicino di baita gli porse il bicchiere: “Buon anno, Cà” . Carlo e il tarlo erano tutt’uno, ormai: gli era entrato nella testa. “Salute, auguri!” ….“Cin-cin!”… “Prosit!!!”.

Da lontano, altrettanto festoso, un sommesso e impercettibile…. “CRUNCH”.

LA VITA NELLE COSE

Il testo è un flash-back, scritto in un paio di ore, un giorno in cui ho deciso di raccontare la demolizione di casa mia, avvenuta il 4 ottobre 2011 ad opera dei Vigili del Fuoco.
La mia casa era inclinata di 12 centimetri.

 

Mentre guardavo desolata intorno a me, il Vigile del Fuoco si girò di spalle.
Ebbi la sensazione di quando il veterinario chiede a John Grogan: “Vuole che vi lasci da soli un attimo?” prima di praticare l’iniezione letale a Marley.
Diversamente dal veterinario, il mio Vigile del Fuoco non poteva andarsene, non poteva lasciarmi lì dentro da sola, doveva assistere all’ ultimo saluto alla casa.
Mio fratello mi dice: “Non vuoi portare via qualche altra cosa?”. La voce per rispondere non mi usciva: piuttosto sentivo risuonare, in quel corridoio, feste e voci e giorni di pasqua e di natale, e la figura di mio padre, e i giocattoli, e cose, cose, cose. Di quando Dino sbatté la fronte sul termosifone per colpa mia. Di quando mi comprai due pulcini colorati che scorrazzavano ovunque. Di quando con la mia amica Paola comunicavamo con due telefonini rossi di plastica calando il filo dalla finestra del bagno. Di quando passavamo ore e ore nell’atrio del palazzo a cercare le mattonelle storte…
No, va bene così, grazie” ho detto al Vigile.

Dopo un attimo, Dino torna dalla cucina con due sedie, una per mano: due sedie di castagno, non antiche, solo “vecchie”, come uscite dalla soffitta della Signorina Felicita, due sedie di castagno stile country, un po’ sgangherate, me le ricordo da sempre. E poco dopo, con la stessa espressione di Dino, mi si avvicina anche il Vigile del Fuoco, ma lui ha in mano un orologio a muro, lo ha spiccato dalla parete di fronte, me lo porge, perché io lo prenda. Non dimenticherò mai quella faccia, quella mano che trema, e chissà quante volte gli era capitato di fare la stessa cosa, per altri, prima di ogni demolizione.
Presi l’orologio, mi aiutarono a portare giù le due sedie.
Dissi addio, mandai un bacio, lasciai la porta aperta. Non per la casa, per la vita, che non demolisse con lei.
Poi mi rimproverai un po’: da quando? Da quando questo attaccamento alle cose? Perché? La rifacciamo! La rifacciamo più bella! La rifacciamo che non si inclina più!”. Poi capii che non era quello, era la vita, era chi non c’è più, era i 309, era i palazzi antichi, era gli avvoltoi che mi ruotano in testa da quasi tre anni ormai, profittatori della fragilità e della debolezza, era che non tutti capivano, era che il mio è sempre il lato sbagliato della strada. Era il dolore di mio padre, che sentivo dall’aldilà, per quelle care cose, per quegli oggetti, messi qui da lui a uno a uno, era il dolore di mio padre, che se ne andava un’altra volta, insieme a quegli oggetti che io stavo lasciando lì al macero tra le macerie.

Mi ritrovai per strada, due sedie, un orologio, e non sapere che fare.
E mo’ queste ddò le metto, ché a casetta, se entrano loro, esco io?
E così le portai da Patrizio. “Me le tieni, Patrì? Magari un giorno me li ridai, chissà… “.
Patrizio è uno di quelli che con le cose ci parla. Conosce il legno, il marmo, conosce gli impianti elettrici e l’argilla, i tubi e le tegole dei tetti. Solo gli zotici non capiscono che le sue sono mani di artista e che il suo cuore è un cuore di poeta.
Patrizio mi capisce subito, non devo spiegare niente, non devo giustificare che non sono sedie antiche ma solo vecchie, lui capisce, abbraccia le sedie come due bambini, se le mette in macchina e poi abbraccia me, desolato… Sì che capisce, lui.

Passa un mese.
Ieri sera suonano alla porta di casetta, apro, e davanti a me ci sono le due sedie, belle, lucide, rimesse a nuovo, come appena uscite dal falegname. C’è sopra un biglietto: “Sono contento di aver contribuito, con il mio intervento, a preservare questi due oggetti, che tu, con il profondo rispetto che nutri verso di loro, hai voluto salvare, legata ad essi da ricordi cari e lontani”. Leggo, non faccio in tempo a dire “ma….” che dall’ombra sbuca lui, Patrizio, ridente con quella faccia da birbante. “Ti ho portato a salutare le bambine!”.
Le cose… Le cose, loro, non hanno valore. Ma hanno il pregio di avere un’anima che unisce le persone. O le divide per sempre.

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Bob Dylan – If you see her say hallo

COLAZIONE DA PIZZOLI

Il racconto nacque da uno stralcio di conversazione ascoltato furtivamente in un bar.
 

“Nomina sunt consequentia rerum”. Questa frase, scritta su una targa di metallo, era appesa sulla porta di ogni aula dello stimatissimo professor Domenico Scassa. Era una frase antica, con cui l’anziano professore di Latino probabilmente intendeva stupire i suoi studenti, ripetendola e spiegandola all’inizio di ogni anno scolastico, come fosse la tavola di Shutruk Nahunte. Purtroppo ciò non era sufficiente per ottenergli, come al Signor Hundert, la stima dei suoi studenti, che ridacchiando riferivano la frase esclusivamente a lui, Domenico Scassa, che con il suo latinorum, “scassava” di nome e di fatto. Un po’ per l’età, un po’ per la botta del terremoto, che gli si era preso tutto, fatto sta che il vecchio professore non si rassegnava a vedere a soqquadro la geografia ordinata della vita precedente, e questo lo rendeva assai pesante. Domenico Scassa aveva sempre odiato i cambiamenti, perciò nei due anni seguenti il sisma del 6 aprile 2009 aveva fatto un sacco di capricci. Ma ora basta, avrebbe messo la testa a posto e avrebbe fatto il bravo: hic et nunc, doveva adattarsi, stabilizzarsi, fermarsi, come erano riusciti a fare quasi tutti. In parole povere, sarebbe rimasto a Pizzoli finché non fosse tornato a casa sua. “Casa mé”, diceva ogni tanto, battendosi il petto. “Casa mé… Rivòglio càsa mé…”, diceva emettendo una strana cantilena, quasi in metrica, come, come quei Tityre tu patulae recubans che scandiva da trent’anni. La gente di Pizzoli pensava che non ci stesse più tanto con la testa. Ma “casamé”, per tanti aquilani, era ben più che la casa, “casamé” era un concetto, era il quartiere distrutto. Per lui, per esempio, era la villa comunale, a due passi dal centro storico, appena dentro Porta Napoli, ricca di verde e di case deliziose, gente serena, viali profumati di tiglio, il mini-market “DA LUCIANO”, dove il professore correva prima di  pranzo quando gli mancava il pane o la scatoletta di cibo per il gatto. In questi tre anni Domenico Scassa non si era mai rassegnato ai megastore di periferia, dove gli infilavano la spesa nelle buste mollicce e puzzolenti di plastica biodegradabile. Scassa rivoleva il cartoccio profumato che Luciano gli passava con le mani tozze, dicendogli, con gli occhi che sbucavano tra le foglie di sedano, “… Professò, ecco qua, buon appetito, a Lei… e pure aju jattucciu!”. E lui a mezza bocca biascicava “Eh che te pòzzino Lucià, pure stavolta m’hai fregato un paio di euro, eh, scì ‘mpisu!”. I negozietti del centro avevano sempre i prezzi un po’ più alti dei supermercati, è vero, ma ora avrebbe pagato volentieri quei due euro a Luciano, e chissà dove aveva riaperto bottega, Luciano, magari era morto, chissà, se n’era andato via come il suo vecchio gatto, che se l’era preso il terremoto, e non s’era rivisto mai più.

Il professor Scassa, ingraziadiddio, si sentiva proprio bene, in quest’ultima delocalizzazione. Dopo Cansatessa, Arischia e Barete, finalmente era approdato a Pizzoli, in una bella casa antisismica. A un paio di chilometri dal centro abitato, verso la statale, c’era uno splendido bar in perfetto stile post-sismico: tetto di legno aerodinamico, gioco di specchi, strane pareti luminose tipo astronave di Star Trek. In questo preciso momento, come ogni domenica, il povero professore stava ordinando la sua colazione, cornetto e cappuccino. “Mmmh… A questo bar manca la stratigrafia!”. Il professor Scassa chiamava “stratigrafia” quel fenomeno per cui un luogo antico, anche quando viene ristrutturato e ammodernato, mantiene l’anima precedente. “La senti veleggiare sul soffitto, l’anima della casa, non è un fenomeno spiegabile fisicamente, ma non c’è da fare, gli ammodernamenti si stratificano uno sull’altro come gli undici strati di Winckelmann, e l’undicesimo mantiene qualcosa del primo! E’ incredibile, la fisica non lo può spiegare, e questo dimostra la superiorità delle discipline umanistiche su quelle scientifiche! Altro che ingegneria!”. Il vecchio professore si sistemò nell’angolino più riparato dell’astronave, su una sedia che Spok avrebbe certamente gradito, contrariamente a lui. La tazza davanti, il cornetto in mano. Abituato alle colazioni storiche dei bar storici, non riusciva a non sentire quello spazio circostante premergli addosso impertinente, proprio come gli succedeva in Autogrill. “Mmmh… Qui c’è solo uno strato! Come si sente… Ma, ohibò ci vuole spirito pionieristico! Verranno altri strati, un domani! Non sarà mica una struttura provvisoria, una di quelle che andranno dismesse quando tutto tornerà come prima?”. Sentì immediatamente un’eco nella testa (“… come prima?… come prima?… come prima?… tornerà come prima?…”). Addentò delicatamente il cornetto proprio nel punto in cui c’era più marmellata. “Probabilmente questo bar è un non-strato che non stratificherà mai. Ma non devo pensarci, devo vivere! Hic et nunc!”. Si impose di concentrarsi solo sulla marmellata di ciliegie… Proprio mentre il boccone iniziava a liquefarsi e ad esplodere in tutta la sua succulenza, rivide in un flash l’antica casa paterna: San Sisto, e suo nonno davanti al ciliegio appena fiorito. Suo nonno che si mette il cappello, la giacca buona e dice con aria solenne: “VADO ALL’AQUILA!”, perché all’epoca era un viaggio assai difficile e delicato, da San Sisto all’Aquila. Ridacchiò,  pensando che poi invece San Sisto era diventato un bel quartiere quasi centrale: la città se l’era mangiato. “Questo è il processo naturale: che la città si mangia l’intorno! Oppure è l’intorno che si mangia la città?”. Poi si ricordò che la città non c’era più. E’ che Domenico Scassa si sentiva sbalzato via come un grave in forza centrifuga, come fosse uscito da un frullatore acceso senza tappo, come un pilota di Formula Uno espulso dall’abitacolo… Per un attimo, si concentrò sullo stato di ubriacatura dettato da questa condizione di sbandamento. “Eh no” si incitò subito “no, no! Hic et nunc! Pensa al cappuccino!”. Magnifico, spumoso, lo girò con il cucchiaino, prima di appoggiare le labbra alla tazza e lasciarsi stupire come sempre. “Tutto deve cambiare, perché le cose restino come  prima!”. Mentre si consolava con la filosofia gattopardesca, si sentì chiamare alle spalle: “Buongiorno proessò, fa colazione?”. Era Giovanni Coccia, un suo alunno.

“Coccia, da dove sbuchi? Stai delocalizzato qui?“

“No, io sto a Tornimparte proessò! Qua ci stanno delocalizzati i miei nonni.”

“Eh, eravamo vincoli e ora siamo sparpagliati, direbbe Totò. E a che Tornimparte stai?”

“Sto un po’ isolato tra San Nicola e La Villa!”

“Tra San Nicola e Villagrande? Coccia, San Nicola è San Nicola, Villagrande è Villagrande: VILLA-GRA-NDE, non si chiama La Villa! Ma perché la chiamate La Villa? Le cose hanno un nome, bisogna dargli il loro nome, è importante! Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus!” recitò, alzando in aria l’indice e sgranando gli occhi “E’ il nome che fa esistere le cose! E’ il nome che le mantiene vive!”. Ma Coccia se n’era già andato imprecando. “Ma sinti che tenga sintì…San Nicola è San Nicola, Villagrande è Villagrande… ma jamo!… Ma pure ecco tà scassà, Scassa?… a quissu non ji basta la scòla, pure fòòòòre…”.

Il professore si ripulì dalle briciole, ultima parte del rituale mattutino. A un tratto, gli si avvicinò un signore che, con piglio confidenziale, cercò di avviare una conversazione: “Scusi… per caso noi… ci conosciamo?…”. Scassa cercò subito di sviare, ma quel signore insistette, precisando qualche particolare. “Io faccio il meccanico”. “Io no!” rispose il professore, un po’ imbarazzato. Si sforzò di trovare qualche aggancio alla conoscenza, ma solo per poter chiudere velocemente la conversazione. “Forse… siamo vicini di casa?” disse timidamente, pensando ai numerosi vicinati degli ultimi due anni. “Ah! Può essere! Lei di dove è?”. Pausa. Questa domanda accese in Domenico Scassa un’emozione fortissima. “Lei di dove è?”: significa nella vita precedente! La speranza, il ricordo… un effetto-Ungaretti (…di che reggimento siete, fratelli?) così evocativo da portarlo a rispondere con entusiasmo, come sperando che fossero stati vicini di casa, una volta, nella vita ordinata, e che per un attimo quell’ordine potesse essere ripristinato nel ricordo comune. “Io sono della villa!” disse Domenico Scassa, quasi abbracciando il meccanico, trattenendosi a stento, e pensando alla villa comunale dell’Aquila, ai giardini pubblici, ai tigli di viale Crispi, a Luciano in mezzo al sedano, e lo ripeté due volte perfino: “Sono della villa! Sono della villa!”. “Ecco, lo vedi, ora si spiega tutto! – disse soddisfatto il signore, dandogli una pacca sulla spalla. “Tu sei della Villa, io so’ di San Nicola!”.
“Eccerto” sospirò Domenico Scassa. E rimase lì, come un pezzo di frullato spiaccicato sul muro luccicante dell’Enterprice. Dopo un po’ si mise il cappello, la giacca nuova, e disse con la stessa aria solenne di suo nonno: “VADO ALL’AQUILA”.

E non lo rividero più.

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E NON LO RIVIDERO PIU’…

E dire che era nato con la camicia. Ottima famiglia, buona condizione economica, laurea, dottorato, buon impiego, vita discreta, famigliola, giardino, cani, gatto, pesci e tartaruga. Ogni cosa era al suo posto quando L’Aquila, la sua città, andò in mille pezzi come il vetro di una finestra sfasciato da un pallone. Ed eccolo lì, con una borsa di stracci raccogliticci, in mezzo a una strada.
Che fare? La polvere dei crolli non si posava ancora, tutti erano attoniti e frastornati dalla tragedia, ma lui non ebbe alcun dubbio: l’unica soluzione era andarsene. “Non passerò neanche una notte in una tenda della Protezione Civile. Mai, neanche per idea”. Piuttosto avrebbe riesumato in qualche angolo del garage l’attrezzatura da montagna di quando era giovane. Sarebbe entrato di straforo in quel dannato garage, nonostante l’assoluto divieto di avvicinarsi agli edifici inagibili e avrebbe recuperato la sua vecchia tenda. Magari, se gli veniva a tiro, avrebbe portato via anche l’armonica e avrebbe iniziato una vita on the road come Jack Kerouack. O avrebbe dato fondo alle sue memorie di birdwatcher, con la sua Vera Tolfa a tracolla avrebbe camminato in montagna, costruito un capanno, si sarebbe nascosto lì… Ma la tenda da otto, da sedici, la tenda con la gente mischiata, la tenda con le mutande degli altri appese in giro, no. Fu tuttavia ragionevole, le prime notti le passò in macchina. Poi si decise e parlò fuori dai denti alla sua famiglia: “Io me ne vado”. “E dove vai?” “In campagna, lontano da qui”. Carlo, come tanti altri, in quel momento vide solo questo. “Allora buon viaggio”, gli disse laconica Alberta, con la quale aveva mantenuto ottimi rapporti e che pure era stata invitata alla fuga. Se mai ci fosse stata qualche speranza di riconciliazione, quella fu l’ennesima e definitiva cesura, con annessa ripetizione di ciò che le mogli dicono sempre ai mariti: “Tu non crescerai mai”.

