LA VISITA FISCALE

Diciamocelo: non è un bel mestiere quello del medico fiscale. E’ l’aggettivo “fiscale” che rovina la parola “medico”. Lo associ ad Equitalia, a un esattore delle tasse, a un mestiere che più che con i malati ha a che fare con i truffatori. L’ombra dei “furbetti” cagionevoli di salute si spalma anche sui malati veri, ma in fondo il medico fiscale sa, sente, annusa, e dopo anni e anni di esperienza capisce appena ti entra dentro casa se ci marci o no. Continue reading “LA VISITA FISCALE”

ALLE POCHE CON CUI PARLO

Un tempo, le donne brutte le chiamavano “cozze” o “racchie”.
Era un giudizio maschilista e superficiale, sul quale poi il progresso e la civiltà hanno trionfato: e così oggi le donne sono tutte belle, in un modo o nell’altro. Le “racchie” non esistono più.

NO.
NON E’ VERO.
La racchia esiste eccome, ed è sempre più racchia, anzi è molto più racchia di prima.

La racchia oggi è quella che non si è cercata uno spazio tutto suo, un’intenzione, un campo in cui svilupparsi in positivo, col sorriso: ciò che ha raggiunto a questa bella età, è uno status compensatorio di una qualche originaria mancanza. Perciò essa appare ricca, finemente addobbata, elegante in ogni particolare. E tuttavia racchia, poveretta, perché non sa che la Bellezza risiede nel complesso, sale dal dentro e si esprime in energia.

Non stupirti, Donna Bella, se a causa del suo passato mortificante oggi la racchia vorrà vendicarsi su di te. Lo farà nei soli modi brutti che conosce, poveretta. Cercherà di farti scontare la tua Bellezza, ma le è ben chiaro che non ci riuscirà mai, perciò cercherà di renderti la vita difficile. Questo le darà un gran senso di potenza, e momentaneo refrigerio. Un tempo Essa stava sotto al tavolo ad aspettare le briciole? Oggi balzerà sulla sedia, tenace come un pit-bull. E adesso che tu, Donna Bella, hai già concluso la partita, e sei altrove, in altri mondi, in altre dimensioni dell’esistere, dimensioni estranee alle competizioni (in cui in verità non sei mai entrata), come Natura vuole, ebbene, Essa vorrà inchiodarti a giocare. Adesso, a partita finita? Sì. E te la ritroverai a capotavola, a dare le carte. Ha impiegato una vita per arrivare a questo momento, senza mollare mai, mezzo secolo, una vita intera finalizzata ad essere protagonista dell’ultima scena sul grande palcoscenico: “Il pranzo è servito” è la sua grande battuta, e la dice talmente bene che sembra stia elargendo al popolo il segreto di Fatima, priva della grazia che solo sa dare l’empatia con l’universo mondo, il lavoro su se stessi, e il sorriso. Di cui essa è incapace.
Tu, Donna Bella, una delle rare con cui parlo, dimmi: quante ne hai incontrate in tutto questo tempo della vita? Tantissime. E resteranno tutte esattamente com’erano: brutte. E racchie. La loro aura color cacca offuscherà ogni addobbo, ogni orpello, ogni posizione raggiunta, ogni fama, ogni scarpa firmata, che addosso a loro apparirà fatta della stessa cacca. Ti odieranno solo perché con gli occhi parlanti della Bellezza tu dirai: “Tana.”

Cara vecchia ragazza, amica mia, una delle rare con cui parlo, che mai nulla avesti da dimostrare a nessuno, ragazza che amasti e trasudasti gioia nelle cose, a fronte del livore delle racchie, per quanto esse faranno di tutto, tu resterai come sei sempre stata: bella di una bellezza intoccabile. Gli anni passeranno, la giovinezza se ne andrà, il volto sarà coperto di rughe, le mani di vene, i capelli si faranno sottili …. ma … mio Dio, quanto sarai bella! Quanto più fosti bella in giovinezza, tanto più mostrerai la Bellezza del Tempo: non servirà apparire giovane, poiché tu lo sei stata davvero. Il tuo corpo racconterà di avere amato e concesso alla Vita più di quanto il loro ha concesso alla palestra e al dietologo. La tua pelle avrà vissuto, le tue mani amato, la tua schiena avrà portato pesi su pesi.
Ma nel compiere il semplice gesto di metterti un cappello per coprirti dal freddo in inverno; o nel gesto di legarti un foulard alla vita in estate, sulla spiaggia, con grazia sapiente; o di aprire un ombrello; o di ravviarti una ciocca di capelli in quel modo naturale che tu conosci, ebbene, non potrai che sorprendere i passanti belli con la tua bellezza fuori dal Tempo.

