NOMINA SUNT CONSEQUENTIA GENERUM

E’ che gli uomini devi farli contenti.
Che ti siano compagni, padri, amici, parenti di ogni sorta… gli uomini devi farli contenti e basta.

LUI conosce sempre tutto, capisce sempre tutto, sa tutto di tutte le cose, in tutti i campi. LUI, se non sa, improvvisa. E’ tuttologo.

E’ raro trovare un uomo che riconosca a una donna qualche merito in qualche campo. Devi essere una campionessa olimpica, o un premio Nobel, allora sì, beh… Anche se poi vai a sapere se nel privato non sia lo stesso. Voglio dire, vai a sapere se, per esempio, Federica Pellegrini non debba tacere davanti a un compagno che ha paura dell’acqua, eppure pontifica anche sul nuoto…

Incontro Laura dopo tanto tempo.
Passeggia insieme a suo marito, sottobraccio, bella coppia da sempre, una di quelle coppie che tu dici “funziona”. Ci fermiamo a chiacchierare vicino a un albero con i rami lunghi e cadenti, che oscillano a ogni ventata. A un certo punto lei, per nulla infastidita dalle fronde, dice ma guarda che bello questo ciliegio!

Il marito subito puntualizza: non è un ciliegio, cara! non vedi che è un giovane albero di noce? In realtà non ricordo esattamente che cosa proponesse come alternativa al ciliegio, ma non è importante. E’ importante il modo in cui la contraddice, con assoluta fermezza.

Laura insegna scienze, è una persona molto preparata, e se dice che quello è un ciliegio, è un ciliegio. Ma il marito insiste: noddavvero, quello non è affatto ciò che Laura dice che sia.

Imbarazzo di Laura?

Nessuno. Mi guarda, fa spallucce e accenna sul viso un’espressione che non dimenticherò mai. Un’espressione che … come faccio a descriverla? un’espressione furbetta, come se facesse l’occhiolino senza farlo… una leggera smorfia della bocca… una strizzatina di palpebre… insomma come a dire: vabbè dai, Luì, facciamolo contento, che ci costa?
Caspita. Bel gesto.
Sono quasi tentata di dargli per nome “Amore”.

Ma è proprio sui nomi delle cose che non ci capiamo, uomini e donne. Sembriamo razze diverse, sembriamo addirittura abitare pianeti diversi, pur calpestando la stessa terra. Dai nomi che i maschi danno alle cose si capisce che il loro mondo è diverso da quello delle femmine. Amore? Sarà amore per LUI.

Tu invece su una questione come quella del ciliegio ti ci impunti. A te sembra un gesto di ipocrisia acconsentire a tutto quello che dice, acconsentire come hai visto fare dalle madri e dalle nonne. Una mancanza di rispetto.
E’ un atteggiamento culturale, non di carattere.

Eppure ti trovi in un mondo in cui tutti hanno finito per dire che discutere per un albero è stupido. Bisogna cedere sulle cose poco importanti, per non mollare poi sulle cose serie. Lasciare le prime, e prendersi furbescamente le seconde.
E, soprattutto, non confonderle.

Perciò, se sai stare al mondo, quando il tuo compagno-marito-parente o quel che sia dirà una stronzata, tu sorridigli, sbattendo le ciglia, senza alcun imbarazzo. Esattamente come fai quando il tuo cane fa la cacca per la strada: la raccogli col sacchetto, la chiudi per benino, sorridi soddisfatta per la funzione fisiologica espletata.
Poi, butti orgogliosamente nel cestino il sacchetto con la cacca.

Davanti a una stronzata, gli devi dire che ha ragione. E lo devi guardare con gli occhi pieni di tenerezza. E’ questo che lui chiama Amore.

Allora sì, che le cose funzionano.

IL GRANDE SAM

terremoto l’aquila ricostruzione

Al “doc” Samuele Di Giovanni, “IL” dottore.
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Quando c’erano macerie, io vedevo i palazzi.
Ora ci sono i palazzi, e vedo le macerie.