E così Carlo se ne andò a 50 chilometri dalla città.

Il suo sogno di libertà si infranse poco dopo, quando fu precettato: gli aquilani dovevano tornare a lavorare, non dovevano lasciare le sedi, gli uffici, e dopo una breve pausa di compensazione, tutti ripresero i loro posti di combattimento per impedire la morte della città. Carlo avrebbe avuto pur sempre un’alternativa: farsi distaccare in altra sede, tipo Pescara, Teramo, Avezzano, cosa che fecero in molti, in verità: ma era un po’ difficile, per il nostro, perché il posto più vicino a quello in cui aveva scelto di abitare restava pur sempre L’Aquila. La condanna ricominciava, una condanna senza fine, poiché tutto era stato spazzato via, tranne quel maledetto foglio delle firme di presenza. Non restava che adeguarsi. “Qualcosa succederà”.

E accadde che una strana smania iniziò ad impossessarsi di lui. Senza casa, senza nessun oggetto del suo passato tranne la sparuta attrezzatura da campeggiatore, i libri di Castaneda e Tarantula, Carlo fu assalito prima dal timore, poi dalla certezza, di essere irrimediabilmente cambiato. Le “cose” non avevano più alcun valore per lui: ne aveva perse troppe. Iniziò a vestirsi senza più la cura di una volta, sentiva un piacevole senso di liberazione da tutte quelle trappole sociali che sempre –diciamolo – gli erano state strette. Il terremoto giustificò con gioia l’assenza di cravatte di ogni tipo, e non solo per lui, anche per tanti altri che con ostinazione continuavano ad autodefinirsi orgogliosamente “terremotati”. Solo chi era rimasto in casa propria continuò a fare le gare di habillés tipicamente aquilane. D’altra parte, si dice che “J’Aquilanu non magna pe’ vvestissi”. Non c’è da stupirsi, dunque, se fu una vera liberazione uscire dallo squallore della competizione quotidiana, dell’ostentazione della stupidità delle maglie griffate. Un ritorno all’essenziale. La ridicola corsa al capo firmato, la caccia alle scarpe di Casette d’Ete e alle maglie di Valmontone, apparivano ora ai suoi occhi comportamenti ancora più idioti che nella vita precedente, insulsi, come la riportata dei capelli sulla testa di un calvo. Uno i capelli o ce li ha, o non ce li ha: ogni finzione è assolutamente ridicola.

Passò un anno. Il cambiamento sociale fu sconvolgente. In una città fatta solo di periferie, le uniche coordinate possibili erano quelle di attività commerciali. Tutti i giorni, quando Carlo arrivava davanti al negozio di generi alimentari rumeno, accendeva il navigatore della Volvo. “PERCORRENDO VICOLO”, diceva quasi sempre la mappa. Erano strade senza nome, strappate alla campagna. Vendette il navigatore per cinquanta euro a Zoran, un ragazzo macedone della ditta delle pulizie del San Salvatore, che glielo aveva chiesto tempo prima e che iniziò a sistemarlo entusiasta sul cruscotto, mentre lui se ne andava incurante. “Percorrendo vicolo”. La giornata non gli bastava mai, le distanze erano incolmabili. Doveva tagliare ancora, tagliare, tagliare, tagliare!

Passò un altro anno. Dopo aver preso parte a quarantadue inutili assemblee di condominio, Carlo decise di svendere il suo appartamento alla Società F.o.t.t.e.c.a. Comprò una casetta di legno a 15 chilometri dall’Aquila, tra Pizzoli e Marruci, in aperta campagna, che Alberta amabilmente battezzò “la rimessa degli attrezzi”. Non c’era neanche la linea telefonica. La chiavetta Internet prendeva poco e male, e così Carlo finì per rinunciare anche a quell’unico, ultimo baluardo della sua socialità. Fu fare di necessità virtù, ma apparì a molti come un lottatore, uno che resiste alla sorte a testa alta, uno che “regge i colpi”. “Che mi perdo stasera? – pensava dalla casetta di legno – Minzolini? Saviano? Ah!… Mmmmhh…E ieri? Che mi sono perso ieri? La cantatrice calva? Gli speciali di Quark? Ah!… Mmmmmhhh…”. Mentre i più vivevano studiando le Ordinanze quotidiane e vendendosi per una casa-pollaio, lui, il Tiziano Terzani de noantri, il Mauro Corona de Madonna Fore, voleva solo sparire da lì. Tutto questo lo rese assolutamente trandy. All’Aquila, come si dice, ti invidiano pure la sfiga.

Un giorno Alberta lo incontrò al Cermone, si vedevano sempre più di rado, così lei suonò ripetutamente il clacson e gli fece cenno dal finestrino di fermarsi.
“Come stai?” gli chiese, preoccupata dal suo aspetto inselvatichito. Lo trovò tuttavia in buona salute, abbronzato e tonico, certamente per la nuova vita all’aria aperta. Notò non senza stupore un piccolo tatuaggio che spuntava dalla manica della maglia, ma resistette alla tentazione di guardare che cosa raffigurasse, per non metterlo in imbarazzo.
“Sto benone! E tu?”
“Mi difendo” rispose lei, con malcelata curiosità. Certo lui le sembrò più felice.
“Come mai non passi a trovarmi?”
“Eh… Sai.. Quindici chilometri… il traffico… Tu mi conosci”.
“Hai bisogno di niente?” gli chiese lei, più per forma che per convinzione.
“No, grazie… Tu se hai bisogno chiamami, che arrivo” disse lui a sua volta, più per forma che per convinzione.
“Ma dov’è la Volvo?” chiese lei stupita, conoscendo l’attaccamento del marito a quella macchina.
“Venduta. Si rovinava su queste strade”.
“Ah.. Capisco…”.
Carlo risalì sulla sua Skoda cassonata simil-pickup, e prese a tutta birra per una strada bianca, alzando dietro di sé una nuvola di polvere.

E non lo rividero più.


B B King – You ‘re going to miss me

DE INCURSIONE CIVICA

Il racconto è la storia di una violazione di transenne. Ecco perché la premessa.
 
 

ATTENZIONE: QUANTO QUI NARRATO E’ DA CONSIDERARSI RACCONTO DI FANTASIA. ENTRARE IN ZONA ROSSA E’ INFATTI UN REATO PERSEGUIBILE.

 

“Non ho mai infranto deliberatamente la legge in vita mia.

Le leggi tutelano i cives, le leggi sono espressione di democrazia. Le leggi sbagliate devono essere cambiate dai cittadini che in esse non si riconoscono, con gli stessi strumenti che quelle leggi hanno emanato. La testa mi ripete tutto questo, ma stavolta non ce la faccio. Annalisa mi dice: “Andiamo”, e qualcosa nei piedi non riesce a fermarsi, qualcosa nei piedi mi porta senza che la testa riesca a fermarli. Quel qualcosa nei piedi mi porta e non riesco a dire di no, come ho fatto finora. Le leggi tutelano l’incolumità dei cittadini, ma io ora non voglio essere tutelata, la mia salute ha ora un’altra priorità, e la priorità ora è VEDERLA. E’ passato troppo tempo, lei mi manca. Voglio passare dove prima passavo, voglio camminare lì in mezzo, mi manca, mi manca come l’aria buona, mi manca come un pomeriggio di shopping tra i vicoli antichi, mi manca come la biblioteca, mi manca come la sala Patini, mi manca come il pane uscito dal forno, mi manca come una vita precedente. Mi manca. E i piedi vanno, come portati dai pedali di un bicicletta in discesa. Gli occhi vogliono vedere, le mani vogliono toccare. I miei concittadini lo fanno da sempre, voglio farlo pure io. E’ il mio turno, e mi va di raccontare com’è. La pioggia torrenziale di questi giorni avrà fatto altri danni, starò attenta ai balconi e ai cornicioni, non posso farci niente, e più cammino più aumento il passo, il cuore è già dentro. La transenna lascia un varco giusto per infilarsi, chissà in quanti l’hanno varcata prima di me e quanti lo faranno dopo. Basta, è fatta, sto dentro.
Vengo ingoiata dal buio, uso la luce del telefono. Lei è morta, sventrata, puntellata come il cadavere del capo di una tribù italica in battaglia, sostenuto sotto le ascelle per incutere coraggio all’esercito, timore al nemico. E’ incazzata. E’ nera di rabbia, o così io la “sento”. Le strade sono pulite, le macerie sono ammucchiate ordinatamente in piccoli punti di raccolta. Sarà piena di veleno per i topi, immagino, oltre che di ethernit volante. Esploriamo una piccola zona. Sto meglio. Come quando vai al cimitero, è una cosa che non serve a niente ma se ci vai ti senti meglio, ogni tanto devi farlo, per te. Un piccolo giro, sapevo già tutto, ho visto tante foto, ma toccare è altro, non si manda qualcuno al cimitero al posto nostro.
“Ok, il giro è finito, usciamo, dai…”. L’ultimo flash della macchina fotografica… Troppo sparato, si vede lontano un miglio… Ci beccano. “ALTOLÀ!!!!!”. Da lontano, qualcuno grida. Restiamo impietrite. “Porc…Ecco fatto. Ci vanno tutti, ma beccano solo me, porca miseria”. Ci giriamo lentamente, scena vista in tanti polizieschi, tanto ormai qua è tutto un film. Da lontano, una torcia puntata sulla faccia. “Fermatevi!” tono secco e deciso, ma non da far paura. Pensiamo: “E chi si muove?”. Si avvicinano. “E’ fatta, una denuncia, che vergogna, è la mia fine. Ma venderò cara la pelle, farò una crociata che se la ricordano a vita, mi incateno ai cancelli del Tribunale (ma dov’è il Tribunale?) mi incateno al Comune (ma dov’è il Comune?) mi incateno all’Aquilone.. (azz… all’Aquilone???), insomma da qualche parte mi incateno e mi lascio morire di fame…”. Tutto questo mi vortica nella testa mentre loro si avvicinano. Li vedo: due ragazzini in mimetica, avranno vent’anni, mi sento ridicola, giocare a guardia e ladri, una signora attempata che infrange la legge, ma non ho la minima paura, sento la città pronta a sostenermi, le carriole mi difenderanno a spada tratta, Santa Carriola del Presidio proteggimi, dirò 3.32 preghierine…. I due ragazzi mi fanno tenerezza, chiedono scusa, bene educati, quasi mortificati per quello che sta succedendo. “Perché non vi siete fermate prima, al posto di blocco?” “Ma quale posto di blocco?” “Ah, allora non eravate voi” dice uno, rivolto più al collega che a noi, un po’ preoccupato. Mi viene in mente un flash di fuggi-fuggi di aquilani che girano come topi, infilandosi nei vicoli a destra e sinistra e ‘sti poveri ragazzi che li inseguono, investiti del doloroso ufficio della pubblica incolumità.
“Documenti”
“Non li portiamo dietro, stanno in macchina”
“Andiamo in macchina allora. Non lo sapete che è pericoloso stare qui?”
“Sì”
“Non lo sapete che ieri è crollato un balcone?”
“Sì”
“Non lo sapete che ci mettete nei guai?”
“Sì”
“Non lo sapete che dobbiamo proteggere dai saccheggiatori?”
“Sì”
“Siete dell’Aquila?”
“Sì. E dobbiamo rivederla, ogni tanto”
“Lo capiamo, ma non si può”
“Ma si deve”
“Se non siete dell’Aquila sono guai per voi”. Il ragazzo verifica la residenza.
“Bene… Siete fortunate perché siete dell’Aquila!”
“Eh… Che culo?”
Ridiamo.
Ci lasciano andare dopo un cicchetto.
Dentro, il cuore che dice: “A domà”.

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Tom Petty – Maty Jane last dance

L’AQUILA SPIEGATA AL MIO CANE

Il testo fu pubblicato su “Terremutate”:
https://www.laquiladonne.com/parlano-di-noi/racconti-da-l-aquila

Carissimo Teo,
da quando il tuo padroncino non può occuparsi di te, tocca farlo a me.
Lo sai che gli animali non sono la mia passione: spelano, pretendono. E soprattutto puzzano.
Quando al colloquio per l’assegnazione della CASA mi hanno chiesto se avessi animali, ho detto subito “NO”, per paura di dover aspettare ancora. Era novembre, era freddo, così ti ho rinnegato, ho pensato di potermi liberare di te. In fondo non mi sei mai piaciuto… A me piacciono i gatti lo sai, non sopporto lo sguardo implorante che avete voi cani. Ma poi non ce l’ho fatta a lasciarti, dopo quello che abbiamo sofferto insieme. Ti ricordi quando eravamo sfollati, e non ti hanno preso in albergo e dovevi dormire in macchina? Una mattina, dopo una bufera notturna, ti abbiamo ritrovato mezzo morto. Corsa al veterinario e diagnosi: “attacco di panico”.
Pure il cane con gli attacchi di panico, mi doveva capitare.
E così eccoci qui. Non ti lascio più, ormai dobbiamo convivere, porca miseria. E non guardarmi in cagnesco: ho dovuto imparare ad accudirti, a portarti a spasso, con tutti quegli strani rituali dei canari (“E’ maschioooo?… ” … “E’ femminaaaa? ”… ).
SGRUNT.
A sera, noi delle C.A.S.E., abbiamo imparato a gestire gli orari, usciamo a turni per non darci fastidio. Ti porto a spasso sul ciglio della strada, con le macchine che sfrecciano vicine. Ma dove altro posso portarti? I viali sono tutti bui, forse dobbiamo risparmiare sulla luce. E’ buio pesto dovunque, tranne che vicino ai centri commerciali. Forse lì la luce la pagano loro. In centro storico ho paura a portarti, c’è il veleno per i topi e lo potresti mangiare. Inoltre è pieno di randagi. Lo so che Piazza d’Armi ti piace tanto, ma la sera è così buio che non ci si vede neanche con la torcia! Inoltre è pieno di randagi. Il Parco del Sole mi fa stare male, è dove c’era la tendopoli, mi dà fastidio perfino passarci. Inoltre è pieno di randagi. Il parchetto di Via Strinella, quello del Torrione e quello del Castello sono talmente sporchi… inoltre (indovina un po’?) ci sono i randagi. La villa Comunale però è sempre bellissima! E’ l’unica zona verde ancora ben curata e illuminata: ci sono i randagi sì, ma anche la gente, quindi non ho tanta paura a portarti lì. Lo so, lo so…. Ti chiedi come mai da due anni non riusciamo a trovare un posticino intorno alla C.A.S.A.. Ma vedi, non mi va di portarti nel cortile, perché lì ci giocano i bambini. E fuori dall’oasi faunistica della C.A.S.A. non c’è nulla, neanche il marciapiedi. Lo sai tu, e lo sanno le persone anziane che girano intorno alla riserva indiana come matti nel giardino della casa di cura. Ma dove portano i bambini a spasso con le carrozzine? Boh. Lo so, ti sembra di stare al Truman show: il segreto è non uscire dalla riserva! Appena ti allontani non c’è nulla, il clima è ostile e ti ricaccia dentro. Ci sono le strade a scorrimento veloce, e le abitazioni di quelli che erano già qui, che (poveracci pure loro) hanno visto confiscate le terre e deturpato il paesaggio dalle CASE.
Ci considerano usurpatori e pezzenti.
Ti ricordi quella tizia autoctona che ti ha lanciato addosso il suo cane autoctono? Alle mie rimostranze ha gridato: “Ma revattene da ddo sci venuta!”….(“Eh… bella mé… Magari!” ho pensato mentre la maledicevo). Da allora giro sempre col bastone, lo sai. L’ho perfino usato sulla groppa di quel pastore abruzzese (sempre autoctono e libero) che un giorno ti ha azzannato al collo. Non potevo crederci! Che mi è toccato fare… io che picchio Cujo per difendere il mio cagnetto!!! Proprio io che avevo paura di tutti i cani del mondo…
Lo vedi Te’, il terremoto ti trasforma, ti cambia, ti fa dire: adesso ricomincio tutto da zero. Voglio essere diversa da prima, voglio essere migliore  di prima. E poi dici anche: voglio una città più bella di prima, che non abbia i problemi di prima, la voglio verde, la voglio a misura d’uomo, la voglio a misura di cane, la voglio comoda, la voglio europea! La voglio. E’ fantastica, Te’, l’opportunità che si offre a una città dopo un terremoto. In nome della storia, in nome di 309 morti.