Gli Uomini come te Belli, gli unici che ti interessano, e le Donne come te Belle, le uniche con cui hai parlato, festeggeranno ogni giorno la gioia e lo stupore di vivere che hai saputo regalare al mondo.

L’ARIA CHE TIRA

“Sono largo, contengo moltitudini” (Walt Whitman)

Fabrizio (chiamiamolo così) sta al quinto anno, ma è ancora minorenne, 17 anni. È un sognatore, uno di quelli che quando entri in classe già gli daresti un sacco di schiaffi, a prescindere, perché sta sempre sotto al banco, invece che sopra.

Tuttavia non mi dispiace una classe dove non siano tutti allineati e compunti, mi piace che i ragazzi crescano gomito a gomito con le loro reciproche, infinite differenze. Per apprezzarle e salvaguardarle, poi, anche da grandi.

Oggi però è accaduta una di quelle piccole storie che non mi sono mai piaciute, in cui mi sento di obiettare in coscienza: ed ecco perché sono qui, e sono triste.

Fabrizio si mette contro un sacco di coetanei per via della sua impopolare popolarità: è un rapper, ha un certo numero di followers. Si candida alle elezioni scolastiche, ma fa il furbetto in campagna elettorale: posta un video senza sonoro, con la sua faccia in primo piano come un pesce in un acquario e sotto ci scrive “silenzio elettorale”, violandolo. E cosi lo trombano, con pubblico ludibrio e depennamento immediato dalle liste.

E lui che fa? Prima vuole morire. Poi incanala la delusione nell’ ironia, e ci scrive su un rap dal titolo “Depennatemi”. E gli passa.

Poi arriva l’autogestione. E lui fa una genialata delle sue: dà manforte a un amichetto del primo anno che scrive su facebook: “Se raggiungo cento like sotto la mia foto, mi faccio tagliare i capelli durante l’autogestione”.

I like naturalmente arrivano triplicati, e lui, l’Idiota (in senso Dostoevskijano, naturalmente), organizza lo spettacolo.

L’esibizione viene acclamata da tutta la popolazione scolastica sui social: tagliarsi i capelli in pubblico o per scommessa in questo caso non ha certo la valenza simbolica paolina (att., 18,18), o biblica (GdC 13-18), o francescana (Proc 12,4: FF 3088), forse non ha neanche la valenza che mettono in rilievo gli psicologi (cfr. Marie Rose More, Gli adolescenti si raccontano. Genitori in ascolto dei propri figli, Cap. “Ragazzi, attenti ai capelli!“). Forse in questo caso è stata solo una faccenda demenziale, non saprei, dettata da manie di protagonismo tutte adolescenziali, oppure ha a che vedere con una sorta di “battesimo” dei rapper. Non lo so.

Quello che so è che il ragazzino piccolo se li fa tagliare da Fabrizio, suo amico e adeguato MC (maestro di cerimonia, nella cultura giovanile sulla quale è necessaria una doverosa documentazione): pare che il piccolino ne abbia parlato anche con i genitori, mettendo la cosa in modo da ottenere un silenzio-assenso del tipo “contento tu“, come sovente accade ai genitori che vedono l’autogestione come un carnevale che dura sette giorni di infinita pazienza.

La cosa accade, è una cosa stupida, ma come tutte le cose stupide fa audiens. A molti piace, a qualcuno non piace per niente.

A chi? Ad altri ragazzi spettatori, che denunciano il fatto subito dopo. Inizia a circolare in maniera violenta e aggressiva la versione di Barney: atto di bullismo del grande sul piccolo, coercizione di volontà, plagio, violenza, gesto da naziskin. Girano parole grosse, ma piacciono tanto, perché riempiono la bocca e ti fanno sentire protagonista di un film.

Il film finisce in tragedia: si chiedono provvedimenti disciplinari esemplari, e inizia il gioco al rialzo, anche tanti altri vanno puniti, per esempio i ragazzi che dovevano vigilare e che invece se ne sono andati al bar, tornando a scuola solo per il contrappello, proprio come fanno i furbetti del cartellino. E chi li denuncia? Altri ragazzi, che chiedono pene severe, in un’atmosfera che sempre di più ricorda la fattoria degli animali e la caccia alle streghe, o il signore delle mosche e la guerra dei bottoni.

Sono cose che non si fanno, e non so quale sia la più grave. E vanno bacchettate, tutte. Così è stato, tutti i ragazzi imputati hanno capito di avere sbagliato, e hanno chiesto umilmente scusa. Saggio sarebbe stato non assecondare mai questo clima, e punire tutti come si farebbe con i figli: a letto senza cena, nota a registro, voto di condotta al minimo sindacale.

E invece no: si chiede la testa di qualcuno, a imperitura memoria. E la testa è quella di Fabrizio, il rompiscatole.

