PREFERISCO VIVERE

E poi arriva il giorno in cui Bibi ti fa quella domanda.

Bibi era di quelli che a scuola, quando alzano la mano, non sai mai se stia per arrivare una carezza o una granata. Giovanissima, non riuscivo ancora a dire “non lo so”, e lui fu tra quelli capaci di insegnarmelo.

E Bibi, giorni fa, mi scrive quel messaggio: “E se nel tempo fossimo più bravi a distinguere e, purtroppo, meno avvezzi a vivere?”. Sorrido, quando leggo. Mi sembra di vederlo con la mano alzata, come allora. Ma non è più così, ci leggo dentro non più soltanto un dubbio, c’è pure una sorta di cura premurosa.

Ed io la trovo una domanda naturale, giusta e vera: è un po’ la scelta degli antichi tra otium e negotium, il pendolo che oscilla tra Narciso e Boccadoro. In più, c’è pure quel “fattore Tempo”, che crea una tensione.

E’ che chi ama le poesie va a guardare dietro la corteccia delle cose, ne cerca le corrispondenze, a dirla con Baudelaire. E a volte sceglie di raccontarle agli altri, anzi a tratti è il solo modo di guardare il mondo. Un po’ schizoide, ma non disadattato, né disadatto a quello che tu chiami “vivere”. Certo, spesso si crea un po’ una scollatura tra l’osservare e il fare, ma non dipende dall’età, o dal Tempo.

Quando sei giovane, e scegli di non essere scontato, ma a prezzo intero, anzi maggiorato, spesso ti astieni: ti frena la paura, il terreno minato. Ma con l’età – che meraviglia! – ti butti a capofitto, non te ne frega, sei forte, ed hai già dato, non devi dimostrare niente. E se a volte ti va di giocare un po’ con le parole, per regalarle agli altri, allora il pensiero ti si formula già scritto, già “parlato”, già mette in fila le parole solo, e le fa suonare…

Insomma, è come tenere acceso un fuoco da vestale, una fiaccola davvero poco pratica, se intorno a te gli altri hanno una bella torcia a LED in mano. E’ un mondo che, per risolvere i problemi, applica regole standardizzate.

Ma l’Arte no, l’Arte ti insegna che ogni problema è un tema. Ed io vorrei tornare a quel Petrarca che vanta la supremazia dell’umanista, ma non si può, né tornerà mai. Però sta a noi tenere in vita la magia che sta nell’osservare, e – quando si può – nel regalarlo agli altri.

Possiamo vivere alternando quella torcia a LED al fuoco: guardare con occhi sempre nuovi e, quando ti si offre l’occasione, comunque dire sì, a piene mani, in ogni forma. Se distingui, e se racconti quel che pensi e vedi, come anche tu fai, in modi diversi, Bibi mio, non significa essere un voyeur affacciato a una finestra: se descrivi, è proprio perché vivi intensamente. Ti fermi, e guardi. E fai fermare gli altri, perché guardino anch’essi.

Ma su una cosa devo darti atto. Bisogna vigilare: Narciso ti rovina, e Boccadoro deve riposare.

A volte distinguere diventa un vizio assurdo, comporta straniamento. Diventa come i social, e crea una dipendenza.

Allora lì, come Pubblicità Progresso, devi esser pronto e devi saper scrivere: “Ora vi lascio: preferisco vivere”.

 

LE PAROLE SONO IMPORTANTI

8 Marzo 2020

“Le parole sono importanti!”

La sequenza di Palombella Rossa mi torna in mente sempre, quando arriva l’otto marzo. Troppe parole si mescolano dentro un calderone, creando una grande confusione. Io ci darei un taglio.

Se guardo le ragazze, non è cambiato tanto, non quanto speravamo noi. La donna resta una creatura che ancora nasce e cresce dentro pochissima fiducia. Si sa che è forte. Però non abbastanza da non doverla difenderla dai lupi. E’ intelligente. Ma mai abbastanza da non doverla proteggere dai furbi. Sa sentire, ma questo suo sentire straordinario a volte offusca il raziocinio.

La vecchia storia dell’allodola di Ibsen, non è così lontana: ogni volta che una giovane si sente protetta, tutelata, elogiata per le sue doti di squisita bellezza delicata, lei sta al gioco, e – come dice Ibsen – bamboleggia. All’inizio le sembra forse un’arma, ma alla lunga le si ritorce contro, la farà sentire inadeguata. Non sarà mai abbastanza, ci sarà sempre qualcosa che le manca, senza qualcuno che la possa tutelare, proteggere, guidare. O che la sappia arginare, contenere, tanta è la forza che sente traboccare.