Ovunque io vada, l’occhio si ferma negli angoli dove s’annicchiano mucchietti di fiori marci, davanti a gigantografie con facce di ragazzi, davanti a una bandiera greca ormai sfilacciata da dieci anni di piogge e di vento.

Però stamattina c’era il sole, un sole buono, e me ne stavo per tornare a casa tutta contenta. Poi Teo mi tira da una parte, su un prato dove pascolano due cagnetti al guinzaglio.

L’uomo che li porta lo conosco, è Samuele. Ma non so se lui conosce me, perché Sam è un professionista molto noto in città, e quelli molto noti non sempre ti si ricordano.
Invece no, Sam è un grande, mi si ricorda: come tutti i grandi non se la tira, sembra uno qualunque, normale direi, normale nel parlare e nel vestire. E così ci sediamo su una panchina della Villa Comunale, e scambiamo due chiacchiere, e come sempre si finisce a parlare del terremoto.
Non resisto, e glielo chiedo: dov’eri quella notte? se eri qui quella notte, raccontami, dai

E lui racconta.
Non c’ero, sono corso qui da loro nel giro di cinque minuti. Proprio qui, in questo punto, ho incontrato mia figlia senza scarpe col pigiama strappato, ha detto solo “mamma è morta”. L’ho lasciata su questa stessa panchina dove stiamo seduti, è incredibile, proprio su questa panchina… Corro lì, vedo il palazzo imploso, mi metto le mani ai capelli, di 22 persone che abitavano lì mi dissero che ne mancavano 14. La polvere non si posa, brancolo un po’ sul cumulo di macerie, non so che fare, provo a scavare, e a un certo punto da lì sotto sento prima un guaito, poi un abbaio, l’abbaio di un cane, il mio cane che chiama, è vivo! e se il cane è vivo… c’è nessuno lì sotto? Chiamo i soccorsi… no… Impossibile contattare chiunque, chiamo aiuto, grido aiuto, vedo arrivare due ragazzi, uno di questi è un gigante, è enorme, gli dico “lì sotto, lì sotto”, lui comincia a scavare a mani nude, le mani due pale, una bestia, non si è mai riposato e mannaggia non so neanche come si chiama, so solo che era di Teramo, perché glielo chiesi, un volontario, emmannaggia, ci penso sempre, che non l’ho potuto mai ringraziare… è scomparso subito… è andato a scavare da un’altra parte con le sue enormi pale…

Qui Sam tradisce un piccolo singulto nella voce, una strozzatura, ma si riprende subito, dice è scomparso, scomparso subito dopo che ha tirato fuori mia moglie e i due cani, s’era creato un piccolo varco che li aveva protetti, lei s’è rotta il bacino ma l’ha tirata fuori, l’ha tirata fuori, anche i cani, e poi è scomparso…. scomparso. Guarda!

Mi dice guarda! e mi indica il braccio libero dal guinzaglio: i peli sul braccio sono tutti dritti, a fatica riesco a guardare perché… cavolo, dev’essermi andato qualcosa negli occhi.

Guardiamo il suo braccio, poi ci guardiamo in faccia, increduli nel vedere quell’orripilazione da sola memoria, e poi cominciamo a ridere, a ridere, e guarda il braccio, e guarda la faccia che ride, la faccia che ride e il braccio… e continuiamo a ridere, finché lui non lo abbassa lentamente. quel braccio.

“Siamo diventati come quei vecchi che parlavano sempre della guerra… ” dico io, ridendo e stropicciandomi gli occhi. Si mette a ridere ancora di più, annuendo, il grande Sam, e ridiamo, ridiamo ancora…

In mezzo al cinguettio di tutta quella gente che vuole dimenticare, noi ridiamo e pensiamo silenziosi che dimenticare non solo non è possibile, in fondo non è neanche giusto. E ogni giorno voglio incontrare un grande Sam, che mi racconta la sua storia.

Son quasi dieci anni.
Quando c’erano macerie, io vedevo i palazzi.
Ora ci sono i palazzi, e vedo le macerie.

C’è un andare nel mio restare…  c’è un restare nel mio andare…

PALLIATIVI E PALLIATIVI

Lei era una di quelle scomode.

