DOING GONG

A Sara
A Michele
grazie

 

Se ti piacciono le esperienze forti, devi fare il Gong.

Da tempo me lo avevano consigliato per via dei dolori – e tutto il resto, ma da brava iperlogica razionalista avevo sempre accuratamente evitato.
Il gong? che roba è? Stregonerie? Siamo impazziti?
E in verità anche stavolta ce l’ho messa tutta per evitarlo, sbagliando per ben due volte sia il giorno che l’ora. Ma qualcosa alla fine ha voluto comunque che io partecipassi.

E l’ho fatto.

Che vi devo dire? Non c’è un modo per raccontare com’è il bagno di Gong, va fatto e basta. Non credevo minimamente agli effetti miracolosi del suono, e fino al momento prima di cominciare il trip mi ripetevo che non sarei riuscita a stare sotto quel rumore, a sintonizzarmi con quelle onde. Mi dicevo che qualcosa sarebbe andato storto, che mi sarei sentita ridicola e che non sarei neanche riuscita ad alzarmi ed andarmene durante il “bagno”, che avrei dovuto subire tutta quella frustrazione, ingoiandomela per tutto il tempo.

Ma il suono è venuto a prendermi.

E’ il suono che viene a prenderti, e ti porta via.
Dove ti porta? Indietro.
Indietro nel tempo: dal passato più recente a quello più lontano.
Cerco di raccontarvi.

All’inizio senti alzarsi un gran vento. Non so come si possa tirar fuori il vento dai gong, ma è così. Un vento sempre più forte, sempre più forte, e poi il suono cresce, cresce, e non sai più dove ti trovi, sai solo che stai in una dimensione sconosciuta, e che stai ripercorrendo un fiume, stai rivivendo tutti quegli eventi che in un modo o nell’altro ti hanno segnato, nel bene o nel male. Tutti, ad uno ad uno. E mentre sei lì, sotto quella pioggia di suono, piangi e ridi, e non sai come avvenga. Ti senti su un’astronave, fianco a fianco con dei viaggiatori sconosciuti, diretta verso un ignoto che più ignoto non si può, un altrove senza spazio e senza tempo, dentro al trauma più recente che il tuo corpo ricordi.
Per me, n
aturalmente, è stato il terremoto.

Ho visto crollare muri e case, e tutta la città. A quel punto è iniziata a uscire dell’acqua dagli occhi, tanta acqua, non lo chiamerei piangere, direi che somigliava di più a uno sciogliersi di sale. Euridice, Euridice fatta di sale si scioglieva sotto la pioggia di musica di Orfeo, Euridice era sale, statua di sale, Orfeo suona e lei si scioglie. Questo pensi. Senza pensarlo.
Ti vergogni, un poco, e ti trattieni, purtroppo, perché sei vigile, sei distesa a fianco di altre persone che non conosci, e che non ti conoscono. Poi senti qualche singulto, qualcuno che tira su col naso, altri che lanciano piccoli lamenti, come vagiti di bambini appena nati…

Allora togli il freno a mano, e vai indietro. Indietro, indietro, indietro…

Il suono ti investe, allarghi le braccia ti lasci investire, allunghi il collo, senti gli altri passeggeri che si muovono appena, nell’astronave che oltrepassa il tempo e lo spazio.

E’ stato a questo punto che ho iniziato a sentire un freddo, ma un freddo così forte, un freddo assurdo, anzi non era freddo, erano forti tremori che mi scuotevano il corpo, inarrestabili. Ho cercato di avvolgermi nella coperta che avevo a disposizione, ma non c’era verso di scaldarmi, perché non ero fredda, era quella frequenza, le braccia e i piedi e le gambe e persino la schiena tremavano, scossi da una forza potente, fatta di ghiaccio…

Cambiata frequenza di Gong, il freddo è passato, il tremore è scomparso, tutto è tornato tranquillo. Altri suoni, e ti lasci investire dall’onda, apri le braccia, l’abbracci e non sai cosa abbracci. Alzi il mento, dici al suono di prenderti. Tutto in assoluta lucidità.

Finito il bagno, Michele spiegava qualcosa, ma non ascoltavo.

Ero impegnata ad ascoltare me, incredula.
Sono entrata nell’astronave che mi sentivo uno straccio, e sono uscita piena di energia. E’ stato come (come dire?) aver risanato un solco profondo ed antico.

Se io leggessi questo racconto che ho appena scritto, se lo leggessi scritto da un altro, sorridei, parlerei di suggestione, di stregoneria. Direi “che sciocchezza”, come forse state dicendo anche voi. Perciò vi capisco.
Magari anche voi, come me, non piangete da almeno vent’anni.

Ma un po’ di quell’acqua che usciva dagli occhi m’è arrivata alle labbra.
E – credetemi – sapeva di sale.