Certo, ora alle donne vengono riconosciute nobili e straordinarie doti… “Però”. C’è sempre quel però. E quel però vuol dire spesso che non sei capace. Da piccola è un dai, spostati, faccio io. Ma ti confonde questo strano modo, non ha un nome, lo scambi per premura. Poi cresci, e la profezia ti si autoavvera: non sei più capace! Per esempio, non sei più capace di uscire da una gabbia, mistificando la parola “amore”. Non sai chiamare più le cose con il nome giusto! E le parole sono importanti.

Forse non sai più stare da sola, forse non sai prendere in autonomia le decisioni, forse non sai cambiare una gomma, né una lampadina, forse non sai pagare una bolletta, non sai gestire i soldi in banca. Troppe volte lo sguardo che una donna legge negli occhi di chi incontra dice: ma questa dove va?… così vestita… così troppa… così  poca… così sola…così accompagnata. E altre amenità che qui tralascio per decenza, ma che hanno un gran peso su di noi. E questo –vero o falso – è spesso il  nostro percepito.

Ma se la vita, nel gettare i dadi, un giorno le butta su una strada, quelle stesse donne, dopo il primo momento di disperazione, capiranno che non era vero. Sei capace. Sei meglio. Sei di più. E quando – mannaggiatté – ti viene da fare un passo indietro è solo perché noblesse oblige, sei come il Gladiatore nell’arena, che non sente la folla che si sbraccia perché vuol vedere il sangue. Giocano a un gioco a cui non vuoi giocare. Te ne vai via, gli lasci perfino il tuo pallone. Una rinuncia che pagherai cara, ma la fai, non per “servizio”, né per “dovere” (le parole sono importanti): è perché competere ha un prezzo troppo alto.

Le parole sono importanti, e quelle che si scrivono sulle donne, le più popolari, quelle che girano sui social, da noi stesse condivise allegramente, spesso sono scritte da uomini. Deliziosi, per carità, carini, grazie, apprezziamo veramente. Tuttavia, è un punto di vista che risiede “fuori”. E’ come scrivere qualcosa sulla fame, senza averla mai provata. Come dover descrive un colore, e non avere mai avuto occhi. Ne risultano sprazzi di realtà: tipo che se una donna si mette un vestito a fiori, si scorda che ieri le hanno fatto un occhio nero. Che se va dal parrucchiere si scorda dello sguardo da cretino del tizio che al parcheggio le ha guidato la manovra. O del capo che la vede pronta a metterlo in ginocchio con una gravidanza. Un po’ di rossetto, una vaschetta di gelato, un vestito nuovo, e riparti! Riparti, sì, e questa è la forza delle donne: ma questo è un ripartire che non guadagna mai terreno. Una bambina che con poco si consola.

Quando a sera quella gonna a fiori te la levi, quando al mattino i capelli son tornati quelli lì di sempre, ritorna pure quel sentire disgustoso di non essere capace, o d’essere sbagliata.

Ma c’è una parola che può far giustizia a tutto questo, una parola antica, bellissima, piena di poesia, che  voglio rilanciare come “taglio” da dare a questa festa: sorellanza. Vuol dire fare fronte comune, solidale. Una sorella, quando ti sostiene, non ha mai lo sguardo deficiente che sottintende che non sei capace. Lo sguardo di sorella non conosce invidia, si astiene dal giudizio, è quello che tacito ti dice: ce la fai, la mano che ti do è  per mostrarti “come”.

Quante sorelle abbiamo? Penso alle mie: sorella mi è Stefania, mia mentore lontana ma vicina. Emanuela, quando mi dice eddai, mettiti una cosa colorata! Mia sorella è Tukkia, che m’insegna a non sapere mai quanti anni abbiamo. Non so e non posso citare tutte le mie sorelle, e me ne scuso, sono troppe, ma voi donne che leggete adesso, fatevi un regalo: contate quelle vostre. Scegliete di essere sorella di qualcuna. Trovate oggi per un’altra un sorriso: all’ufficio postale (ciao Maria!), al supermercato (cia Manù!), in un negozio, in banca, a scuola. Lo sguardo bello di sorella non conosce invidia, non sa la gelosia. Ognuno cresce solo se sognato, dicono i poeti. E la sorella ti sogna come in realtà già sei, ma ancora non lo sai.