Lo so, lo so, tu ti chiedi come mai in un anno non sia stato fatto ancora nulla. Ma vedi, Te’, in quest’anno trascorso si doveva litigare un po’, si doveva discutere, studiare! … Te’, gli umani non sono poi così diversi da voi cani. Un bell’osso profumato… Chi la dura la vince, e la dura chi ha i mezzi. Ora ti starai chiedendo la verità della favola della società civile, del pensiero collettivo, delle minoranze, dei deboli, degli svantaggiati…
Ti chiederai dove sono le persone importanti, dove sono gli studi sul dopo-sisma, le rilevazioni scientifiche sulle tossicità, dove sono gli appelli degli intellettuali, dove sono le raccolte di firme dell’intellighentia (non serve una lista da MicroMega hai ragione, non importa chi siano, importa COSA siano) e ti chiederai dove sono le ricerche epidemiologiche, dove sono le associazioni commerciali, quelle robe per le quali c’è un imprenditore che indirizza le azioni dei poveri cristi ambulanti ora tutti alcolizzati (ti ricordi, ce l’ha detto Franca la psicologa), quelle robe che ti possono consigliare il da farsi. E dove sono le associazioni degli psicologi, i report, le denunce degli aumenti di malattie mentali, di dipendenze, di mali incurabili, di stress post-traumatico.

Ebbene sì, Teo: sappi che tutte queste belle cose ci sono! E sono chiuse in qualche cassetto… insieme ai master-plan!!! Di sicuro ne verranno fuori fantastiche  pubblicazioni! Fantastiche pubblicazioni inutili! Oh, però fanno curriculum! Mica capita a tutti un terremoto, bisogna approfittare, è un’occasione servita su un piatto d’argento! Guarda che il terremoto ha restituito vita a un sacco di dead men walking: “i surfisti” sono tutti ringiovaniti! Inoltre, sai Te’, qui conviviamo in modo ben strano: chi ha la propria casa, fresca fresca appena rifatta di mille colori da Stabylo-boss, e chi non ce l’ha più, e vive nel tormento quotidiano (la rivedrò mai? ci saranno i soldi per ricostruirla? se li mangeranno tutti prima? devo vendere? devo svendere?). Viviamo e lavoriamo fianco a fianco! Quelli che hanno il problema di dove andare a fare l’happy hour e quelli che non hanno più né passato, né futuro, solo un orribile presente da accampati. E i primi guardano ai secondi come a dei piagnucolosi rompiballe! Gli danno dei depressi esauriti, gli dicono che la fanno lunga, gli dicono che non si danno da fare, che sono buoni solo a lamentarsi!!! Pretendono le stesse prestazioni lavorative, magari pure di più. Oppure gli dicono “pensa ad altro! non puoi pensare solo al terremoto! vivi la tua vita!”. Vivi la tua vita…. Già: per fartela breve, la legge degli umani è “a chi tocca tocca, ed è toccato a te (per fortuna)”. Poi sui libri ci si scrivono un sacco di fesserie, così, per depistaggio, ma non devi crederci! homo homini canis! Capito?
No. Non hai capito.
Se nasci cagnetto con gli attacchi di panico, certe cose non le puoi capire.
Lascia fare… Vieni qui, giochiamo a Io sono leggenda
Godiamoci la passeggiata.
E il freddo di questo gennaio.
E il sole che spunta, come fosse primavera, pure sopra le C.A.S.E. ..

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LA REGINA DELLE TROTE

Riflessioni ad alta voce su una gita fuoriporta prima di Natale

Se a Roma c’è “La Parolaccia” o “Pasquino”, all’Aquila ci sono locali tipici altrettanto antichi, speciali per le caratteristiche tutte abruzzesi, un po’ ruspanti e primitive. Come non ricordare il buon vecchio “Corridore”, dove si andava divertiti con la speranza recondita di assistere a qualche macchietta involontaria da parte di “Ogna-nera” (per i non aquilani, significa “unghia nera”) ?

In questi posti non si mangiano pappette nouvelle cousine appoggiate pulitamente su pregiate stoviglierie: qui bisogna avere denti per mordere, qui devi amare l’aria verace della “stozza” aquilana, quella dei tempi dei giocatori dell’Aquila Rugby1936, che si dopavano co’ pa’ e frittata.

La gita fuoriporta a Tempera, a mangiare le trote, era uno di questi divertenti pellegrinaggi. “Pellicola”, si chiamava allora, era un vivaio di fiume con vendita al dettaglio, te le pescavano davanti col retino, le trote, le mettevano in una busta di plastica e tu te ne andavi con la faccia soddisfatta e quella busta in mano che guizzava e si dimenava… Il rumore del sacchetto che si muoveva sotto al sedile della macchina, coperto dalle risate dei bambini, era una barbarie tollerata, nessuno se la sentiva di compatire le povere bestie, in virtù della bella festa che avrebbero regalato a tavola. Era un posto d’altri tempi, si mangiava con poche lire, si stava tranquilli. Qualche decennio fa il pavimento era fatto di tavole, sentivi l’acqua scorrere sotto, la vedevi, perfino, tra un’asse e l’altra.

Nel locale, rustico ed essenziale, si mangiava e si guardava divertiti il padrone, “Pellicola”, che declamava sermoni dietro a un leggio con sopra un volumone della Bibbia, di fronte a un enorme camino. Assunta, la moglie, gli ha dato in seguito un’impronta tutta donnesca, forte, imperiosa, che richiama un turismo speciale, strampalato e fai-da-tè. Al di là dei gamberi di fiume, delle trote al cartoccio e delle rane fritte, qui è l’antico che ti affascina, anzi, non l’antico, qualcosa di più: il vecchio, buono e consunto, crepuscolare e un po’ kitsch. Assunta è la regina delle trote, non si è creato un personaggio, lei “è” proprio così, semplicemente. Il regno di Assunta galleggia sull’acqua di un fiume magico, la Vera. Che magia…

Ci andai poco tempo dopo il terremoto, avrei voluto tanto rivederla, ma era chiusa. L’ho inseguita per qualche mese, non so perché, ma chiusa ancora. Poi a un tratto, in agosto, ecco, gira voce che c’è, si mangia. Naturalmente vado, l’interno è impraticabile, tutto puntellato, ma ci sono i tavoli fuori, la mosca e la falena, direbbe Gozzano. E’ stato come ritrovare un vecchio amico malandato.

Assunta ha regole ferree e, terremoto o no, quelle rimangono tali: ti devi apparecchiare da solo, devi andare a prendere l’ordinazione, devi togliere via i piatti dopo ogni portata, insomma ti devi arrangià. E Assunta impedisce a qualsiasi donna presente di fare tutto questo. Devono farlo gli uomini. “Mójjeta te fa la serva tutto l’anno… quando vieni qui, sci ttu che la tà servì, se no vattene a magnà a ‘n atra parte!”. Ha un dialetto ncianfrico, Assunta, mezzo pescarese, mezzo aquilano, chissà. Bei signori distinti sorridono a quelle parole, un po’ imbarazzati, e obbediscono impacciati, come chi non sa apparecchiare e non sa servire, ma per gioco, per una volta, decide di farlo. Lei parla severa, senza repliche. Le donne sono felici, quando siedono qui, e anche chi viene con un’amica trova un uomo che la possa servire. “Non lo tè ‘n omo che te port’ a mmagnà? (le chiede scandalizzata) Ci penzo ji!!!”. E Assunta smista il traffico e dirige il servizio, trova una vittima che si accolla la donna “senza ome”, e che sta al gioco e porta il piatto con non poco divertimento. Assunta è femmina di una volta, dice pane al pane, vino al vino, non va per il sottile, bisogna stare attenti a come ci si muove o lei ti battezza coram populo, specie se sei maschio. Florida e piacente, mantiene i segni di una bellezza antica. Magnifica atmosfera, per le donne. Stai lì e mangi, divertita a vedere il tuo uomo o tuo figlio o comunque un maschio che ti serve: e tante volte lo fai a posta… “Mi prendi un altro tovagliolo?” “Opsss… un altro bicchiere per favore, vorrei assaggiare questo bell’acetello!”

Di tanto in tanto, si sente la vocetta stridula di Assunta che chiama dal banco: “Giovanniiiiiiiiiiiiii….. vétt a pijà lu piatt!”, grida, sottile e acuta. Ultimamente si è evoluta, per l’esterno usa un microfono con un altoparlante: “Andonioooooo…. Muovi il culo che si fredda la pasta!… “. Se vuoi il flambè te lo devi fare da solo: ti prendi il vassoio con le belle trote arrostite, i “prosperi”, e dài fuoco alle polveri. Tutto un altro sapore, a vederti svaporare la trota sotto il naso. “Giangarlooooooooo….!!!! Ma mo pure lu cane te sci purtat’? Mittil’ esso fòri se no non te faccio magnà né a te, né a lu can’!

Tutti ridono, ma Assunta non lo dice per far ridere, è serissima. Qui le donne sono le regine: e se c’è una signora anziana, lei la coccola e a volte la serve di persona. Tutto ruota intorno alla locandiera, sapore antico, sapore di passato. Assunta non si arrende. Vive ancora sulla costa, viaggia tutti i giorni, ha riaperto “tagliando fuori” la zona danneggiata: l’enorme camino del vecchio Pellicola non ha retto, così è stato isolato dal resto della sala con un muro. Un paio di stufe a legna, non è cambiato granché. La neve, i ruscelletti, l’acqua della fontana… c’è aria di casa com’era prima, prima… … PRIMA.

Esco da lì e ho la meravigliosa sensazione di poter fare quello che facevo PRIMA: passeggiata in centro, caffè al Bar Nurzia, giro sotto i portici, casa mia. Luci calde, cappotti, la mia gente, così scorbutica ma “mia” perché è come me…

In certi posti il terremoto si è fermato dietro a un muro come quello di Pellicola, un muro che isola le zone impraticabili e lascia aperte le altre. Non ha cercato spazi nuovi e nuove luccicanti realtà consumistiche, si è affiancato alle macerie, dolcemente, pazientemente, docile come un mulo di montagna. In certi posti senti che puoi abituarti a convivere con le parti crollate, fingendo di non vederle, puoi guadagnare terreno a poco a poco, aggiustando mattone a mattone. In questi posti il terremoto è nascosto, isolato, cementato, rimosso, murato dietro. Sono i luoghi di chi è rimasto pur senza grandi mezzi, di chi ha scelto di continuare, perché non potrebbe stare in nessun altro posto che questo, e se ne infischia di promesse che non verranno mantenute: la zona franca sono loro. Solo in questi posti puoi dire che “il fatto” non è mai successo, anzi è successo ma chi se ne frega. E solo qui senti la voce di Fulvio che tuona come il primo giorno: “Pe’ fermamme, ju terramotu…. ME TÀ CCÌE!”.

Buon Natale a tutti i miei concittadini franchi.

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LA CRANIATA

Quel malaugurato lunedì vi cade dalla finestra della C.A.S.A. un asciugamano che avete precariamente cercato di mettere ad asciugare alla meno peggio, non disponendo di un balcone. E’ sera, fa il solito freddo, naturalmente piove e così decidete di scendere a raccoglierlo: non vi va di lasciarlo lì, fa squallido, fa degrado. In quel momento pensate che è importante non perdere mai il rispetto di voi stessi, la vostra dignità. Vi sentite buonissimi, in quel momento, davvero delle brave persone, mica solo i Veneti sono brave persone, pure voi Abruzzesi. Una scena commovente, sottofondo di violini e fazzoletto. Scendete le scale, siete soddisfatti, pronti a tutto, in nome della difesa della vostra dignità. E’ sera, fa il solito freddo, naturalmente piove e sapete già che per raccogliere il vostro asciugamano dovrete fare i conti 4 biciclette parcheggiate stese a terra nel ballatoio, inchiavardate al passamano delle scale più o meno dal 19 settembre e fino a data da destinarsi, presumibilmente ferragosto 2011. Piove, è buio, fa freddo e così, nel passare tra le 4 biciclette, inciampate e sbattete violentemente il vostro dignitosissimo e abruzzesissimo cranio a una trave delle scale… …
… … … …(I puntini di sospensione si chiamano OMISSIS e servono a suggerire qualcosa che viene detto in quel momento dal protagonista della storia, qualcosa che l’autore, per qualche strano motivo, non vuole riportare) … … … …… … Al posto dei violini ora sentite le campane e gli uccellini, barcollate, scalpicciate tra i raggi delle biciclette ma restate in piedi come Rocky, non vedete nulla come Rocky, vi viene da dire ADRIANAAAAAAA come Rocky, ma in realtà serrate i denti come Willy Coyote sotto il pezzo di montagna staccatosi dal Gran Canyon proprio sulla vostra testa. Le ruote delle biciclette girano ancora… Zzzzzzzzzz…. Zzzz……Girano anche altre cose, ma voi vi tirate su, raggiungete il passamano e guadagnate le scale. Trascinandovi raggiungete finalmente il portoncino di casa, entrate, vi buttate sulla sedia, togliete la mano dalla fronte … Porc… …. …. … Ghiaccio, alcol, cerotto, letto. Il giorno dopo vi sentite un po’ ubriachi, ma impavidi come Fantozzi dite: “Sentito… NIENTE” e decidete di andare a lavoro. Il corno spuntato sulla fronte esige qualche stratagemma allo specchio: un bel ciuffo di capelli lungo tutto il lato sinistro, matita nera sotto gli occhi. Risultato: sembrate una EMO di cinquant’anni. E in effetti l’umore è lo stesso e le intenzioni pure, manca solo qualche borchia e il CD dei Tokyo Hotel.
E così passate tre giorni in questo stato, facendo finta di nulla e meditando il da farsi. Cercate un colpevole. Oscillate tra il pensiero di un confronto a viso aperto e la ricerca di un killer. La seconda ipotesi vi sembra più praticabile della prima. Chiedete conto a qualcuno della regolamentazione degli spazi comuni del progetto C.A.S.E. e come risposta ottenete la stessa pernacchia di Totò ai nazisti del film “I due marescialli”. Pazienza. Vi dite che da oggi in poi starete più attenti. “Ogni mattina in Africa una gazzella inizia a correre eccetera eccetera”. E corriamo. Giungla. Va bene. Ok.
La domenica successiva vi sentite quasi fuori pericolo, ma prudentemente restate ancora chiusi in casa, giocherellate un po’ al pc. Vi imbattete in 61 commenti di Facebook da parte di alcuni vostri concittadini pruriginosi. Si chiedono se gli abitanti delle CASE pagano le bollette. Si chiedono perché loro sì e le CASE no.
E la vera craniata è quella.
E l’altra che avete dato alla trave non è niente, al confronto.
E non sapete quale delle due sia più assurda.
L’Aquila chiama l’Italia.
“L’Aquila chiama l’Italia.”
Speriamo che chiama pure L’AQUILA.

IL PERCORSO MAGICO

Anni Ottanta. Il mio amico Massimo Alesii mi porta al colloquio con Stefano Vespa. Ho vent’anni, sono nervosa, non so come pormi. Il dialogo è secco, deciso, breve, e sono dentro: “RADIO L’AQUILA – 103 MHZ”. Un mito. Un mito un po’ in discesa in verità: gli anni d’oro erano stati i Settanta, ma per me quella redazione era il massimo.

Da quel giorno iniziò il percorso magico, cioè il tragitto che facevo per andare in trasmissione. Parcheggiavo a Piazzetta Chiarino: macchine ammucchiate, disordine, mi ricavavo un posticino vicino al meccanico. Non c’erano strisce blu, non c’erano parchimetri, solo strisce bianche, ma era come se non esistessero. Lasciavo lì la mia 126 beige di terza mano (tappezzeria verde e volante momo) e andavo “in Radio”. Farfalle nello stomaco, mi caricavo per via, usando come personal-trainer le strade, un percorso sempre uguale, un rito scaramantico che mi metteva in sintonia con il mio mondo, sia quello dentro che quello fuori.

Da piazzetta Chiarino approcciavo via San Martino, in discesa. I muri stretti ai lati mi davano energia e mi proteggevano, e i sanpietrini lucidi e tondi sotto le scarpe mi costringevano ad andare piano per godermi lo spettacolo. Se pioveva poi, l’odore dell’aria si faceva intenso, pregno dell’umidità dei muri antichi. Una svolta a sinistra, ed eccomi su Via ed Arco dei Veneziani. poi un piccolo tratto, una giravolta, e il Chiassetto del Campanaro era lì, stretto stretto che sembrava un viaggio nel tempo, un piccolo tubo da cui sbucare a fatica, come a nascere ancora. Subito un gesto scaramantico: guardare in alto il mascherone che caccia la lingua, strizzargli l’occhio ogni volta, per non averlo contro durante la diretta.

E poi giù, mi tuffavo in via Accursio. La casa di Buccio, con la lampada appesa, nera arrugginita sempre uguale, che mai si muoveva neanche col vento. Camminavo attaccata al muro, perché le macchine in salita andavano veloci. Che strada! I palazzi antichi ogni tanto li trovavo con i portoni socchiusi, e sbirciavo dentro, a guardare quegli orti magnifici, gli orti aquilani, o i cortili col pozzo e la carrucola.