Punirlo, sì, anche perché sia di monito agli altri e perché il fatto non succeda mai più nelle prossime puntate. Punirne uno per educarne mille. Sacrificare una vita serena sull’altare del funzionamento di una macchina che non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno.

La scuola è un microcosmo, ma è un microcosmo che non può essere paragonato in toto a quello sociale: non è un riformatorio, è un ambiente protetto, ci sono regole volte alla rieducazione, alla formazione, votate all’inserimento e non all’esclusione. Quell’uno, quel solo, ha un valore. La sua vita, ha un valore.

Come si sentono adesso quei ragazzini? E come si sentono i furbetti del cartellino, sapendo che loro reato è stato considerato una ragazzata rispetto a quello del parrucchiere? e come mi sento io dopo una giornata in cui avrei dovuto forse esporre con più incisività il mio punto di vista? come mi sento sapendo che la spirale di violenza non si spezza, ma si alimenta? Sì sì, lo so, adesso tutti direte che sono la solita buonista, ormai si usa la parola buonista ogni volta che si assiste a una difesa d’ufficio. Ma questo a voi sembra buonismo, a me quello sembra giustizialismo, non giustizia. A scuola si è aperta una caccia al bullo che fa finire nella rete anche il famoso Idiota (sempre in senso dostoevskjiano), e finiscono sul rogo un sacco di ragazzini border che, a questo punto, buttati giù dal bordo, ma nella parte sbagliata, non avranno più nulla da perdere, e gli toccherà fare i bulli per davvero.

E mi addolora l’aria divertita con cui tutti quanti hanno aspettato lo spettacolo, per poi denunciare alle autorità competenti. Mi ferisce che nessuno abbia pensato ad evitare il fatto, per evitare la punizione. A prevenire, piuttosto che a curare. Ora abbiamo dovuto punirli per forza, perché a scuola c’è la certezza della pena. Solo a scuola, con i ragazzini minorenni.

Che imparino le buone maniere con la giusta punizione. Ecco. Facciamoli, volare, gli stracci, se è l’unico modo per salvare quanti Fabrizio ci sono nelle nostre scuola d’Italia. Facciamoli volare, perché ci stiamo male in tanti. Perché lavoriamo con i ragazzi e non ci piace questo clima conflitti e di ostilità. Perché non possiamo sempre tacere. Perché tanti di noi non si vendono per trenta denari di bonus. E perché un oppositore corretto e leale ti rende migliore, mentre cento servi sciocchi ti confermano nell’errore.

Le orecchie d’asino non si mettono più dai tempi di Franti, e tanta gente ha dato la propria vita, in un passato non così lontano, perché a scuola tutti potessero avere diritto a una riabilitazione. Ma l’aria che tira non è per niente bella, per noi insegnanti della vecchia guardia

 Fareste bene a mandarci in pensione, noi che abbiamo conosciuto Don Milani e Berlinguer. Fareste bene, allora fatelo. Fatelo con un calcio. E poi rimettete bene in vista quel vecchio cartellino che c’era prima dei Decreti Delegati: “Non parlate al conducente”. Per noi, la scuola sarà sempre di chi la abita, non di chi la conduce. Chi comanda, si faccia servo, diceva don Lorenzo Milani. Ah, e diceva anche che obbedire certe volte non era per niente una virtù. Ho detto virtù? Deve essere una di quelle parole che Orwell prevedeva sarebbero scomparse dal vocabolario della Neolingua.

PIÚ CHE IPPOPOTAMI, DINOSAURI

1 Aprile 2017

Ma davvero vi è piaciuto l’uomo degli ippopotami?
Una folla degna di un guru, per una sequela di luoghi comuni: sui sentimenti, sui libri da leggere, sui primi della classe, sui libri di carta e l’odore dell’inchiostro.
Imbarazzante.
Non lui. L’entusiasmo degli astanti.
Risolini compiaciuti di giovani vecchi. Continue reading “PIÚ CHE IPPOPOTAMI, DINOSAURI”

ELOGIO DELLA PRUDENZA

Scritto di getto, dopo la lunga serie di guai capitati a giovani massacrati da attentati, presi ostaggi in paesi stranieri eccetera.

Scritto di getto, dopo la lunga serie di guai capitati a giovani massacrati da attentati, presi ostaggi in paesi stranieri eccetera.