POST SCRIPTUM: A onor del vero, vorrei aggiungere una piccola postilla. I generi, in realtà, son tre. I primi due li conosciamo tutti. Ma poi c’è un Terzo Genere, il cui nome deriva da parola longobarda (le parole sono importanti). La parola è strunz*: così, senza vocale finale, anzi con quello che in linguistica si chiama lo schwa. Può essere una “o”, oppure una “a”. E’ un genere “trasversale”. E vi appartiene chi, assetato di potere o di supremazia, per emergere, affossa qualcun altro. Attenzione, non siamo più in ambito cromosomico, si tratta di un fatto prettamente culturale. Perciò, maschio o femmina che tu sia, se incontri il Terzo Genere, quello trasversale, maschio o femmina che sia, non ci cascare, quando cercherà di farti sentire sbagliato. Non lo sei, è solo che… è strunz*! Ho cercato un altro termine, ma non c’è. Le parole sono importanti.

 

IMAGINE ALL THE PEOPLE…

Questo testo fu scritto per la presentazione della mostra dell’artista Donatella Giagnacovo intitolata: “Di bianche spine”. L’inaugurazione è avvenuta nel maggio 2022, ma retrodato il testo perché la prima inaugurazione avvenne l’8 marzo 2020, ultimo giorno prima delle chiusure per covid.

Noi si sperava, un tempo, che non ci fossero più guerre.

Un tempo, ricordate? si intervistavano le miss, Miss Universo e Miss Italia, e alla domanda del giornalista “Ci dica Signorina, se lei potesse esprimere un desiderio, che cosa chiederebbe?”
La pace nel mondo!” gridava lei, con quella ingenuità un po’ sciocchina, con quel modo di illudersi così poco pratico che oggi non fa più sorridere, ma fa audience.

Con la stessa ingenuità di una Miss degli anni Sessanta, oggi, basta esporre una bandiera e mettersela sul profilo per considerarsi attori di una cultura di pace. Siamo tutti Miss Italia.

E invece dovremmo partire dalle strade, dagli ambienti di lavoro, per promuovere LA cultura della pace. Dovremmo abbattere la logica della competizione, della prepotenza, dell’arroganza. Dovremmo isolare tutti gli haters, e tutti i fanatici. Che invece sono sempre più gettonati in quanto “prestatori di idee” per chi non ce le ha.

Amos Oz scrive nel 2001 un testo che dovremmo rileggere: “Contro il fanatismo”. Il fanatismo – dice Oz – è una delle malattie peggiori del mondo moderno. La contrae chi pretende in tutti i modi che gli altri la pensino a modo suo. Il fanatico possiede “quell’inclinazione comune a rendere migliore il vicino, educare il coniuge, programmare il figlio, raddrizzare il fratello, piuttosto che lasciarli vivere”. La guerra è solo la punta dell’iceberg, è molto prima, che il fanatico deve essere fermato. Nell’ultimo capitolo contro il fanatismo, Amos Oz parla del ruolo dell’Europa. Dice che non dovrà più scegliere se essere pro Israele o pro Palestina, dovrà essere per la Pace. Invito a sostituire quelle due con altre due, è uguale…

E aggiungo: quando chiesero a Ghandi come avrebbe fermato le truppe di Hitler che invadevano l’Europa, egli rispose che gli europei avrebbero dovuto stendersi sui binari e non far passare i treni, anche se Hitler quei treni li avrebbe fatti procedere lo stesso.

Uh… non siamo capaci di sederci sui binari, come suggeriva Ghandi per fermare i treni di Hitler.
Ma siamo capaci di farci passare sopra treni invisibili, mille volte più distruttivi di quelli.

Abbiamo fallito? E dove? Un tempo sognammo la libertà di vivere. Sognammo eserciti “di pace”. Uomini e donne che distribuivano cioccolato e latte condensato, salvavano migranti, trovavano dispersi, portavano acqua, spalavano fango, toglievano macerie…

Crescemmo col Viet Nam, il napalm, i reduci. Crescemmo da madri e da nonne che raccontavano gli orrori, la fame, le fedi alla patria per farci i cannoni. E dicemmo “mai più”. Educammo intere generazioni a questo “mai più”. Le canzoni dicevano: “Ehi, ragazzo, sii semplice, sii qualcosa che ami e capisci”. Simple man, Lynard Skynard, e la insegnavo a scuola, un tempo.

Poi ci hanno subissato con le menate sulle prestazioni, con l’efficientismo, l’ossessione per il “risultato”, i quiz, i test, l’educazione civica … e ci hanno tolto quanto di più bello avevamo per insegnare a promuovere LA cultura della pace. Hanno usato la tecnica della rana bollita: la rana, dentro la pentola, si abitua alla temperatura in aumento, e si ritrova lessa senza neanche accorgersene. E di nuovo, come rane bollite, ci stiamo abituando alla presenza della guerra, in forma di tifoseria da stadio.

Imagine…” sussurrava John Lennon.