Il tempo sembrava essersi fermato in quelle crepe, stasi serena di un orologio immobile. La bottega del sarto era perfettamente inserita nel quadro: lui sempre a cucire con la sedia mezza e mezza, metà sulla strada e metà dentro, a prendere un po’ di luce da fuori (l’interno era ancora più buio); e lui lì, con gli occhiali sul naso, cuciva pantaloni da uomo.

Ci buttavamo uno sguardo indifferente: in tutti quegli anni non ci siamo mai scambiati un saluto, all’aquilana maniera ci ignoravamo. Il sarto era sempre sintonizzato sui 103, aveva il volume al massimo per via del fatto che sedeva mezzo fuori, e quando passavo sentivo i nostri jingle fatti in casa: lui sapeva che ero io “la voce”, aveva certamente collegato il mio passare con l’inizio della trasmissione, ma mai un cenno, mai una parola, né mia, né sua. Poco dopo la muta tappa della sartoria, il portone del n. 10, lui, il “mio” portone.

Il cortile interno, il porticato dall’intonaco un po’ scrostato, la targa piccolina RADIO L’AQUILA, null’altro da vedere, perché il cuore era già dentro: due scale da scendere, una piccola porta di vetro smerigliato e ferro battuto e… odore di muffa, nuvole di fumo di sigaretta, ero dentro! La magia del percorso magico si fondeva tutta in quel piccolo scantinato che per me era il mondo dei sogni, un paradiso sistemato dentro un altro paradiso. Sala di registrazione, cuffie, prova microfono, Tony con la faccia da indiano fa il solito cenno impercettibile con gli occhi sornioni e… “VIA” … parlavo alla città. Leggevo pezzi miei. Preparavo meticolosamente trasmissioni a tema sulla città, ripercorrevo la toponomastica e raccontavo storie antiche.

Nella mia mente parlavo al sarto, ma sapevo che erano in tanti a sentirmi. Un giorno una signora telefonò dopo la trasmissione (mai successo) per fare i complimenti. Usciti dalla sala di registrazione, Tony, rompendo appena appena, con l’angolo della bocca, la sua espressione perennemente immobile, lo raccontò a Renato: “Oh…. Ha telefonato una… pe’ ddì che j’è piaciuta la trasmissione…”. Renato, dopo un attimo di perplessità, spalancò la bocca e replicò, fissandomi con un’espressione stupita: “Che? Ha telefonato una pe’ fatti i complimenti? E chi era??? …Zìeta?”. Ilarità generale, inclusa la mia.
Eh sì, lo trovai delizioso. Perché il quadretto, dal percorso magico alla battuta di Renato, era proprio perfetto. PERFETTO.
Questo è L’Aquila. Che nessuno alzi mai la testa dalla mischia. Che nessuno cresca sulla squadra. Così si vince. Questo è la mia L’Aquila. E solo chi è “dentro”, chi ce l’ha nel sangue da generazioni, può capire a fondo questa piccola storia.

CRONACHE FUTURE

Il professor Yoptzxcce non riusciva a rassegnarsi alle tre ore di viaggio per raggiungere la mitica terra dei sogni, che tutte le leggende descrivevano come “la Terra di Mezzo” per la sua collocazione tra le montagne: era un’Atlantide dell’era cristiana, il sogno di ogni archeologo. Yoptzxcce studiava quell’antica civiltà da oltre trent’anni, aveva praticamente impostato su di essa tutta la sua vita, in particolare sulla denominazione del sito, sulla quale sussistevano infiniti dubbi e dalla quale si sarebbe potuto dedurre quanto accaduto dopo il terribile sisma che la distrusse.
Come l’antichissima Troia, anche la Terra di Mezzo aveva subito una stratigrafia archeologica, almeno 7 le distruzioni e le sovrapposizioni di ripristino di un fiorente centro abitato. Fortunatamente poteva disporre di una buona equipe di assistenti, per lo più studenti devoti che lo seguivano nelle sue imprese segrete e disperate.
Giunto sul posto, trovò pronti alcuni reperti che aveva con scrupolo dato ordine di estrarre. Le mani gli tremavano, quando li vide ben disposti sul lungo tavolo dell’archeopsia: aveva sudato per tutto il viaggio e ora finalmente era lì, stavolta era sicuro di aver trovato gli elementi giusti per la denominazione della mitica città sepolta, comunemente chiamata dagli studiosi “Terra di Mezzo”.
Yoptzxcce si avvicinò al tavolo e vide uno strano oggetto blu, bordato di bianco. Stando alle sue conoscenze, doveva sicuramente trattarsi di un antico “cartello stradale”: con questi rudimentali attrezzi si usava segnare l’inizio dell’abitato urbano. Yoptzxcce era certo che avrebbe finalmente risolto il mistero del nome. Conosceva in parte l’antica lingua locale, così provò a leggere. Le lettere erano molto rovinate, si decifravano a fatica su quel cartello di metallo arrugginito e aggrovigliato:  “L’ A Q U I L A “. Non capì il senso del segno dopo la prima lettera, ma rimandò il problema, l’avrebbe risolto mettendolo in sinossi con gli altri reperti che l’equipe operativa gli aveva disposto sul tavolo.
Il reperto seguente era in plexiglass, sicuramente di poco successivo al sisma: “L’ A Q U I L O’ “ …. “L’Aquilò…”. Sillabò… Il toponimo originario si era evidentemente deformato, doveva trattarsi della nuova denominazione, dovuta allo spostamento del sito urbano, e la datazione doveva risalire probabilmente all’anno zero era sismica, poco tempo dopo l’evento distruttivo del 2009 d.C..
Terzo reperto: risalente circa al 100 p.S. (post sisma).
Lesse meglio:      “L – A – Q –U – L – I “ doveva essere quello il nome. Provò a pronunciarlo, ma poi con i suoi strumenti mise a fuoco meglio e finalmente lesse:       L… O… C… U…. L…I ……LOCULI! gridò entusiasta, come se gli si fosse accesa una luce negli occhi: LOCULI!
Era questo il nome della Terra di Mezzo! Di certo la datazione era corretta, il 100, massimo 120 post sisma, e il toponimo si riferiva senza dubbio all’antica conformazione abitativa della popolazione locale: così venivano infatti chiamati dei lunghi edific,i simili per utilizzo alle insulae latine, in cui gli autoctoni vissero zippati per cinquant’anni, sicuramente per far fronte alla terribile forza tellurica, ma anche per resistere strenuamente all’abbandono di quel territorio. Loculi! Loculi! Loculi!…sussurrava emozionato il Professor Yoptzxcce.
La stratigrafia proseguiva: ultimo reperto. “L A’ * QUI * LA’”. Le sillabe erano staccate da una specie di asterisco, e i segni di accentazione ripetuti alla prima e ultima vocale. Consultò i suoi appunti, e capì la tragica verità del nome: “Là qui là”. Gli abitanti avevano ripreso l’antica denominazione, deformandola per indicare la dispersione delle genti su un territorio vastissimo, quella dispersione che segnò la fine della Terra di Mezzo. Sicuramente databile intorno al 200 p.S., non è certo se furono i locali a chiamarla in questo modo o se furono gli Italici che, forse in senso dispregiativo, vollero così segnare la fine di una delle più belle città del mondo dell’epoca cristiana.
Lo spopolamento ridusse il centro a 3.000 abitanti, e poi al nulla.
A onor del vero la città si difese strenuamente contro la volontà di una nazione che, presa dalla terribile auri sacra fames, l’esecranda fame di denaro, non si curò della fine di questa antichissima civiltà. La storia cancellò questo centro urbano, che lottò sempre, secondo le antiche tradizioni genetiche che lo distinsero. La Terra di Mezzo, centro ricchissimo e florido della “via della lana” durante il Rinascimento, isolata tra le montagne in seguito, aveva costruito autostrade e bucato montagne per non morire e per restare collegata al resto del mondo. Ma nulla poté contro la costosa ricostruzione del periodo p.S.
Gli abitanti furono divisi al loro interno da qualcosa di molto più grande di loro. Furono usati senza che se ne accorgessero. Si fecero usare senza riuscire ad accorgersene. E il denaro segnò le sorti di un popolo fiero e tenace, che Roma nell’era sismica cancellò, come aveva fatto alle origini con i Sabini, i Vestini, gli altri popoli italici.
“E’ la triste legge che ci ha portato qui, nella nostra epoca – pensò Yoptzxcce – dove è proibito recuperare la memoria del tempo passato…”. Solo lui e un’occulta frangia segreta di studiosi di archeopsia ancora si chiedevano “da dove” proveniva l’Era Senza Memoria in cui si trovavano a vivere.
Lo scienziato scrisse qualche appunto, raccolse i reperti, li chiuse in una cassa e fece riporre il tutto dai suoi assistenti in un posto sicuro. Come un messaggio nella bottiglia lanciata nel gran mare dell’Essere, come una piramide in attesa del suo scopritore.
Con l’ultimo pugno di terra sulla cassa, l’amarezza il Professor Yoptzxcce chiuse il capitolo sulla Terra di Mezzo: contro il nuovo che avanza, solo uno dei tanti centri urbani cancellati dalla violenza della fiumana che sacrifica i singoli, in nome degli interessi di altri singoli.

MILLE VOCI DALLE CASE

….. Stanotte sono stata malissimo, forse mancava l’aria in “casetta” e così mi sono svegliata che mi girava la testa. Ho aperto la finestra e dopo un po’ sono stata meglio. Ho pensato tante volte a una casa in affitto, non credere che io sia una sprovveduta. Ma bisogna aspettare che le “B” rientrino nelle loro case; al momento non c’è scelta, qualsiasi cosa io abbia trovato era roba in muratura (che fa rima con paura) o fatiscente o sporca o troppo, troppo lontana.
Il film dell’ “intellettuale in campagna” con i cani e i gatti non è certo neorealismo italiano, lo inserirei più nella fantascienza. Le mie condizioni psicologiche non mi consentono l’autonomia necessaria a quel copione. Qui c’è una muta condivisione della sofferenza. Ti affacci e sai che questi disgraziati stanno come te e se hai bisogno e suoni un campanello qualcuno ti apre e ti porta in ospedale. Non esiste vicinato, ma c’è la solidarietà dei prigionieri di guerra. Neanche ti saluti al mattino, ma se senti un pianto subito ti affacci a vedere se qualcuno ha bisogno di aiuto. La notte è muta. I lampioncini disegnano luci disneyane sui prati appena seminati, sui cercys appena fioriti, e sembrano i colori con cui le pompe funebri dipingono i morti. Ma se esce il sole al primo pomeriggio, escono tanti bambini, così tanti che ti chiedi dove li abbiano nascosti per tutto l’inverno, come li abbiano fatti tacere per tutti questi mesi. Pensi a ‘Useppe della Storia di Elsa Morante, o al piccolo di Benigni nel “La vita è bella”. Li guardi dalla finestra, e preghi dio, se esiste, che non si abituino a questo nulla, che si rialzino. Li guardi, guardi nel quadrato militare del cortile chi torna con le buste della spesa, nessuno ride, vanno sempre con un incedere che non ha più guizzi di entusiasmo. Guardi tutto questo e dici “questa è la mia gente”.

E non vuoi andartene, non vuoi preservarti da tutto questo, qualcosa te lo impedisce. Certo, potrei giocare a fare la ricca donna di campagna con i suoi libri, i cani stesi sul tappeto davanti al camino acceso. Potrei anche permettermelo. Ma antiche romaNticherie o chissà cosa mi portano ad affondare con la nave. Piuttosto valuterei l’ipotesi di trasferirmi altrove, il che non è escluso. Ma se sto qui, se resto qui, devo dividere la sorte degli altri.  Sai, noi della scuola viviamo in questo piccolo mondo antico fatto di piccole vedette lombarde e tamburini sardi. Romanticherie ottocentesche in cui crediamo fortemente ci portano a credere che proprio chi ha delle responsabilità deve farsi servo dei meno fortunati.
Ieri ho accarezzato mentalmente i miei libri con le poesie di Edoardo Sanguineti. Sembra un’eresia, con quello che succede, dire che soffro fisicamente la mancanza di quelle pagine, ma ieri è stato così. Perché Sanguineti è morto e leggere qualche verso per me significava farlo vivere ancora. Avidamente ho cercato su Internet, ma nessuna di quelle mie amatissime. Solo pochi frammenti sparsi.
Tu hai ragione su tutta la linea, tutti i carriolanti hanno ragione, ma io non ho torto. Da dove prendono tutta quella forza? Sempre di più assimilo inconsciamente la situazione a quella degli ebrei. Io sarei certo morta in un campo di sterminio, troppa pietas rende fragili, vulnerabili. E non riesco a farmi crescere il pelo sullo stomaco, non ce la faccio.

Quanto a me, l’esercizio convinto della non-violenza mi porta a tenermi lontana dalle manifestazioni di protagonismo di alcuni.
Credimi, ho provato di tutto, ho provato tante volte a formare un “movimento di massa” di protesta non-violenta basata sulla non-collaborazione. L’obiettivo era fare ostruzionismo passivo. Non gesti plateali, ma resistenza muta e compatta: non comprare certe cose, non andare in certi posti, definire strategie collettive.
Ti sei mai chiesto perché è bello il flash-mob? Perché tutto si ferma, e tutti sono uguali nella loro immobilità. E tutti appartengono a una setta segreta, solo chi fa il gioco capisce, gli altri no. Ecco.
Ormai mi guardano come si guarda una pazza. E forse lo sono.

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John Lee Hooker – This Land is Nobody’s Land