Ragazzi, quando morite vi servono di tutto punto.
La gente che la domenica viene a mettervi
un mazzo di fiori sulla pancia e tutte quelle cretinate.
Chi li vuole i fiori, se sei morto?
Nessuno.
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IL MERITO AL CONTRARIO

SE LAVORI BENE.
Se lavori bene, sei un’autentica seccatura.
Odioso che tu riesca meglio degli altri. Odioso che gli altri vengano a paragone. Ma chi ti credi di essere? Odioso, che tu sia felice quando vai a lavorare. Non chiedi mai niente, non hai bisogno di nulla, non ti sottometti alla gerarchia. Vuoi fare solo quello che devi fare: il tuo lavoro. E lo fai con piacere. Continue reading “IL MERITO AL CONTRARIO”

IL NOME DEL PADRE

Questo scritto fa riferimento a un fatto di cronaca:
una suora va in ospedale a partorire.

Davanti al fatto, l’opinione pubblica
ha immediatamente provveduto a un linciaggio mediatico.
Ma in quegli stessi giorni due ragazze cooperanti vengono prese in ostaggio
e rilasciate dopo il pagamento di un lauto riscatto.

A questo punto, la stessa opinione pubblica che aveva linciato la suora
difende le due ragazze cooperanti adottando tutte le argomentazioni
che avrebbero dovuto valere anche per la giovane suora.
Così ho detto la mia. Continue reading “IL NOME DEL PADRE”

L’EREDITA’ DI FRANTI

Questo testo è stato scritto per un libro ideato da Mirko De Frassine.
E’ una riflessione su tutti coloro che si illudono di essere gli eredi del grande Franti: dico “si illudono”, perché nel riso di Franti c’era un universo di dolore, nel riso di questi c’è solo uno stupido protagonismo dissacratorio.
Curioso che il pezzo sia stato visualizzato da centinaia di naviganti il giorno della morte di Umberto Eco, e continui a ricevere apprezzamenti nel tempo.
Continue reading “L’EREDITA’ DI FRANTI”

LE TRE ETA’

Questa “prosetta dal sottosuolo” è stata ideata per “Gruppami”, un gruppo di donne messo insieme da Maria Luigia Molla, poi l’ho divulgata tra le mie amiche, così per ridere.  Poi Stefania mi ha scritto che ha “spopolato in ogni dove”, ed ha aggiunto: “Noi ragazze degli anni ’60 ci siamo perse le lotte femministe, ma possiamo ancora dare un contributo al defunto movimento, il più bello degli ultimi 50 anni”. Beh, a quel punto, mi sono detta vai, condividilo con tutti, il tuo contributo. Viva noi. E viva le nostre innumerevoli età, ostentate con orgoglio, alla faccia di chi ce ne attribuisce solo tre. Quasi tutte le mie amiche lo hanno già letto, ma voglio lasciarlo qui, a disposizione, perché non dimentichino il sorriso.
Lo dedico a Stefania Carusi, la mia amica di sempre. .. E ai nostri ventagli. 🙂
Continue reading “LE TRE ETA’”

LA VERITA’ SU FORREST

Li ho visti, e continuo a vederli:
quelli semplici, senza talento, ma con tantissimo impegno,
e quelli complicati, col talento, ma senza impegno.

Dicono che il talento non esiste.
Dicono che esiste solo la disciplina, lo studio, l’impegno.
Lo dicono perché guardano al successo, anche di un solo giorno in uno show televisivo. Ma il talento non ha niente a che vedere col successo, anzi, direi che raramente chi ha talento ha successo. La storia è piena di talenti falliti, morti, inespressi.

Ho una specie di radar, io, per le persone di talento, una roba incorporata tipo bacchetta rabdomante, e so sentirlo, il talento. Saperlo riconoscere è un dono, tanto quanto avercelo: e io so riconoscerlo.

Il talento è quella cosa che ti fa sembrare facile e naturale quello che fai. E’ una specie di fuoco, un’energia interiore, un’abilità fuori dalle regole, è il punto di contatto tra l’idea e la materia. Il talento è quando tu hai in testa una cosa e la vedi. A volte è anche “farla”, quella cosa, con una penna, un pennello, un martello, una diagnosi, un taglio chirurgico, una chitarra. Ma il talento che dico io può anche essere un’energia che hai dentro e che non riesce a uscire. E resta inespressa, ce l’hai solo negli occhi e nelle vene, può vederla solo chi ha gli occhi giusti.

Chi è più furbo (o fortunato) completa un talento attraverso lo studio, ha successo e diventa un artista nel suo campo, un guru. Un mix di natura e cultura.

E chi non ci riesce? Allora il talento è come la bellezza: se non sei attento diventa un limite, e ti impigrisce. Ti trovi in un Eden dove allunghi una mano e prendi la frutta che ti è stata regalata senza fare lo sforzo necessario a metterti da parte una provvista per l’inverno. Vivi. Bruci. Te ne freghi del resto. Senti il tuo fuoco, sai di avercelo e ti basta: non sviluppi altre doti, vuoi solo la poesia e non ti impegni nella prosa. Non capisci che quel banale e stupido esercizio è l’esercizio di pazienza essenziale alla formulazione di un obiettivo. Ti senti gli occhi addosso di tutti quelli che il talento non ce l’hanno, ma che sono tanto più metodici di te: ti sorvegliano, ti scrutano, cercano di imitarti. Tu senti tutto questo, e non li consideri.