Parliamo di quindici anni fa, quando gli studenti “scomodi” erano quelli che ti mettevano in difficoltà perché studiavano, erano colti, ne sapevano una più del diavolo, e il diavolo eri tu.

E lei era così: cazzuta.

Cazzuta al punto che i suoi docenti non sempre la sopportavano, perché parlava troppo, e diceva cose giuste, e se qualcuno le diceva sbagliate, lei era lì a gridarglielo in faccia. Ricordo che pensai sorridendo “farà un lavoro tosto, e importante, un lavoro di quelli che in pochi sanno fare”.

E così l’ho riconosciuta subito, come se quel giorno io l’avessi vista oggi.

L’ ho riconosciuta pure se non potevo vedere i ricci, raccolti nella cuffia chirurgica verde, né il naso, né la bocca, coperti dalla mascherina. Gli occhi, però, erano uguali, proprio come quando lo Scrittore dice “due cavalli bizzarri”, due purosangue che non stanno mai fermi.

Anche lei mi riconosce subito.
Mi chiama “prof”, io mi alzo dalla poltrona della sala da aspetto, e le vado incontro, mentre i due cavalli mi fissano inquieti e interrogativi.

“E’ questo che hai scelto di fare?”
“Sì, ho viaggiato un bel po’ ma alla fine eccomi qui, una bella struttura, aperta solo quattro anni fa, guarda, è bellissima. Qui posso accudirli bene”
“Fino alla fine” dico io, sorridendo amara.
“Fino alla fine senza che soffrano” aggiunge lei.

“Eh, il dolore, Laura, che grande civiltà riuscire a tenerlo lontano il più possibile, che grande conquista ottenere che si percorra tutta la strada, fino in fondo, senza impazzire di sofferenza”
“Si crea un legame” sussurra, guardando altrove.
“Non voglio saperlo”.

Sento tutto, dietro questa calma apparente,  in questo posto bellissimo, all’avanguardia, non sembra neanche di stare dove stiamo, sono mio malgrado capace di avvertire e non vorrei.

“Praticamente vivo qui dentro”
“Ci credo”
“E’ il lavoro più bello del mondo”
“Perché sei una cazzuta guerriera”
“Mah… “.

Ci sono tanti tipi di dolore.
I dolori dell’anima puoi provare a lenirli in qualche modo, e se non ci riesci la scienza ti aiuta anestetizzandoti, cosicché passi il tempo, e tu elabori, finché pian piano torni a cavartela da solo. E poi ci sono i dolori del corpo, quelli che tante volte nessuno ti crede che ce li hai. E che qualche dottore bastardo dice che te li devi tenere. Perché? Perché non c’è un dolorometro che li possa misurare. O semplicemente perché ci sono i medici- sadici, convinti che l’uomo “ha dda soffrì”, convinti che il paziente deve essere paziente e basta.

Ma ci sono anche altri medici, convinti che la vita vada vissuta davvero, fino all’ultimo istante. E che sia un gesto di civiltà garantire una dignità a questo dolore. Una dignità che non va negata nemmeno agli animali.

All’improvviso mi viene da ridere: penso alla mia amica Giovanna, che per sostenere sua madre sofferente s’è dovuta arrabbattare a procurarsi qualcosa di molto speciale, visto che il suo medico si rifiutava di darle analgesici. Se conosceste Giovanna, così pavida, così elegante e timida, capireste quanto debba essere stato difficile trovare quel “qualcosa”. E assumersi la responsabilità di somministrarlo. E poi tornare a prenderlo, e andare avanti così fino alla fine, fino alla fine, aiutandosi anche lei, con quel qualcosa, perché dai, che male c’è? dove altro la puoi prendere, la forza?

E rido, Perché ancora adesso Giovanna, dopo l’ultimo viaggio, sta davvero bene.
Prima era sempre triste, ora invece la vedi serena.
A volte la senti perfino canticchiare.
Quando cammina, non sembra più che abbia ingoiato un ombrello.
Ha il passo morbido, leggero leggero!