DE INDIGNATIONE COLLETTIVA

Nei miei lunghi trascorsi scolastici è sempre stato fulgido il ricordo di un mio alunno molto particolare, Lorenzo, uno di quelli che ti rendono la vita impossibile, quelli che sono sempre “contro”, sorriso sarcastico, iperprotetti da più parti, scrittura volutamente incomprensibile… avete presente?.. quei figli che pretendono sempre “un po’ di più” della tua attenzione. Lo ricordo in una foto di classe dietro, in alto, mise le braccia a croce come Gesù Cristo. Ebbene, Lorenzo – o come dicevan tutti, Renzo – un giorno si alzò in piedi all’improvviso durante la lezione e disse con voce ferma: “Sono indignato!”. Stranezza interessante, tanto più che, passati un paio di giorni, il fatto iniziò a ripetersi in modo inquietante. All’improvviso lui si alzava e diceva: “Sono indignato!”. Capite bene che dopo una, due, tre volte, il ragazzo venne richiamato dagli insegnanti per l’interruzione arbitraria, e il comportamento fu stroncato in modo abbastanza energico. Stette buono per un po’, poi ricominciò, in modo furbescamente camuffato da opportune variabili: non si alzava più in piedi ma all’improvviso, comunque, dall’ultima fila, emetteva un sommesso…. “sì sì sono indignato….”… e dopo un paio d’ore una specie di singulto…“sono proprio proprio indignato….”. La situazione si faceva imbarazzante. Un giorno, esasperata, lo presi da parte, e alzandomi sulle punte dei piedi fino al suo naso, con efficacissima calata napoletana, gli dissi: “Loré, ma tu che vuò ‘a me?”. E lui, con espressione stupita, precisò che non c’era niente di personale, semplicemente…lui… era indignato! Lorenzo non sapeva bene “di cosa” o “per cosa” era indignato, troppo complessi e confusi i motivi che dettavano quel turbolento stato d’animo, ma sentiva di esserlo profondamente, e lo diceva a modo suo. Il Consiglio di classe, dopo una frettolosa riunione improvvisata per i corridoi, gli notificò che basta, doveva farla finita. E così Lorenzo – o, come dicevan tutti, Renzo – non potendo più né alzarsi, né bofonchiare, per non esplodere, se ne inventò un’altra: ogni tanto tirava fuori da sotto il banco un cartello formato A3 con su scritto “SONO INDIGNATO!” e lo ruotava a destra e a sinistra! Dopo tanti anni devo confessare che la cosa mi divertì parecchio, e che ne ero anche piuttosto orgogliosa. Ve lo dico all’orecchio e senza farmi sentire, ma altro è quello che il docente fa, altro è quello che ha nel cuore. E nel cuore io ero contenta che gli fosse scattata la molla dell’indignazione. Dopo tre anni di studi su Catone e sulla virtus latina, cavolo, Lorenzo era l’unico che aveva ben capito la lezione, ben interpretato lo spirito pratico della urbanitas, della civitas, delle arringhe ciceroniane e delle filippiche. Non sapeva bene “di cosa”, non era compito suo capire perché, lo provava e lo diceva. E basta. La nemesi storica vuole che ora io mi trovi nella sua stessa situazione: sono indignata, e i motivi sono così tanti e confusi che potrei fare una lista, ma non ci riesco, riesco solo a vivere infelicemente e confusamente questo sentimento. Giustamente la reazione è la stessa dei docenti contro Lorenzo: “Ma tu che vuò ‘a me?”. E io rispondo come lui: “Non lo so.” Sfogo il mio bisogno di ricostruire lavorando come una matta fino a spaccarmi la schiena, e se è vero – come è vero – come dicono gli psicologi, che la parola è salvifica, allora bisogna DIRE. Ma ha un senso dire sul blog e dire sul web? Ha un senso rispetto a Lorenzo che si alzava in piedi e lo diceva e lo scriveva? Ha un senso iscriversi a un gruppo “quelli che si indignano” e sublimare così il bisogno di additare le cose che non vanno? E’ un modo poi davvero così efficace l’indignazione on-line? Il top sono quelli che si indignano col nik-name! Almeno chi si indigna firmandosi mantiene la sua corporeità, ma chi si firma “Fantomas”? Ah, certo, sa di svilire l’indignazione autografa. Colpire alla schiena, vigliaccamente, nell’anonimato. Questa indignazione da blogger in più sfumature è certamente eredità catoniana adattata alle mutate condizioni. Mi ricordo che negli anni 80 su un muro di Ingegneria un genio graffitaro evidentemente prossimo all’esame di fisica scrisse: “Tatone il Tensore”. E d’accordo, va così, mutatis mutandis, giuste evoluzioni di antichi metodi, ma cavolo IO SONO INDIGNATA! Mi indigna la città abbandonata, mi indignano i furti legalizzati dei finanziamenti per i terremotati, mi indigna l’arraffa-arraffa, mi indigna il puntellamento, mi indignano le pietre antiche buttate per terra, mi indigna l’inerzia. Mi indignano i ritardi ingegneristici che ancora mandano in giro le A e le B, mi indigna che lavori di tamponature ci mettano un anno (e allora il centro storico?) mi indigna che ci siamo messi a discute su Bertolaso e Guzzanti, mi indigna che abbiamo fatto passare il giuro d’Italia come se niente fosse e infatti s’è visto che grandi risultati, mi indigna che i miei concittadini ancora mi dicono “Beh t’hanno data la casetta che vuoi di più!”, mi indigna che vogliono che mi sistemo così mi sto zitta, mi indignano le lapidi spezzate al cimitero, mi indigna che non si sia messo su un servizio uffici dov’era-dov’è (bastava un impiegato) e mi indigna che all’Aquila non andiamo col tom-tom come la gente normale, ma col tam tam come i villaggi dell’Africa, mi indigna che i vecchi moriranno al mare, mi indigna che i single non possono tornare (e che invece di dire poracci so’ soli, si dice meno male che so‘ soli), mi indigna che i padri separati devono dormire nelle roulotte da soli e non possono ospitare i figli senza doversi vergognare, mi indigna che continuiamo a parlare di miracolo come i ciechi a cui danno da bere e intanto gli fregano le elemosine, mi indigna che non riusciamo a venirne a capo, mi indigna che ognuno si indigna per conto suo per le cose sue e non c’è un’indignatio collettiva, mi indigna che anche quando i fatti sono lampanti comunque gli uomini di parte insistono a difendere l’indifendibile, mi indigna che mi considerano una miracolata perché ho la casetta, mi indigna dover parlare a nome di tanti che ridono sotto i baffi leggendo e poi non fanno niente, mi indigna che ci sono quelli che si indignano della mia indignazione. Ecco. Lorenzo, Barabba, ladrone in croce, me l’hai tirata e sto come te. E come te io dico “non è compito mio risolvere piccole e grandi cose, c’è gente pagata per farlo, votata per farlo, FARLO E’ IL LORO LAVORO e non sono io”. Io non posso che occuparmi di ragazzi e far sì che crescano con un sano e consapevole pensiero critico. Criticamente ho cresciuto generazioni di vostri figli, che come Lorenzo si indignano insieme a me. Ma porca miseria, amici, colleghi, persone, gente dell’Aquila, ci vogliamo mettere insieme? Non basta cliccare “condividi”.

LA PAROLA E’ DONNA

INTERVISTA DI ROBERTO CIUFFINI A LUISA NARDECCHIA

Questa intervista è stata realizzata dal giornalista Roberto Ciuffini in Piazza Duomo all’Aquila, in occasione della presentazione al pubblico del numero di Leggendaria dedicato alle donne-scrittrici aquilane, dal titolo “TERRE MUTATE”, nel maggio 2010. L’intervista fu realizzata da Roberto Ciuffini per incarico di un giornale on-line sul quale non è più ora reperibile. Viene riportata qui fedelmente.

ROBERTO: Come ha scritto il direttore di Leggendaria Anna Maria Crispino, le donne sono state protagoniste quotidiane della ripresa della vita dopo il terremoto. E anche ora, a distanza di un anno, continuano ad esserlo (basti pensare all’alto numero di donne presenti nei comitati). Parafrasando Nuto Revelli, sono state e continuano ad essere “l’anello forte”. Perché, secondo te? E’ una questione biologica, di genere o cosa?
LUISA: La ripresa della vita “normale” è stata prevalentemente realizzata dalle donne, è vero. Ma non insisterei troppo su questo aspetto, anche se a lui ho dedicato uno dei brani più amati del dopo-terremoto. Si corre infatti il rischio di generalizzare e di relegare le donne ai lati spiccioli dell’esistenza, alla quotidianità. Il grande valore che io intravedo nel mondo femminile è l’energia, la vitalità. Il vero “anello forte” è la parola, che è anche coscienza. E la parola è donna: spesso davanti al disastro gli uomini hanno bisogno di silenzio, di raccogliersi e di guardarsi intorno. Le donne invece devono immediatamente dare un nome alle cose per capirle, e lo fanno parlandone, confrontandosi. Ma è chiaro che si va incontro a grossolane generalizzazioni.
ROBERTO: Tu personalmente dove e quando hai trovato la forza e il senso per scrivere?
LUISA: La scrittura è sempre stata, per me, un momento importante di coscienza e di realizzazione personale. Ho sempre scritto nella mia vita, anche se soprattutto pubblicazioni scientifiche e saggi. La scrittura narrativa mi deriva dal mio essere stata una grande lettrice: e spesso a un grande lettore succede che vivere una situazione si traduca in un dejà-vu di immagini lette in mille altre forme, su mille altri libri. Quello che si scrive rimanda sempre a cose che già risuonano dentro di noi, cose assimilate nel tempo, che riemergono in altre forme, in altri contesti. Dopo il terremoto la scrittura si è posta come “medicina doloris”, per me e per chi mi leggeva. Riuscivo a dare voce a tanto magma emotivo collettivo. Poi sono passata alla scrittura come documentazione e impegno civile. Sicuramente la scrittura narrativa è la forma di espressione più affine al mio modo di essere: la forza e il senso derivano dal bisogno impellente di farlo.
ROBERTO: Le testimonianze raccolte in questo numero di Leggendarie vogliono essere anche una risposta a tanta cattiva letteratura e a tanta disinformazione prodotte in questi mesi sull’Aquila?
LUISA: La scrittura letteraria è un modo di informare diverso da quello giornalistico: viaggia su onde anomale, e non ha lo stesso pubblico. I lettori di giornali spesso snobbano questo modo di raccontare le cose, lo considerano romanzato, infarcito di roba inutile. E invece un racconto letterario “taglia” le cose nella loro essenza, ha un modo diverso di dirle, ha ritmo, ha musica, veicola il messaggio attraverso altri recettori che il puro raziocinio. Il grande miracolo della scrittura letteraria è di non proporsi mai nulla: non convince, non scandalizza, non spiega, non documenta. Ma al tempo fa molto di più: ti cambia prospettiva, ti fa diventare “altro” da te. Quella di Leggendaria perciò è una scelta precisa, capace di coprire un aspetto dell’informazione sul terremoto certamente diverso da quelli finora usati. Tra i due estremi del documentario di parte e del personalismo autoreferenziale dei blog, la scrittura narrativa scelta da Leggendaria può fornire la tessera decisiva del puzzle.
ROBERTO: Secondo te non c’è l rischio che, come abitanti di questa città, finiremo per percepirci come comunità solo in nome della tragedia che ci ha colpiti?
LUISA: Magari fosse. Magari ci potessimo sentire”comunità” in nome della tragedia. E invece corriamo il grande rischio della dissoluzione: lo spopolamento da un lato, la lotta intestina per la gestione della ricostruzione dall’altro. In buona sostanza, c’è chi se ne va, e c’è chi resta a litigare sul come restare. Se riusciremo a superare questi due grandi pericoli, la nostra comunità si salverà e avrà un futuro. Ma per farlo è necessario un grande senso civico, una grande umiltà, una grande praticità, e secondo me c’è bisogno anche di grandi leader delle parti, leader che si pongano come punti di riferimento e che siano capaci di anteporre a tutto il bene della comunità.

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DE SENECTUTE – sulla costa

Eravamo ancora sulla costa quando è emerso, chiaro ed immediato, il criterio di selezione adottato per restare in città: solo la fascia “produttiva” aveva questo diritto. I vecchi, improduttivi e passivi, in albergo, al mare. Non c’è polemica in quello che dico: non avrei saputo proporre un’alternativa. Ma, come Maria, fui immediatamente vinta e quasi schiacciata dall’evidenza dell’esilio dei “grandi vecchi”. E la prima reazione fu di incredulità. Solo nei libri di fantascienza una società non concede ai suoi vecchi e di morire nella loro terra. La memoria (io che non ne ho mai avuta granché) mi recitava interi passi del “De senectute”. Ce n’era uno bello, quello in cui Cicerone crea la metafora della nave: la vita sociale è come un viaggio in una nave, vedi alcuni salire sugli alberi, altri andare correndo per le corsie, altri vuotare la sentina. Chi afferma che la vecchiaia deve essere esclusa dalla vita pubblica, è come se dicesse che nella navigazione il pilota non fa nulla. E invece, la barra in mano, seduto quieto a poppa, tiene la rotta. La città distrutta brulica di formiche impazzite, senza la testa dei “grandi vecchi”, che con il solo loro essere presenti, con il semplice stare, fanno il loro lavoro. In tanti hanno scelto di non lasciarsi portare via. “La baracca nell’orto, io da qui non mi muovo”. In tanti, più fragili, più sconvolti dal boato, si sono fatti deportare, rassegnati. Alberghi come ospizi. Passeggiano al mare, e i loro occhi cercano i monti. Quel sole e quell’umido, poi, i nostri vecchi non lo sopportano. So di alcuni che hanno chiesto di avere una stella alpina sul comodino. Come raggiungere questi nostri anziani in esilio? Come far arrivare da qui forte e chiaro che non li abbandoniamo? Dobbiamo dire che resistano, dobbiamo dire di tenere duro. Dire di aspettare, di essere forti… E che cosa aggiungere per quelli che non ce l’hanno fatta, che hanno ceduto prima, in preda al dolore della lontananza e alla paura dell’abbandono. Si sono ammalati, e in tanti, tantissimi, da un giorno all’altro hanno smesso di mangiare, hanno chiuso la bocca. Sono da annoverare tra le vittime del sisma, che invece, ufficialmente, resteranno sempre 300.

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ADOTTA UN BUZZICO

Tempo fa me ne stavo nella c.a.s.a. cercando di far quadrare il cerchio, quando si presentano due giovani sorridenti che gentilmente mi consegnano un bel buzzico color marrone, mi dicono che si tratta della raccolta differenziata dell’organico, mi consegnano un calendario tipo Frate Indovino e mi fanno firmare un documento.
Quando timidamente ho chiesto ai ragazzi: “Scusate, ma ora io questo dove lo metto?” mi hanno guardata stupiti. “Come? Sul balcone!”. “Quale balcone?” dico io. “Ah lei non ha un balcone?” “No! Esattamente come un sacco di gente che abita nelle c.a.s.e.”, mi sento di precisare. “Allora lo metta sotto al lavandino!”. “Ma sotto al lavandino c’è il fantastico secchio della spazzatura miracolo della tecnologia, che quando apri lo sportello si apre anche il coperchio! Lì ci va la spazzatura normale, mica il buzzico dell’organico!”, dico io. “Lo metta a fianco al secchio”. “Ma lì c’è posto solo per un paio di detersivi, non ci entra!”.
I due ragazzi iniziano a indietreggiare, azzardando, poverini, qualche altro tentativo: “… Al bagno?”. “Ma se al bagno non c’è nemmeno posto per il cesto dei panni sporchi, e devo tenerli in lavatrice!”. Improvvisamente grondanti di sudore, i due battono in ritirata, sparando le ultime cartucce: “…. Sul pianerottolo?”… “Sul pianerottolo ci sono gli stendini con i panni, vi ho detto che non c’è il balcone, no? e ci sono anche le dispense con i detersivi, mica vorrete che ce li teniamo dentro, i vapori ci avvelenano! Se ci mettiamo anche il buzzico non si passa piùùùùùùùùùùùùù!…”.
La mia voce accompagna i ragazzi alle spalle, lungo tutte le scale. Resto come una scema là in cima, finché non scompaiono all’orizzonte, come nei finali di Charlie Chaplin.
E così restiamo da soli. Io e il buzzico. Lo hanno lasciato in mezzo alla stanza soggiorno-cucina-camera da letto. La prima cosa che mi viene in mente è di agganciarlo a una corda e calarlo giù dalla finestra e tenerlo appeso lì. Mi rendo conto che non sarà un bello spettacolo per quelli che abitano sotto, ma che ci posso fare… anche io mi godo la vista dell’antenna parabolica del vicino che troneggia davanti alla mia finestra… No.. meglio evitare dai. Siamo fin troppo bravi a non prenderci a coltellate per i posti auto, dobbiamo avere pazienza. Evitiamo ok? C’è stato un terremoto no? Già, penso guardando il buzzico: c’è stato un terremoto e questi mi portano il buzzico. Mi viene in mente un flash: DOV’E’ LA TELECAMERA? Ma sì, ci sarà una telecamera nascosta! Dev’essere così! Hanno pensato di filmare le reazioni dei terremotati, per vedere fin dove arriva la pazienza!! Rido soddisfatta, mi aggiusto i capelli e mi guardo intorno, sentendomi improvvisamente osservata… “Dai, esci, lo so che ci sei!”.
No. Non è una candid. Mi sento tristemente sola. Guardo il calendario di fantastico Frate Indovino che mi hanno lasciato, per vedere se ci sono indicazioni su come gestire il buzzico. Scopro che devo buttare la spazzatura in certi giorni a certe ore. Mi colpisce il fatto che si parla di orari per me impraticabili, tipo dalle 22,00. Quando sono già a letto.
Arriva un altro flash: io che, in pigiama, vestaglia e pantofole scendo giù col buzzico in mano. Scordatevelo. Non se ne parla. Ho una dignità, io. Continuo a leggere, c’è scritto qualcosa sul compostaggio. Il compostaggio? Ma veramente? La pressione mi sale e avrei voglia di farlo a qualcuno, il compostaggio. Scopro con uno sguardo disperato che se butto la spazzatura fuori orario verrò multata. E che, se non conservo bene il buzzico e non lo restituisco a fine comodato, verrò multata ugualmente. Lo metto sul tavolo, siamo già amici, mi guarda con aria soddisfatta. Lo odio. Poi mi faccio coraggio: “Forza, siamo molto fortunati ad avere la c.a.s.a,. In Irpinia stanno ancora nei container, mentre noi riusciamo a pensare alla raccolta differenziata! Forza Luisa, fai un piccolo sforzo di buona volontà!”.
Io lo sforzo lo faccio pure, ma il problema è proprio di natura fisica, è un problema materiale e concreto, cioè DOVE PIFFERO LO METTO IL BUZZICO? DOVE? DOVE? DOVE?