Sai, saranno gli stessi che ti aspetteranno al traguardo, mentre tu ti sarai fermato a raccogliere margherite per la strada, a chiacchierare e bere birra o tisane. Forrest invece sa che ha solo la sua tigna da mulo, per riuscire. Sa che “Stupido è chi lo stupido fa”. E’ l’apologia del cretino, che sarà pure un cretino, ma alla fine vince sul tuo bellissimo talento bruciato.

Eh già. Però – lasciatevelo dire – quello col talento sprecato, quel tizio lì, quello che “era”, quello che “poteva” e che poi non ci ha fatto niente, quello che viene additato come “fallito”, ha un fascino inspiegabile, agli occhi dell’anima. Riuscite a vederlo? Riuscite a vedere quella luce che ha dentro? Io sì. Che spettacolo straordinario. Quante volte l’ho visto, quante volte mi sono commossa davanti alla vita sfasata di un talento buttato. Ho partecipato di quella rinuncia con uno stupore così intimo e così perfetto da farlo mio, quel suo talento bruciato.
Per me, quello è lo spettacolo più incomprensibile della vita.

Bella roba, direte voi.
Eh sì. Bella, bellissima, straordinaria roba. Niente retorica della corsa, come Forrest. Niente mito dell’arrivo a tutti i costi. L’auto-spegnimento del talentuoso è uno sputo per aria, uno sputo al successo: il talentuoso si rovina perché è viziato da un motore che gira troppo alto. Sente il tempo della vita come una spada, lo sente scorrere, sa che non ne ha quanto ne vorrebbe, e così lo brucia, brucia tutto, insieme al suo talento. Magari arriva a un passo dal traguardo e si ferma, perché non gli interessa di arrivare: lui è lì, è evidente che ha vinto, è arrivato senza sforzo, allora a che serve tagliare il nastro? E non lo fa.
Allora prova altro, gira confuso a caccia di cose che non sa fare, assaggia tutto, curioso di tutto quello che è intentato, diventa inconcludente, vuole testare altri terreni, invece di insistere su quello in cui riesce bene. Non deve dimostrare niente (è talmente evidente!) e così spinge, spinge sull’acceleratore che ha dentro, sfida sé stesso e la vita, fino all’ultimo respiro, lassù, sulla vetta… Il talentuoso schifa la sua fortuna, e si mette a competere in cose che non gli appartengono. “Fa” lo stupido: rientra nel pacchetto in dotazione alla nascita.

Insomma alla fine li vede tutti che lo sorpassano. Tutti quelli che investivano con prudenza sul loro futuro e mettevano l’arte da parte, e lui no, lui no, lui non investiva nulla perché aveva già tutto.

E così ti sei buttato via. E ora indossi una tuta da meccanico e passi la vita sotto il fondo di un’auto a raccogliere in faccia macchie di grasso, mentre quelli che non sapevano fare niente, ma si applicavano ogni giorno, dai e dai, un po’ alla volta, hanno messo su un bel quartierino coi gerani alle finestre e il registratore di cassa alla porta.

Ecco, il talento che dico io, è quando hai tutto, e lo butti via.

Bel talento, direte voi. Quello bravo, con la sua piccola e insignificante utilitaria da quattro soldi, ti sorpasserà strombazzando e guardando dal finestrino a manovella la tua Ferrari elettronica in panne sul ciglio della strada. L’hai bruciata. Così, accelerando.
Solo per il gusto di sentire WWWROOOOOMMMM…

Perciò oggi, quando incontrerete lo spazzino, o un disperato, o uno scaricatore di cassette, o un barbone, provate a fermarvi. Guardate con occhi puliti: solo la Poesia riesce a sentire che cosa significa avere tutto ai propri piedi, e riuscire a non volerlo.
Perciò siate contenti, se non avete potuto bruciare il talento che non avevate.

Ma per capire tutto questo bisogna avere del talento.
Magari bruciato.

gary-sinise

Forrest Gump – “Perché corre?”