Passano i giorni. Il buzzico troneggia, lucido e pulito, in mezzo al stanza, sul tappeto, davanti al divano-letto. La testa non si rassegna: mi succede come a gatto Silvestro quando a destra compare un angelo e a sinistra un diavolo. L’angioletto dice: forse questi del buzzico non sanno che le c.a.s.e. hanno tutte una camera-soggiorno-cucina! Forse questi del buzzico non sanno che moltissime non hanno neanche un balcone! Il diavoletto gli dà una martellata in testa e dice: “COME POSSONO NON SAPERLO? Saperlo è il loro lavoro, sono PAGATI PER SAPERLO!”.
Dopo qualche giorno il buzzico è diventato il mio interlocutore preferito. Lui è piccolino, ma a me sembra enorme, gigantesco, spropositato! Un buzzico ideato per una villa con piscina, mi sembra. Faccio un tentativo: lo metto sulla cappa della cucina. Sporge un po’, poverino…. Non mi sembra un buon posto, il calore è troppo vicino… E il buzzico torna sul tappeto.
Provo a leggere di nuovo il calendario di Frate Indovino con le istruzioni. Che bella cosa, la raccolta differenziata, che grande civiltà, che grande progresso, che grande ecologia! …..MA PROPRIO DAI TERREMOTATI DOVEVA COMINCIARE TUTTO ‘STO SENSO CIVICO?
…..
Altro flash filmico.
Atmosfera dorata, tipo Mulino bianco.
Gli abitanti delle c.a.s.e che si incontrano giù al parcheggio felici, ben vestiti, in una mano la ventiquattrore, nell’altra il sacchetto della raccolta differenziata. Vicino a loro camminano compunti due bambini con i capelli a caschetto, biondi, naturalmente. Reciproci saluti calorosi: “Buongiorno!!!!”… “Buongiorno a lei!!!“…. “Buon lavoro!!!!”….. “Altrettanto!!!”….. “I miei rispetti alla signora!!!”… Sorridono soddisfatti, esibendo il loro sacchetto dell’organico con la faccia di un boy scout dopo la buona azione quotidiana. Sotto alla scena filmica, una scritta scorrevole azzurra: “PERFINO I TERREMOTATI DELL’AQUILA FANNO LA RACCOLTA DIFFERENZIATA! FALLA ANCHE TU!”….
Puff… Il flash scompare in una bolla di sapone.
E vedo noi. Noi delle c.a.s.e.
NOI VERI.
Che la mattina ci salutiamo con un grugnito.
Incazzati.
Che abbiamo le facce da terremotati.
Che dormiamo ammucchiati, senza più privacy.
Che usciamo trasandati, con gli occhi abbottatti.
Anche noi col sacchetto della spazzatura in mano.
INDIFFERENZIATA, naturalmente.
Ognuno se lo carica in macchina, parte, e va a buttarla lontano, nei secchi che incontra sulla strada.
E quello che ti fa incazzare è che vorresti andare a buttarla sotto la casa di qualcuno.
QUI NON E’ ESATTAMENTE UN VILLAGGIO VALTOUR.
Fatelo voi il riciclaggio, FATELA VOI LA DIFFERENZIATA.
E mentre guido, col mio bravo sacchetto di spazzatura indifferenziata nel bagagliaio, mi domando: “Amici miei, fratelli di sventura…… voi dove avete messo il buzzico?”.
Leggende metropolitane dicono che molti lo hanno riposto, ben coperto, in qualche garage delle case rotte.
Altri lo hanno nascosto presso qualche amico fortunato che ha una casa. Qualcuno, purtroppo, lo ha dato in affidamento a parenti lontani, e ogni tanto telefona e chiede come sta.
Ma tanti, tantissimi, lo tengono in macchina, e la domenica lo usano per andare a togliere le macerie in piazza, in alternativa alla carriola. Li chiamano i “buzzicanti”, oppure per prenderli in giro “chi bazzica col buzzico”.
Vaglielo a spiegare, come vivono.

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DOMANI VIENE MICHELE

“Domani mattina viene Michele”.
Non mi ricordo che effetto mi fece questa frase detta al telefono dalla voce emozionata di Giuseppe. Di sicuro mi ha gettato nel panico. “Sì… Michele viene domani mattina, viene a scuola a trovarci”.
Oddio. Che gli dico. Come mi comporto. Non ci so fare, non sono la persona giusta, Giuseppe ha sbagliato…
Cosa gli dico io a Michele Gazich?
Faccio un po’ di prove tecniche di trasmissione tipo: “Buongiorno Maestro, Lei non può immaginare che cosa sia la Sua musica per me” oppure: “Buongiorno Michele, è un onore averLa qui, venga, Le mostro i corridoi e la palestra”.
Eccerto. I corridoi e la palestra.
A Michele Gazich.
“Ma dai – mi dico – in fondo sarà lui a parlare. Gli artisti son così, un po’ matti, un po’ narcisisti. Mi parlerà dell’ultimo disco e andrà tutto bene. Anzi, speriamo che arrivi quando sto facendo lezione, almeno lo presento ai ragazzi. Non mi è mai capitata una cosa del genere. Un cantautore in classe”.
Mi figuro la scena.
Lui e Giuseppe entrano proprio quando sto finendo di leggere il “Cinque maggio”. Non so se avete presente: lettura enfatica dell’ode in climax fino alla pausa teatrale d’obbligo, prima della parola “posò”. In genere pochi secondi prima suona il campanello e mi rovina. Quest’anno invece busseranno alla porta e sarà Michele Gazich. Ok. Può andare.
Mi sfugge il seguito della scena. Che faccio dopo? Mi preparo le fotocopie di qualche suo testo? Mi vedo: distribuisco le fotocopie di “Poeta in gabbia” e poi… “Analisi del testo!”. Sacrosanta rivolta di massa della classe.
Cambio film.
Ascoltiamo un brano di Michele, poi intavoliamo una discussione. Sento la voce di Nanni Moretti dall’ultima fila che grida: “Noooo … il dibattito nooooooooo!!”. Parole sante.
Reset.
Altra scena.
Provo a immaginere i dettagli. Com’è fatto, dove lo faccio sedere, come si svolge la scena.
“Dovresti vederlo” mi ha detto un giorno Giuseppe, ben sapendo che non mi sono mai preoccupata di dargli una faccia. “E’ un personaggio, io l’ho conosciuto a Subiaco che girava da solo per le montagne, col suo cappello in testa”.
Quando Giuseppe ha detto “col suo cappello in testa”, ha fatto un gesto come per alzare la mano in aria, così: “CAPPELLO!” E non un gestuccio piccolo, tipo a schiacciarsi la mano in testa, come a dire la coppola di Lucio Dalla, no no, proprio con la mano per aria, alta, con gli occhi in un piccolo guizzo all’insù. Come a dire il cilindro di Zucchero Fornaciari. Vedo un corvaccio nero col pastrano lungo e gli occhialetti da cieco senza cane, salire le scale della scuola.
Brutto effetto.
“Un cilindro. Lo vedi?” mi dico “Dev’essere un tipo strano, e io coi tipi strani mi impappino come con i bambini, perché sono imprevedibili, ti spiazzano con una battuta che per loro è niente, e invece a me mi stende”.

Che poi i miti non si dovrebbero mai conoscere.
E che cavolo, Michele era un mito per me, come gli salta in mente a Giuseppe di trasformarlo in carne e ossa? se ne stava bello bello nella mia teca mentale, mi parlava con le sue canzoni, da lontano, etereo e incorporeo… Come Orazio, Baudelaire, Oscar Wilde, Pirandello. E chi li conosce? Che è ‘sta cosa che si deve per forza impattare col corpo? Sono aquilana verace, porca miseria. Gli aquilani non si smuovono mai per i miti. Una volta mi trovavo a Roma in un bar e mentre telefonavo a casa vidi passare un politico importante, così mi scappò di gridare con entusiasmo a mio padre, che era all’altro capo del telefono: “Non ci crederai, ma è appena passato Tizio!” E mio padre, laconico, da buon aquilano, rispose: “Salutamelo…”
Oh sanguis meus! C’aveva ragione!
I personaggi sono fatti per stare nelle teche.
E invece, domani Michele viene qui.
Esce dalla teca dove l’ho tenuto per tutto il terremoto.
Ma andrà tutto bene: faremo un giro, io, Giuseppe, lui, il suo pastrano nero e il suo cilindro.
Farò gli onori di casa e tutto andrà come deve andare.

Ci siamo, è il momento, sono abbastanza calma.
Sto per terminare la lezione sul “Cinque maggio” come da copione.
Faccio la pausa teatrale, dico ” posò “. Silenzio.
La classe, muta, assapora il momento catartico.
Subito dopo sento bussare, e schizzo in piedi.
La porta si apre di una spanna appena.
Intravedo Giuseppe, che resta fuori: con lo sguardo fa un gesto come per dire “puoi uscire un attimo?”.
Mi precipito, preoccupata. “Sarà successo qualcosa”.
E invece Michele è lì.
Vicino a Giuseppe.

Il cappello è sotto il braccio.

Il cappello è sotto il braccio.

E’ un cappello normale, ed è sotto il braccio.
Niente cilindro, niente pastrano nero, niente occhialetti da cieco.
Dalle finestre del corridoio, una luce morbida.
Pochi secondi. Capisco tutto.
La Endemol Deformation mi ha fatto aspettare un uomo di spettacolo.
E invece Michele è un Uomo. Come quello di Oriana Fallaci.

Lui è ciò che scrive.

Mi saluta affabile, dolce.
La mano è leggera.
La voce è leggera.
Gli occhi chiedono.

Tutto in lui è partecipazione.
Mi chiede del terremoto, vuole sapere.
Mi chiede del campo di Collemaggio.
Io ero al campo a Collemaggio.
Mi chiede di Santa Maria degli Angeli.
Io abitavo vicino a Santa Maria degli Angeli.
Pensavo che venisse per parlare.
Invece è qui che mi ascolta.
Ho davanti a me una persona gentile.
GENTILE.
Avevo dimenticato che esistono persone GENTILI.

Lui è ciò che scrive.

Resta cinque, dieci minuti, poi dice che non vuole disturbare e se ne va.
Nell’alone di luce delle finestre del corridoio.
Resto lì.
Con l’anima piena.

Io non so perché certe cose succedono.
Non so perché certe persone mandano così tanta energia da sembrare angeli. E non so perché tutto questo sia successo a me.

Ho conosciuto un poeta.
O forse un angelo.
Pensandoci bene, non c’è differenza.

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Michele Gazich e la Nave Dei Folli – Collemaggio

LE NOSTRE DONNE

Questo testo è stato sicuramente il più “fortunato” tra quelli da me scritti nella fase dell’emergenza. Risale all’ 8 marzo 2010 e fu scritto in sette ore, la durata del viaggio del pulman che mi riportava a casa da Milano. Il testo fu letto ovunque, fu citato sul “Manifesto”, fu usato durante convegni, raduni, comizi di politici, per lo più senza citare l’autrice. Ne sono stata fiera: perché quando di un testo se ne impadronisce “la gente” al punto da non sapere più chi lo abbia scritto, né come e perché, vuol dire che quel testo era vero, era della gente.

I primi tempi lo chiamavano “il terremoto delle donne”. Una frase che si sentiva un po’ dovunque, appena sussurrata, da parte di giornalisti, commentatori, fotografi, gente di passaggio.
Lo schianto distrusse gli uomini, che rimasero allibiti, quasi paralizzati, attoniti davanti a tanta devastazione. O scapparono.
Sono state soprattutto le donne ad evacuare l’ospedale (infermiere, portantine,  dottoresse), chi era lì le ha viste disporre, dare ordini, organizzare, spostare, raccogliere, sostenere. Sono state soprattutto le donne a recuperare i faldoni dagli uffici, la merce dai negozi. Le donne, a tenere unite le famiglie, a dirigere, a sistemare i figli nel modo meno precario possibile. Donne, a far riaprire i primi punti in piazza, donne a fare politica, donne a restare al proprio posto, qualunque fosse, a dare il meglio di sé. Le abbiamo viste nei centri di raccolta, nelle tendopoli, nelle stanze d’albergo, nelle camerette della Finanza darsi da fare, organizzare lo spicciolo, improvvisare angolini in cui ritagliare un po’ di intimità: girare un catino per realizzare un tavolo, appendere uno specchio a una gruccia per rimediare una toletta, mettere un fiore in un bicchiere, stendere un foulard colorato alla finestra.
Su di loro, gli occhi di uomini schiantati, barba lunga, increduli davanti a tanti piccoli gesti inutili. E intanto le donne correvano avanti e indietro a racimolare oggetti, in preda ad una strana febbre.
In tante si sono messe a scrivere, a raccontare, a parlare, a dare voce alle emozioni collettive. Ridicole? Davano un nome alle cose che succedevano, mentre tanta, troppa gente continuava a ridere dentro al letto, anche senza intercettazioni telefoniche.
Le donne diedero forza alla braccia, spazio alla memoria. Istinto di protezione della prole? Forse. Non siamo forse noi donne ad aver passato almeno cinque anni della nostra vita distese sul tappeto di casa con i nostri figli, per insegnare loro il gioco della torre di cubi? Un cubo sopra l’altro, un cubo sopra l’altro. Uno per volta, con pazienza. Poi la torre cade, il bimbo ti guarda spaurito, tu lo consoli: “Non fa niente, la rifacciamo”. Non fa niente, la rifacciamo. NON FA NIENTE, LA RIFACCIAMO. La casa.
Gli uomini possiedono la nuda proprietà, le donne hanno anche il resto: dallo zerbino alle tendine colorate, dalle presine, in tinta con lo strofinaccio, al servizio di tazzine regalato al matrimonio, dalle fotografie al cigno di vetro soffiato, così brutto ma a cui siamo tanto affezionate. E quante volte siamo entrate di nascosto nelle case rotte, a recuperare qualche brandello di memoria da innalzare come un trofeo che in qualche modo distinguesse la nostra dalle mille altre casette, tutte con gli stessi arredi, gli stessi colori, le stesse pentole e le stesse coperte.
Ma le più grandi sono state le donne-nonne come mia madre. Quelle che hanno fatto la guerra, quelle che hanno rivissuto i bombardamenti. Meritavano una vecchiaia serena, circondate da figli e nipoti. Si trovano in spazi risicati, quasi tutte lontane dalla loro terra, da una città che hanno reso grande nel corso di tutta la loro vita, con il loro lavoro. Ovunque si trovino, questa fu la prima cosa che dissero il 6 aprile, questa sarà l’ultima che diranno: “non fa niente. LA RIFACCIAMO”.


CRONACHE FINALI

Si tratta del racconto degli ultimi giorni nella tendopoli di Collemaggio, prossima alla chiusura. Chi scrive racconta le fasi finali dell’assistenza della Protezione Civile,
e l’assegnazione di un alloggio nel Progetto C.A.S.E. Il racconto fu pubblicato dalla rivista “Leggendaria” nel numero 81, un numero interamente dedicato alle “Terre mutate”. Il numero del giornale fu presentato a Roma il 18 giugno 2010. I fatti raccontati, se pure enfatizzati dalle tecniche narrative, sono TUTTI REALMENTE ACCADUTI.

13 novembre 2009 – Sono rimasta sola, la tendopoli è quasi vuota. Ci chiamano “gli irriducibili”, quelli che non se ne vogliono andare, come se fosse una scelta politica, e invece non c’è nessuna scelta da poter fare ora, almeno per me, ho sbagliato tutto in questa storia… Mi vergogno di essere stata così ingenua e sprovveduta da ritrovarmi a novembre ancora sotto la tenda. E non riesco a crederci.. Mi vergogno di parlarne con gli altri, tutti più o meno sistemati meglio, COMUNQUE MEGLIO di me, mi sembra di leggere nei loro pensieri “poverina, ma come fa a stare ancora in tenda? sono rimasti lei e gli slavi ormai, ma come si fa?”. L’importante è che la mia famiglia stia bene, lontano da qui, fa solo tanto freddo. Soprattutto di notte si gela, e sinceramente ho paura di dormire qui da sola. Prima di infilarmi nel letto preparo una specie di trappola: appoggio una rete inutilizzata di un letto contro l’apertura della tenda.. La tenda non ha porta, non si chiude a chiave, e io ho paura, ho paura di tutto qui, una paura indotta più che reale, se ascolto me stessa mi dico che posso stare tranquilla, che va tutto bene, che non può succedere niente e che – soprattutto – finché sono in tenda, il “mostro” non mi può ingoiare. La sera ho sete ma non bevo, non bevo neanche durante la cena per non andare in bagno di notte, il container dei bagni di notte sembra irraggiungibile, una traversata impossibile…
14 novembre 2009 I cani qui fuori fanno da padroni, sembra di stare un film. Stanotte abbaiavano e ringhiavano abbaiavano e ringhiavano, si mordevano abbaiavano ringhiavano finché qualcuno (chissà chi) è uscito fuori, ha urlato qualcosa come BASTA FATELA FINITA e ha sparato un colpo di pistola in aria. Silenzio. Un silenzio di tomba e forse era meglio prima l’abbaiare e il ringhiare. Tra freddo e cani mi viene in mente Zanna Bianca e sorrido, è incredibile come facciano compagnia certi ricordi, nascono da soli, affiorano come bolle di sapone.. Dentro una di queste bolle, vedo la ragazza che mi aiutava nei lavori domestici, il giorno in cui mi ha lasciato il bigliettosul tavolo con su scritto: “Non pulisco in giardino perché il cane BAIA”. Sorrido ancora. Che bello.
Dio quanto, ma quanto era bello e non lo sapevo … Qui il gelo ti entra dentro, le lenzuola sono quasi bagnate, ho foderato tutto di coperte, a terra in alto, mi sono fatta una specie di iglù e non posso più pulire la plastica a terra con tutte queste coperte, ma non mi importa, devo proteggere la mia schiena. Rimpiango Maria di Mestre che per il mio mal di schiena veniva a farmi il Toradol, Dio la benedica, Maria di Mestre, non so come avrei fatto senza di lei. Qui a Collemaggio i volontari della C.R.I. li chiamiamo con la città di provenienza: “Piero di Pavia”, “Barbara di Firenze”, Maria di Mestre”. Ora ci sono Franca e Laura. E Riccardo, 19 anni, fidanzato con una ragazza dell’Aquila salvata dalle macerie. Quante storie d’amore sono nate tra volontari e terremotati… Ma chi se le ricorda più, ormai non c’è più nessuno, ci sono solo io, i cani di Mimmo e qualche straniero, porca miseria. Ma come ho fatto ad arrivare a questo? E com’è possibile? Stranieri, affittuari, avventizi, QUI CON ME, con me, proprietaria storica di appartamento al centro storico? INSIEME? IO E LORO? Vedrai che mi daranno la casetta vicino a questi… Anzi, la daranno prima a loro, perché loro hanno un sacco di figli, ecco come andrà. Chi devo maledire? Chi? CHI? Non ce la faccio più. Io mollo tutto, me ne vado, mi trasferisco.
15 novembre 2009. Mi chiama Piero della Protezione Civile. Dice che ha buone notizie.
“Finalmente!!!” (è incredibile, ma sono ancora capace di provare emozione e riconoscenza).
“Ho trovato una stanza per te in albergo, all’Aquila”
“Caspita!!! – dico io- che notizia meravigliosa! Continua dai!”
“L’Hotel è il migliore della città”
“ACCIPICCHIA! – esclamo incredula – non so come ringraziarti Piero!”
“Però c’è un però”
“Ah. E lo sapevo io. Ok, pago il soggiorno, va bene lo stesso, basta che ci sia una stanza in città.”
“No.. Il fatto è che… Insomma… La stanza è condivisa.”
“…”
“….”
“Pronto? Ci sei ancora?”
“Condivisa?… Condivisa con chi?”
“Una signora rumena”
“…”
“Una signora rumena?”
“Sì… Brava persona, puoi stare tranquilla”
“Ah. … (…) Grazie Piero… Ok. … Lasciamici pensare un attimo ok?”

Rumena… Ma siamo matti? Ma per chi mi hanno preso? In stanza con una rumena.
Giuda ballerino, è un incubo. Voglio svegliarmi.
16 novembre 2009. Lascio la tenda. Ho deciso di accettare la stanza condivisa con la rumena. Sono pazza lo so, ma non ho scelta. Fa troppo freddo e la schiena mi dà il tormento, devo pensare alla mia salute, devo stare bene, BENE CAVOLO, ho un figlio a cui pensare, DEVO ACCETTARE.
E’ incredibile, ma ho paura a lasciare la tenda, più paura che a restare, e sono proprio due belle paure. Nulla mi è stato risparmiato, ma io voglio stare qui VOGLIO STARE QUI NELLA MIA CITTA’ NELLA MIA SCUOLA CON LA MIA VITA. Accetto. Accetto anche se sono arrabbiata, molto arrabbiata. Una rumena? Che vuol dire una rumena? Una rumena nel migliore albergo della città? E chi è? Che lavoro fa? Con chi mi mandano a dividere il sonno (e il bagno?). Sono furiosa. Mi sembra un incubo, ma non ho scelta, ormai ho la filosofia del “poi vediamo”, e Piero mi ha promesso che è solo per qualche giorno, solo fino a venerdì – mi ha detto – perché ogni venerdì consegnano le casette e io avrò la mia casetta, parva sed apta mihi, la mia bella casetta per dare a mio figlio equilibrio e sicurezza, a me un po’ di tepore. Solo qualche giorno, coraggio. CORAGGIO. Posso farcela.. (ma una rumena… porc… )
Vado.
17 novembre 2009 – Mi stendo sul letto dell’hotel. Ce ne sono tre, di letti, in camera, magari ci infilano una terza, magari un’altra straniera. Magari una cubana. …. (Ma porca miseria… …)

Fa un bel caldo, tutto è pulito, c’è silenzio, e giù in sala pranzo ho intravisto bei tavoli, belle
tovaglie, belle stoviglie… bicchieri che luccicano, bicchieri a calice, come nella mia casa, come i miei cristalli… Tre mesi di nomadismo, quattro di tendopoli e ora questo….
Sono stesa sul letto e aspetto. Cosa aspetto? La rumena, ovvio. Rum… Rom… Dio non sarà una zingara spero… Ora ci penso io. Chiariamo subito le cose, che deve stare al posto suo. Mi guardo intorno, non c’è traccia di lei, ho guardato l’armadio e i cassetti e lei tiene tutto ben raccolto negli angoli, bene, l’ha capita, è bene intenderci subito, pochi giorni sì, ma che sia chiaro che comunque deve stare al posto suo, la rumena. Bene, ho visto che tiene le scarpe fuori sul terrazzino, bene, l’ha capita, la rumena, meglio che stia da parte ok? Mi esce il fumo dalle orecchie.. Sono qui, avanti, vieni, che aspetti? Dove sei? Che lavoro fai? Che ci fai qui all’Aquila? Come ti hanno dato quest’albergo? Come mai alloggi qui da settembre mentre io ero in tenda? COME MAI??? Sono proprio furibonda e lei non arriva.
Torno da cena, mi aspetto di trovarla in camera ma non c’è. Ah, cena fuori la signora, chissà dove, chissà con chi. La mia immaginazione corre e alimenta leggende metropolitane sulle rumene…
….
LA CHIAVE GIRA NELLA TOPPA.
E’ LEI.
Aspetto, sono pronta.
Non entra.
Sento bussare.
“Avanti!” dico spazientita.
Una giovane donna, alta, capelli lunghi, castani, aria tesa e preoccupata.
“Piacere, Luisa”.. “Piacere, Maria”
Resto zitta. Ha più paura di me. Meglio, così sta al posto suo. Tace. Neanche una parola. Bene, non mi piacciono le chiacchiere.
Qualche scambio di battute tecniche sulla gestione degli spazi, poi nulla.
“Posso spegnere la luce?” chiede.
“A che ora ti alzi?”
“Alle sette”.
“Bene, anche io. Vai prima tu in bagno, poi andrò io. Buonanotte.”
E fine del discorso.

18 novembre 2009 Sette del mattino. Dormito poco e niente, ma lei peggio di me, rotolava nel letto come una boccia da bowling. Ora è lì che parla al telefono, in rumeno, poche parole, scarne, una lingua dura che evoca antichi film in bianco e nero della Russia stalinista o che ne so, il perfido Rasputin. Letteratura. Succede anche quando sento parlare in tedesco, ma non mi era mai capitato di doverci poi dormire a fianco. Suggestioni, libri letti, storia, immaginario collettivo. Transilvania…Il conte Dracula. Erano meglio i cani di Mimmo. Chiedo: “Mangi in albergo a pranzo?” “No. Qui mi sento a disagio. Troppo lusso per me. Mi fanno dei panini, e li mangio dove capita”.
Qualche altro particolare, parla benissimo l’Italiano.
“In Romania non sarebbe mai accaduto tutto questo” mi dice mentre si alza.
“Tutto questo… cosa?…” sono pronta ad azzannarla, immaginando che sia una critica alla gestione dell’emergenza.
“Questo che è accaduto a me, che gli stranieri fossero trattati alla pari. L’Italia è un paese di grande civiltà”.

Fa la doccia, si veste, esce.

A colazione mi sento gli occhi addosso, in sala pranzo. Li sento, che mi guardano e pensano “ma come fa quella a dormire con una rumena?”. So leggere negli occhi e nei pensieri. Mi sento in imbarazzo, sono seccata. Qualcuno attacca bottone “Buongiorno signora, come va? … Da dove viene? Dalla costa?” Non mi va di dire che vengo dalla tenda. Quando ero sulla costa, all’inizio, la gente del posto si tappava il naso quando passavano gli aquilani. “Puzza di tenda” dicevano, una puzza che ti resta attaccata addosso per un sacco di tempo. Così bofonchio qualcosa e me ne vado, rispondendo un generico: “Vengo dall’Aquila”. Che sciocchi. Come se non fossimo tutti nella stessa barca.
Lei torna alle dieci di sera, più o meno. Stanca morta, si butta sul letto. “Ti senti bene?” butto lì. “Mi fanno male le ossa – dice – oggi ho lavorato tanto” “E dove lavori, se non sono indiscreta?” “Vado a servizio, cerco di lavorare più che posso, ho bisogno di soldi”. Le guardo le mani, rosse, screpolate. E all’improvviso Rasputin e Dracula se ne vanno al diavolo. E al loro posto resta una donna come me, che lotta come una tigre per avere un futuro migliore.
20 novembre 2009 Oggi avrebbero dovuto consegnarmi la casetta, ma ancora niente. Mi hanno chiamato, scala tutto di una settimana. In fondo non mi dispiace, qui si sta da dio. E alla sera Maria mi racconta la sua vita, a poco a poco. E’ molto riservata. In questi cinque giorni di condivisione abbiamo entrambe aggiunto parecchie tessere al nostro reciproco mosaico. Non è niente male. A parlare con uno straniero non ti senti mai invaso, né inchiodato. Me ne ero dimenticata. Ai tempi dell’università succedeva spesso, perché a Perugia c’è il passaggio obbligato degli stranieri, avevo vent’anni. Non c’erano slavi, però: soprattutto arabi e greci, e gli arabi dicevano tutti di chiamarsi Alì. Di quei brevi frammenti di dialoghi mi restano le stesse sensazioni che ho con Maria: un parlare con garbo, con gentilezza, senza che ogni cosa detta sia una sfida per dimostrare all’altro qualcosa di sé. Succede a vent’anni, e poi mai più: poi lo straniero diventa un concetto ostile, qualcosa che ti minaccia nelle tue sicurezze, a meno che… a meno che in mezzo non ci sia un terremoto che ti sbalza indietro di trent’anni, ai tuoi vent’anni.
Maria ha due figli all’università, un ex marito alcolista, un sogno di riscatto. I racconti più belli sono quelli della sua infanzia in campagna nei pressi di Costanza, con gli animali da fattoria. Mi racconta di Ceaocescu, di quello che è successo dopo la caduta. Maria sa discorrere di politica, legge il giornale ogni giorno, è molto più informata di me, che dal 6 aprile sopravvivo e basta, non leggo più e non guardo più la televisione.
Ieri sera, prima di spegnere la luce, mi ha chiesto: “Tu credi in Dio?” Così, a bruciapelo. “Noi siamo ortodossi” ha detto in tre parole, con una sintesi tutta pratica. “Le differenze con il cattolicesimo sono poche”. L’ho ascoltata parlare, mi mostra una catenina con un’immagine sacra e la mia testa vola, e mi sembra la scena di Orlando che disteso a terra col nemico pagano discorre di dio, della famiglia, dei figli…. Accidenti, maledetta letteratura, ti filtra tutto.
21 novembre 2009 Ho convinto Maria a scendere giù a fare colazione con me. Non voleva, ha fatto un sacco di storie, dice che non sta bene che io mi accompagni con lei. Per tutto il tempo ha guardato a terra o al massimo nella sua tazza con yogurt e miele. Ma si vedeva che era orgogliosa di stare a tavola con me. Voglio raccontare un po’ di lei a qualcuno oggi, mi va di dirlo a qualche amico… Lo so, lo so che mi diranno quello che già ho sentito qui dentro “non ti fidare, i rumeni dicono un sacco di bugie, hanno questa prerogativa: all’improvviso scompaiono, non li vedi più, e scopri che ti hanno detto un sacco di stupidaggini”. E’ un ritornello, me lo dicono tutti. Ma io non ci credo. Voglio fidarmi, voglio seguire il mio istinto. Scelgo io con chi stare. E scelgo lei.
Mentre finiamo la colazione le chiedo: “Ma perché resti qui, che tutto è distrutto? Perché non te ne vai? Affitto per affitto, perché non cambi città?” E scopro che è qui da dieci anni, che ha scelto questa città come sua città, che tra poco arriverà sua figlia, sta solo aspettando i documenti di equipollenza per la laurea. Quando parla di lei le brillano gli occhi. Studiare per Maria è molto importante, tiene molto all’istruzione dei suoi figli.
27 novembre 2009 E’ arrivato il momento, ho in mano le chiavi della casetta, devo andare. Due settimane sono passate, e di Maria so tante cose. “Ti telefono domani”.
Lascio sul comodino la crema per le mani, le sue mani rosse e screpolate.
Ci abbracciamo come due vecchie amiche, ma con una malinconia tutta nuova.
Una breve parentesi, non sappiamo cosa accadrà domani.
Maria ora ha le mie chiavi di casa. E ha anche quelle della mia amica Stefania e quelle della mia amica Cristina. E fa il suo lavoro in case dove la rispettano e le vogliono bene, qui, nella nostra città che rinasce.

La mia casetta è calda calda, sto rinfrancando il gelo della tendopoli. Ogni sera mi chiedo se Maria prende ancora l’ Okipirina, se ha ancora il mal d’ossa.
Il terremoto in pochi mesi mi ha disegnato sul volto dieci anni.
Ma dentro sono molto più giovane di prima.

 

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HO UNA PAGINA FACEBOOK

Ripropongo la lettura di questo brano dedicato ai miei studenti.
Il brano fu scritto nel giugno 2009, ma lo dedico oggi a tutti gli insegnanti che hanno un diverso parere in merito alla… “ ’ngicca”. La pagina si chiama “Quelli delle classi di”, che nacque da un’idea di Gianpaolo Tronca. Il gruppo esiste ancora, e Gianpaolo mi ha aggiunta agli altri amministratori.

Ho una pagina Facebook e io non sono neanche iscritta a Facebook.
Ho una pagina Facebook e io non so neanche come funziona, Facebook.
Ho una pagina Facebook, si chiama “Quelli delle classi di Luisa”, e io ‘sta cosa non me la spiego, non credo di meritarmela. Sono stata una brava insegnante?

Tanti anni fa, dopo una conferenza, conobbi, (mio malgrado) un grande professore, un’icona della cultura accademica aquilana.
Quando il detto luminare seppe che ero un’insegnante di liceo mi guardò dall’alto in basso un po’ schifato. Eh, non mi presento mai bene, in verità, alla cultura “ufficiale” (che? questa qui, un’insegnante di liceo?)
Dopo un attimo di silenzio pronunciò, soffiando e sbuffando, questa fatidica frase (immaginatevelo un po’ come il Padrino): “… mmmpffff… Veda Signorina… fffffh… Il professore… ffffffshhh… Il professore … (suspance) … il vero professore… TÀ FÀ LA ‘NGICCA!” (per i non-aquilani: “deve fare la ferita”). E fece platealmente il gesto di radersi una guancia: poi… ZAC! Un taglio secco, forte, deciso, mentre con l’altra mano si tirava la pelle e, storcendo la bocca, continuava a fissarmi con occhi affilati.
Guardai altrove, come un cagnetto a disagio.

La “‘ngicca”, per chi non lo sapesse, è la ferita del rasoio al primo taglio della barba.
Dopo il primo attimo di imbarazzo, sgranai gli occhi con ammirazione. In quella frase lapidaria c’era tutto: l’iniziazione, il sangue, il dolore, la crescita, il rito, il nerbo del vecchio maestro. Lo guardai estasiata mentre lui era ancora immobile nel gesto del sacro taglio, e nella mia mente percorsi, in pochi secondi, la lunga carriera di quell’Orbilio redivivo.
La ‘ngicca… Uh.