AFFRONTARE LA PAGELLA

La fine dell’anno scolastico è un momento delicatissimo per tutte le componenti attive della società, dai diretti interessati, i ragazzi, alle famiglie e agli insegnanti, che raccolgono in questi giorni il frutto del proprio lavoro. Didatticamente è un momento cruciale, che i docenti vivono con quella leggera emozione che si prova nel vedere i propri ragazzi cresciuti, sia come studenti che come persone, perché di anno in anno i ragazzi apprendono non solo nozioni e contenuti, ma anche comportamenti e capacità fondamentali, come l’autocontrollo e la correttezza di relazione con l’autorità e le istituzioni, che deve essere disinvolta ma non sfrontata, obbediente ma non servile. Ed è a fine anno che la valutazione di uno studente diventa “complessiva”, atta cioè a valutare non tanto la singola performance, quanto un processo durato un anno intero. Questo  concetto non è sempre chiaro, spesso ci si lascia attrarre da una considerazione sbagliata sia delle ultime verifiche, sia dello scrutinio finale o dell’Esame di Stato, che vengono erroneamente vissuti come momenti in cui “cala la mannaia”. I ragazzi devono comprendere che la funzione della scuola non è quella di una caraffa graduata, che misura “quanta” acqua è entrata nella brocca. Ogni studente ha una sua storia, un suo percorso scolastico e uno stile di apprendimento che devono progressivamente affinarsi e maturare nel tempo. La fine di un anno scolastico si pone come tappa fondante per orientare, indirizzare e indicare, attraverso un giudizio, come questo stile di apprendimento  si stia evolvendo o possa diventare sempre più funzionale. Bisogna spiegare ai ragazzi che lo “sprint finale” su cui molti di loro fanno affidamento non può che cercare di riempire un po’ quella brocca di acqua, raccogliendola fortunosamente da qualche pozzanghera, ma a nulla servirà ai fini del processo valutativo o di crescita culturale. I ragazzi dovrebbero avere segnali chiari: le verifiche degli ultimi giorni, la pioggia dei compiti in classe e degli “interrogatori” (così loro definiscono in gergo scolastico le ultime interrogazioni) disorientano, creano false aspettative. Senza nulla togliere a chi intenda migliorare la propria posizione, bisognerebbe cercare di far comprendere che la prestazione finale realizzata in prossimità del nastro di arrivo in modo ansioso e compulsivo non è un sistema funzionale. Naturalmente il buon senso dei docenti gioca quasi sempre a favore dei ragazzi e i consigli di classe valutano sapientemente le diverse situazioni, anche perché spesso succede che a fine anno emergano fatti prima sopiti, che i ragazzi decidono di condividere con gli insegnanti solo quando si rendono conto di non riuscire più a “riprendere le redini della loro vita” (questa è l’espressione più diffusa). Il debito scolastico è un’opportunità per recuperare quanto irrisolto o confuso, e non va vissuto come un fallimento, ma come una crescita, come accettazione di una regola volta al recupero. Certo, diverso sembra essere il caso della bocciatura, più raro ed estremo, a cui comunque si giunge dopo una serie di richiami sistematici, di avvertimenti, di convocazioni a colloquio dei genitori. I fallimenti scolastici devono essere vissuti, per quanto possibile, come una tappa di crescita, e va insegnato anche il modo con cui reagire ad essi. In questo periodo finale tutti i ragazzi devono essere assistiti e confortati dai genitori, sia in caso di successo che di insuccesso: non è superfluo raccomandare ai genitori di congratularsi con i ragazzi promossi, con serietà e soddisfazione, per l’impegno profuso e per i risultati ottenuti, per procedere insomma al “rinforzo”. In caso di insuccesso, invece, i genitori e i docenti dovrebbero procedere in sinergia, dare lo stesso segnale, indicare a una sola voce che il modo in cui il ragazzo ha lavorato e studiato non è stato produttivo e cercare con calma di individuare le motivazioni che hanno portato all’insuccesso. In questo modo, quello che si presenta come un momento drammatico potrà trasformarsi in una rara e preziosa fase di crescita e di condivisione. Il debito o la bocciatura non arrivano quasi mai inaspettati, ma in certi casi alunni e genitori confidano fino all’ultimo nella benevolenza del Consiglio di Classe: bisogna insegnare che non è un bel vivere fare affidamento sulla “comprensione” o dipendere da essa. Richiamarli alla dignità, al rispetto di se stessi, credere nella loro capacità di recupero. Un ragazzo richiamato da un insegnante o da un genitore stimati, cercherà da quel momento di dare il meglio di sé e pian piano imparerà a farlo per compiacere se stesso, non l’insegnante o il genitore che l’ha richiamato. E così diventerà un circolo virtuoso. Ma la capacità di iniziare la virtù del circolo, gli strumenti per farlo, li possiede l’ adulto: il ragazzo li sta ancora cercando, e li impara da noi.

HO UNA PAGINA FACEBOOK

Ripropongo la lettura di questo brano dedicato ai miei studenti.
Il brano fu scritto nel giugno 2009, ma lo dedico oggi a tutti gli insegnanti che hanno un diverso parere in merito alla… “ ’ngicca”. La pagina si chiama “Quelli delle classi di”, che nacque da un’idea di Gianpaolo Tronca. Il gruppo esiste ancora, e Gianpaolo mi ha aggiunta agli altri amministratori.

Ho una pagina Facebook e io non sono neanche iscritta a Facebook.
Ho una pagina Facebook e io non so neanche come funziona, Facebook.
Ho una pagina Facebook, si chiama “Quelli delle classi di Luisa”, e io ‘sta cosa non me la spiego, non credo di meritarmela. Sono stata una brava insegnante?

Tanti anni fa, dopo una conferenza, conobbi, (mio malgrado) un grande professore, un’icona della cultura accademica aquilana.
Quando il detto luminare seppe che ero un’insegnante di liceo mi guardò dall’alto in basso un po’ schifato. Eh, non mi presento mai bene, in verità, alla cultura “ufficiale” (che? questa qui, un’insegnante di liceo?)
Dopo un attimo di silenzio pronunciò, soffiando e sbuffando, questa fatidica frase (immaginatevelo un po’ come il Padrino): “… mmmpffff… Veda Signorina… fffffh… Il professore… ffffffshhh… Il professore … (suspance) … il vero professore… TÀ FÀ LA ‘NGICCA!” (per i non-aquilani: “deve fare la ferita”). E fece platealmente il gesto di radersi una guancia: poi… ZAC! Un taglio secco, forte, deciso, mentre con l’altra mano si tirava la pelle e, storcendo la bocca, continuava a fissarmi con occhi affilati.
Guardai altrove, come un cagnetto a disagio.

La “‘ngicca”, per chi non lo sapesse, è la ferita del rasoio al primo taglio della barba.
Dopo il primo attimo di imbarazzo, sgranai gli occhi con ammirazione. In quella frase lapidaria c’era tutto: l’iniziazione, il sangue, il dolore, la crescita, il rito, il nerbo del vecchio maestro. Lo guardai estasiata mentre lui era ancora immobile nel gesto del sacro taglio, e nella mia mente percorsi, in pochi secondi, la lunga carriera di quell’Orbilio redivivo.
La ‘ngicca… Uh.

Io non sopporto la vista del sangue.
A scuola giro col rasoio elettrico, la schiuma emolliente e il dopobarba al pino silvestre per medicare le ‘ngicche che fanno gli altri.
Perciò ora mi chiedo: sono stata una brava insegnante?
Ma voi mi avete fatto un fan-club su Facebook, e questo qualcosa significa, qualcosa
DEVE SIGNIFICARE.
La prima volta che un mio alunno fu bocciato ho pianto mentre facevo il verbale. Lo avevo portato allo scrutinio con un maledettissimo cinque in Geografia e per colpa di quel maledettissimo cinque in Geografia, che si sommava ad altre insufficienze, Vincenzo fu bocciato. Che io non la so neanche, la Geografia. Ma si fa??? Mi ricordo che una lacrima cadde sulla pagina del verbale proprio sul nome VINCENZO e così mi misi a piangere ancora di più, singhiozzavo sola sola, ero giovane, troppo giovane. Con me si fermò il prof Balena, esterrefatto e visibilmente preoccupato per il mio stato emotivo. Eddai, non è professionale: la bocciatura fa crescere, fa maturare, fa diventare uomini. Fa indurire la barba, lo sanno anche i principianti! Per me invece è sempre stata UN DRAMMA. La ‘ngicca.
E questo fa di me una brava insegnante?
La gente dice sì-sì-ti-vogliono-bene-perché-tu-li-aiuti-e-li-fai-promuovere. La gente dice pure che poi nella vostra vita saranno più utili quelli che vi hanno fatto piangere e dare la testa nei libri, perché la vita è dura e loro ve lo hanno fatto capire. La ‘ngicca. E’ vero, ragazzi, cavolo, ma non ci pensate a questo? dovreste fare un fan-club a chi vi ha insegnato con la frusta, non a me, che non mi ricordo la data di nascita di Ariosto, né quella di pubblicazione della Gerusalemme Liberata. Io studiavo come una matta solo le cose che mi piacevano. Perciò vi chiedo: questo fa di me una brava insegnante?
Ho sempre preteso molto dagli alunni bravi: con loro ero esigente e severa. Dedicavo invece tutta la mia comprensione e la mia pazienza a quelli di voi che faticavano ad andare avanti, i più esuberanti, quelli che non riuscivano a stare seduti. Mi ricordo le sensazioni di quando correggevo i loro compiti, cercavo di fare dei segnetti rossi piccoli piccoli, mi dispiaceva ferire il loro amor proprio segnando frasi in cui avevano messo una confidenza, un pensiero, una riflessione. Pensavo che al posto loro, all’idea di trovare le croci di Sant’Andrea sul foglio, non avrei più scritto un rigo in vita mia. E la scrittura è coscienza, è consapevolezza.
Dai bravi invece volevo sempre di più, a loro sì che li facevo, i segnacci, e li obbligavo a prendersi in carico quelli meno bravi, li tassavo per aver avuto il privilegio (per qualsiasi motivo) di essere bravi. Speravo in una “coazione a ripetere” nel loro futuro, perché sapevo che avrebbero occupato le stanze dei bottoni.
E come si fa a fare l’insegnante così, facendo la ‘ngicca a chi non se la merita?