Io non sopporto la vista del sangue.
A scuola giro col rasoio elettrico, la schiuma emolliente e il dopobarba al pino silvestre per medicare le ‘ngicche che fanno gli altri.
Perciò ora mi chiedo: sono stata una brava insegnante?
Ma voi mi avete fatto un fan-club su Facebook, e questo qualcosa significa, qualcosa
DEVE SIGNIFICARE.
La prima volta che un mio alunno fu bocciato ho pianto mentre facevo il verbale. Lo avevo portato allo scrutinio con un maledettissimo cinque in Geografia e per colpa di quel maledettissimo cinque in Geografia, che si sommava ad altre insufficienze, Vincenzo fu bocciato. Che io non la so neanche, la Geografia. Ma si fa??? Mi ricordo che una lacrima cadde sulla pagina del verbale proprio sul nome VINCENZO e così mi misi a piangere ancora di più, singhiozzavo sola sola, ero giovane, troppo giovane. Con me si fermò il prof Balena, esterrefatto e visibilmente preoccupato per il mio stato emotivo. Eddai, non è professionale: la bocciatura fa crescere, fa maturare, fa diventare uomini. Fa indurire la barba, lo sanno anche i principianti! Per me invece è sempre stata UN DRAMMA. La ‘ngicca.
E questo fa di me una brava insegnante?
La gente dice sì-sì-ti-vogliono-bene-perché-tu-li-aiuti-e-li-fai-promuovere. La gente dice pure che poi nella vostra vita saranno più utili quelli che vi hanno fatto piangere e dare la testa nei libri, perché la vita è dura e loro ve lo hanno fatto capire. La ‘ngicca. E’ vero, ragazzi, cavolo, ma non ci pensate a questo? dovreste fare un fan-club a chi vi ha insegnato con la frusta, non a me, che non mi ricordo la data di nascita di Ariosto, né quella di pubblicazione della Gerusalemme Liberata. Io studiavo come una matta solo le cose che mi piacevano. Perciò vi chiedo: questo fa di me una brava insegnante?
Ho sempre preteso molto dagli alunni bravi: con loro ero esigente e severa. Dedicavo invece tutta la mia comprensione e la mia pazienza a quelli di voi che faticavano ad andare avanti, i più esuberanti, quelli che non riuscivano a stare seduti. Mi ricordo le sensazioni di quando correggevo i loro compiti, cercavo di fare dei segnetti rossi piccoli piccoli, mi dispiaceva ferire il loro amor proprio segnando frasi in cui avevano messo una confidenza, un pensiero, una riflessione. Pensavo che al posto loro, all’idea di trovare le croci di Sant’Andrea sul foglio, non avrei più scritto un rigo in vita mia. E la scrittura è coscienza, è consapevolezza.
Dai bravi invece volevo sempre di più, a loro sì che li facevo, i segnacci, e li obbligavo a prendersi in carico quelli meno bravi, li tassavo per aver avuto il privilegio (per qualsiasi motivo) di essere bravi. Speravo in una “coazione a ripetere” nel loro futuro, perché sapevo che avrebbero occupato le stanze dei bottoni.
E come si fa a fare l’insegnante così, facendo la ‘ngicca a chi non se la merita?

Però voi ora siete qui, e soprattutto, a quanto mi dicono, proprio quelli “bravi”.
Gianpaolo è stato nella mia prima classe statale, 1987. Aveva l’aria da grande, era come adesso: uno humor adulto, lo sguardo sereno di chi ha una strada da fare, di chi al Luna Park, nella casa dei fantasmi, resta sul binario e guarda la luce in fondo. Spesso facevo qualche battuta e ammiccavo, e lui sapeva giocare, ci divertivamo un sacco. Quando l’ho rivisto dopo vent’anni mi ha recitato la cantilena “un, nessun, buon, tal e qual non vogliono mai l’apostrofo!“.
Ero fissata con la scrittura, l’ho sempre trovata salvifica nella vita di un uomo, vi facevo scrivere tanto, anche in modo sgrammaticato, non mi importava granché, a quello ci si pensava dopo, un tema alla settimana, in genere si leggeva in classe il lunedì, e poi altra roba e poi concorsi scolastici di poesia, di favole, scrivere scrivere scrivere! Mi sentivo il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie. E sbancavate tutto, vincevate tutti i concorsi, ti ricordi Gianpaolo, un anno avete vinto una decina di premi! Mi ricordo le deliziose poesie dei Cantelmi, tutti i vostri temi, la vena polemica di Luca, tutti i vostri racconti, perfino quella bellissima favola di Luca Vallera su una bambola di pezza, che vinse il Premio Unicef. Cavolo. Avrà più scritto una favola in vita sua, Luca Vallera?
La gente diceva che ero io a dettarvi le cose, ma voi lo sapete bene che io leggevo e mi divertivo, non toccavo niente, lasciavo le cose come stavano, al massimo mettevo qualche virgola e correggevo l’ortografia. Ma tutto restava com’era, a lasciare intatta la neve fresca senza passarci sopra con i piedacci zozzi di fango…
Mi sentivo parecchio in colpa sapete… Avrei dovuto fare tutti quei test, avrei dovuto studiare le date una volta buona, e anche le opere minori, e anche i memorialisti (e chi sono i memorialisti?), chessò un po’ di Tacito, un po’ di Livio … Invece pensavo solo alla poesia… Catullo, scommetto che ve lo ricordate ancora a memoria in latino.
Molto spesso, invitata da voi ad aprire il cassetto della cattedra, invece della classica ranocchia, vedevo saltar fuori un mazzo di fiori colorati. E una volta ci trovai una targa d’argento con su scritto: “Capitano mio Capitano…”, che ho salvato dalle macerie e che porto sempre con me. E vi rivedo tutti, proprio tutti, che mi guardate con quegli occhi indescrivibili.
Il miracolo è che dopo venticinque anni cambiano i visi, ma non gli sguardi.
Io non lo so perché succede tutto questo, non me lo spiego.
Forse perché vi sognavo come potevate essere, e i miei sogni vi piacevano.
Forse perché vi facevo sognare il mare…(“Se vuoi costruire una nave, non frustare i tuoi uomini, piuttosto insegna loro il desiderio del mare, immenso e sconfinato… “)

Ho una pagina Facebook.
In realtà un bravo insegnante non va ricordato, né con odio, né con amore, un bravo insegnante va dimenticato, perché ti entra dentro l’anima e diventa una parte di te inconsapevole, quella parte bella che viene fuori davanti alle difficoltà, quella “tigre” che ti spinge a lottare quando non ce la fai più, a scandalizzarti, quando vedi le cose
storte, a dire questo è giusto e questo no. Non ti vincola al ricordo, né alla gratitudine, fa solo il suo mestiere.
Un bravo allievo, poi, è quello che tu insegnante non ti ricordi più, né con orgoglio, né con disprezzo, un bravo allievo è quello che fa il suo lavoro in silenzio ed umiltà, senza pretendere troppo né da te, né da se stesso o dagli altri. Non ti vincola alla responsabilità del successo o del fallimento: nella foto di classe si mette da un lato, e quando la guardi dici: “Ma chi era questo?”.

Nonostante questo, io mi ricordo di voi.
E voi vi ricordate di me.

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CRONACHE COSTIERE

Premessa al lettore: questo testo fu scritto il 1 maggio 2009, all’indomani del terremoto del 6 aprile. Fotografa la condizione di chi lasciò la città per recarsi ospite negli alberghi della costa. In particolare, riproduce la difficile situazione di conflittualità che venne a crearsi allorché gli aquilani che scelsero di restare in città, nelle tendopoli, iniziarono più o meno velatamente a rimproverare i concittadini che avevano scelto di farsi ospitare negli alberghi. Chi scrive cerca di conciliare le due posizioni, mettendo in evidenza il comune stato di precarietà.
Il testo ebbe una certa risonanza nell’immediato: uscito su un giornale on-line sul quale non è più reperibile, ottene centinaia di commenti, fu stampato, fotocopiato, esposto, letto a teatro. Anche questo testo, come altri miei, perse il nome dell’autrice, e divenne voce della gente. E di questo fui felice.

Montesilvano. Francavilla. Roseto. Pineto. Tortoreto. Alba. Metteteci quello che volete.
Esco dall’albergo, settimo piano di una torre gemella.
La notte è andata maluccio come sempre, ogni porta che sbatte un sussulto, ogni treno che passa il cuore che salta. Ma esco.
Mi sento sporca, in disordine, ho la testa confusa, non ho voglia di dire buongiorno in ascensore.
Sette piani di nulla.
Non mi preoccupo, la gente che è lì è uguale a me, non serve parlare, non diciamo nulla, zombie sfollati, solo zombie sfollati.
Abbiamo le stesse facce, lo stesso sguardo. Qualcuno telefona ai parenti. Bisbiglia… “Come va?..
Sì, noi tutto bene.. Ha rifatto stanotte? No, qui non si è sentito, tutto tranquillo. Sì sì, in albergo, serviti e riveriti… Non vi preoccupate.”
Serviti e riveriti, sì. Si sa che l’ospite è come il pesce… (Oddio, no… il
frigorifero… la corrente è staccata… cosa ci sarà nel mio frigorifero? Quando potrò tornare ad aprire un frigorifero?)

Parto dalla costa, dal mare ai monti dove lei si innalzava, antica e maestosa.
L’Aquila sembra Danzica, Sarajevo… (immagini televisive del passato… che guerra era… che anni erano, che succedeva, CHI ERO).
Vado verso quella che era la casa dove abitavo.
Passo per Via Strinella, gli occhi fissi per non vedere le case tagliate, i posti di blocco, le tendopoli. Le tendopoli… le tendopoli… le tendopoli…
Il moncone del nostro Torrione sembra una matita spuntata.
E’ piegata. In ginocchio.
Non ha più lo sguardo minaccioso di madre severa.
Non voglio vedere. Voglio vedere il mare.

Il mare oggi è nero. Mare nero… (Lucio Battisti, l’adolescenza, i portici, le vasche, le colonne).
Flash back. Quando mio cugino tornava all’Aquila da Modena, in tiro come ‘Ntoni Malavoglia di ritorno ad Acitrezza, passeggiavamo insieme, felici, sotto i portici. Ogni tanto ci fermavamo a salutare qualche amico. In genere era appoggiato alla colonna, fermo come Belacqua, e sempre il dialogo era lo stesso:
“Oè!…”
“Oè…”…
“Mbé?… “
“Mbè?….”
“Quanno sci rrevenuto?” …
“Ieri” …
“Ah… E quanno te nne revà?”…
“Domani”…
“Ah. … … So’ contento”.
Che non sapevi mai se era contento che eri tornato, o che te riandavi.
Forse più la seconda.
Perché l’aquilano resta all’Aquila, sempre.
E chi se ne va dall’Aquila, tradisce…

L’albergo è bello, un quattro stelle, è un peccato che stiamo qui a lavarci i calzini nella doccia. Gli albergatori, poverini, non capiscono. Ci prendono per turisti. I primi giorni ci mettevano il cibo nei piatti dicendo “Se non vi piace c’è sempre la tenda”.
Altro che serviti e riveriti…
Ma vada per questa camera di decompressione, pur di vivere altre notti come quelle (NOTTI DI TERRORE, NOTTI IN MACCHINA, NOTTI IN STRADA, NOTTI IN TENDA….)

Tenda, boy scout, adolescenza, anni Settanta, i panini a Specchio, papà che mi faceva assaggiare il vino frizzante con la gassosa.
La piscina, le gare, Bultrini, Marino Bon che mi guarda dall’alto del muro del campetto di cemento e mi dice “Vieni-su-che-ti-voglio-insegnare-io”
(Non voglio dimenticare niente, niente…)
La grotta con le aquile, Roio, la tana dei lupi nella pineta, i tramezzini di Scataglini, i panini de Ju paninaro col tonno e i sottaceti. NON VOGLIO DIMENTICARE IL FREDDO. Al meteo della RAI, sempre “L’Aquila non pervenuta”, quanto ci faceva arrabbiare…

Il mare è diverso. E’ caldo e accogliente.
Sembra minaccioso, ma in realtà ti rassicura.. va.. viene… ONDE… ONDE.. onde…
Lei ti respingeva. Come una madre severa ti guardava dall’alto, sempre.
E lui, Il Grande Sasso, te lo vedevi svettare a ogni angolo come un carabiniere al posto di blocco. Un cerchio di montagne e gli aquilani che cercano varchi d’uscita da sempre, ma solo per finta. In realtà il chiuso gli sta bene.
Lo straniero si crede più di te, ma lui non sa scalare, non conosce il passo della salita.
NON CONOSCE LA FATICA.
NON CONOSCE IL SILENZIO.
Non conosce la stasi del falco.

Madonna Fore, il Vasto, la scampagnata di Ferragosto, Toni Sopra, Toni Sotto, La Standa, Il Cinema Olimpia.
Le Cancelle. Sposta le Cancelle, rimetti le Cancelle.
VOGLIO RICORDARMI TUTTO QUELLO CHE GIA’ NON RICORDAVO PIU’ E CHE ORA COL TERREMOTO RICORDO DI NUOVO.
Il primo amore, i sogni, la fuga all’università, tutti gli aquilani veri tentano la fuga all’università, ma anche quella è finta, serve a tornare per scelta, serve a dire “io potevo anche andarmene ma sono qui”.

Eravamo riusciti a ricreare quello che cercavamo altrove: la vita il fermento i pub il movimento lo scambio. Avevamo studiato tutti fuori, negli anni Ottanta, Roma Perugia Bologna Milano: ognuno aveva riportato a casa un pezzettino di metropoli, e ora lei era proprio bella, proprio come l’avevamo sognata per i nostri figli. Ora lei era perfetta. Perfetta.

“Come te rammetti?” (Chi fuor li maggior tui?)
Avvocati, figli di avvocati, nipoti di avvocati, dinastie di avvocati.
E così notai, dottori, medici, imprenditori. Dinastie di costruttori.
Sotto i portici loro non passavano .. sfilavano!
Ma càla da ‘ss’arbiru de cici!!!…” (di ceci).
Pasta e ceci, Le Tre Marie, la pecora alla cottora, il salame “appiccato” in cantina, la iattarola alla porta. Mio nonno nella vigna, spietrata sasso a sasso per quanto lì la terra è cattiva..
Mirycae.

Inizio a scendere, manca poco a vedere il mare.
Il pino marittimo svetta, scompigliato dal vento.
Qui la terra è fina come la farina, pianti un seme e lui cresce: olio, vite, perfino le palme.
Lei invece era dura, dovevi strapparle la terra per coltivare.
Terziario, università, casa dello studente, casa dello studente, terremoto.
Maria Grazia, Ezio, Susanna.
TRECENTO (giovani e forti e sono morti). Cantilene dell’infanzia.

“Dovete tornare dal mare prima o poi! dovete tornare, che fate ancora lì?”
Dignità, non piangete, siamo aquilani. SIAMO IN MISCHIA, l’aquilano mette la testa dove gli altri non metterebbero neanche l’unghia del piede. NON DOBBIAMO PERDERE UFFICI, CENTRI DI COMANDO, NON DOBBIAMO MOLLARE O LA MADRE MUORE. Non vogliamo fare quelli del Sud che aspettano aiuto, diamoci da fare, siamo aquilani.
Ad reprimendam audaciam aquilanorum“,è scritto.
Ma io non ne ho più, di audacia. Lasciatemi piangere in pace.
Voglio solo andare in centro, vedere la casa dove sono cresciuta…

Posti di blocco, presìdi militari, stranieri che mi impediscono di passare, non capisco la loro lingua, non hanno la nostra voce, che ci fanno qui, perché la mia città è presidiata, perché????

Faccio il giro. Torrione… Colle Sapone, contrada Camerini. Mi sembra ancora di vedere Libero che torna a casa… Libero, il crupié, la mascotte cittadina… Macchina del tempo.. Radio L’Aquila, Stefano Vespa e le cronache del Rugby, Andrea Fusco, Giampo Spada, Toni Lo Cascio. Via Accursio, Via Bominaco…. niente. Solo la devastazione.

Siamo in hotel, serviti e riveriti.
Gli amici di fuori mi telefonano, stanno in tendopoli, vogliono vedermi e io non ci sono, perché io sono al mare a scrivere le cronache costiere. Si stupiscono.
Tornano tutti, anche quelli che sono partiti scrollandosi la polvere dai sandali.
Volevano fare i notai, i giudici, gli avvocati, i medici, i costruttori.
E senza dinastia hanno dovuto andarsene, ora parlano straniero, ma l’aquilanità gli resta attaccata addosso, e tornano.
Stefania da Roma, Chiara da Barcellona, Laura da Washington, Massimo da Manerbio. Perfino gli aquilani adottivi, quelli che ci sono passati e l’hanno amata, tornano. Non possono fare altro che tornare, vedere, toccare, cercare con gli occhi i loro pezzi di porto sepolto.

Ma sì ragazzi, tocca a voi ora. Noi, lasciateci andare.
Non ce la facciamo, tocca a voi, la madre ha bisogno, restate.
Restate almeno fino all’inverno, sarà un inverno freddo e allora voi partirete, tornerete a casa perché una casa ce l’avete. Invece noi saremo qui, come sempre. Presidio alla fortezza Bastiani. Restate voi, per ora.
Lasciateci ancora un po’ qui, davanti al mare.
A piangere i trecento morti, e i muri, e i sassi delle strade.
Lasciateci appoggiati alla colonna, le mani in tasca, l’aria spagnola… Quanno sci rrevenutu? – Ieri… – Ah… E quanno tenne revà? – Domani… – Ah. So’ contento…
Sì. So’ contento.
Proprio contento.

(Montesilvano, 1 maggio 2009)

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