Però voi ora siete qui, e soprattutto, a quanto mi dicono, proprio quelli “bravi”.
Gianpaolo è stato nella mia prima classe statale, 1987. Aveva l’aria da grande, era come adesso: uno humor adulto, lo sguardo sereno di chi ha una strada da fare, di chi al Luna Park, nella casa dei fantasmi, resta sul binario e guarda la luce in fondo. Spesso facevo qualche battuta e ammiccavo, e lui sapeva giocare, ci divertivamo un sacco. Quando l’ho rivisto dopo vent’anni mi ha recitato la cantilena “un, nessun, buon, tal e qual non vogliono mai l’apostrofo!“.
Ero fissata con la scrittura, l’ho sempre trovata salvifica nella vita di un uomo, vi facevo scrivere tanto, anche in modo sgrammaticato, non mi importava granché, a quello ci si pensava dopo, un tema alla settimana, in genere si leggeva in classe il lunedì, e poi altra roba e poi concorsi scolastici di poesia, di favole, scrivere scrivere scrivere! Mi sentivo il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie. E sbancavate tutto, vincevate tutti i concorsi, ti ricordi Gianpaolo, un anno avete vinto una decina di premi! Mi ricordo le deliziose poesie dei Cantelmi, tutti i vostri temi, la vena polemica di Luca, tutti i vostri racconti, perfino quella bellissima favola di Luca Vallera su una bambola di pezza, che vinse il Premio Unicef. Cavolo. Avrà più scritto una favola in vita sua, Luca Vallera?
La gente diceva che ero io a dettarvi le cose, ma voi lo sapete bene che io leggevo e mi divertivo, non toccavo niente, lasciavo le cose come stavano, al massimo mettevo qualche virgola e correggevo l’ortografia. Ma tutto restava com’era, a lasciare intatta la neve fresca senza passarci sopra con i piedacci zozzi di fango…
Mi sentivo parecchio in colpa sapete… Avrei dovuto fare tutti quei test, avrei dovuto studiare le date una volta buona, e anche le opere minori, e anche i memorialisti (e chi sono i memorialisti?), chessò un po’ di Tacito, un po’ di Livio … Invece pensavo solo alla poesia… Catullo, scommetto che ve lo ricordate ancora a memoria in latino.
Molto spesso, invitata da voi ad aprire il cassetto della cattedra, invece della classica ranocchia, vedevo saltar fuori un mazzo di fiori colorati. E una volta ci trovai una targa d’argento con su scritto: “Capitano mio Capitano…”, che ho salvato dalle macerie e che porto sempre con me. E vi rivedo tutti, proprio tutti, che mi guardate con quegli occhi indescrivibili.
Il miracolo è che dopo venticinque anni cambiano i visi, ma non gli sguardi.
Io non lo so perché succede tutto questo, non me lo spiego.
Forse perché vi sognavo come potevate essere, e i miei sogni vi piacevano.
Forse perché vi facevo sognare il mare…(“Se vuoi costruire una nave, non frustare i tuoi uomini, piuttosto insegna loro il desiderio del mare, immenso e sconfinato… “)

Ho una pagina Facebook.
In realtà un bravo insegnante non va ricordato, né con odio, né con amore, un bravo insegnante va dimenticato, perché ti entra dentro l’anima e diventa una parte di te inconsapevole, quella parte bella che viene fuori davanti alle difficoltà, quella “tigre” che ti spinge a lottare quando non ce la fai più, a scandalizzarti, quando vedi le cose
storte, a dire questo è giusto e questo no. Non ti vincola al ricordo, né alla gratitudine, fa solo il suo mestiere.
Un bravo allievo, poi, è quello che tu insegnante non ti ricordi più, né con orgoglio, né con disprezzo, un bravo allievo è quello che fa il suo lavoro in silenzio ed umiltà, senza pretendere troppo né da te, né da se stesso o dagli altri. Non ti vincola alla responsabilità del successo o del fallimento: nella foto di classe si mette da un lato, e quando la guardi dici: “Ma chi era questo?”.

Nonostante questo, io mi ricordo di voi.
E voi vi ricordate di me.

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