Ha fatto il suo tempo
la memoria del viaggio
di una ricostruzione
che non c’è.
Io ti terrò, anno passato e caro
così come si tiene un segnalibro,
come un solco profondo nella terra,
come un libro raro,
un magnifico
dispensatore di squilibrio.
Ho avuto in te
l’albero che m’ha fatto respirare.
E il santo blues,
e questo blog, che m’ha dato da inventare
un’altra me, un altro mio cantare.
Solo i numeri dispari
fanno questo miracolo.
Gira, ruota del carro,
gira ora, vortice buono, nebbia,
brucia, brucia il mio incenso nel braciere.
I numeri pari stanno a cuccia buoni buoni
pareggi con te stesso nello specchio.
Coppia oltraggiosa, doppio di nessuno.
Getto i miei dadi sul tappeto verde.
Duemilatredici più Uno.
E che va tutto bene.
E che le C.A.S.E. sono meglio delle case che avevamo prima.
E che non paghiamo le bollette.
E che dentro ci stiamo tanto ma tanto bene.
E che non ci diamo da fare per la ricostruzione.
E che non collaboriamo con l’amministrazione.
E che in città è tutto un fervore di lavori.
E che di che ci lamentiamo.
E che siamo dei piagnoni.
E che ci piace la lavastoviglie di Berlusconi.
E che siamo dei zozzoni.
E che dovremmo scendere giù a pulire.
E che chi stava in affitto qui non ci vuole venire.
E che stiamo nei ghetti e che ci sta bene.
E che al ghetto però di voi nessuno ci viene.
…..
E tutto questo mentre si sta
a mangiare panettoni
cucinare capitoni
e sentirsi tanto buoni
pacifisti
animalisti
antirazzisti
-però qui chi v’ha mai visti.
Siamo noi quello straniero
per cui fate gli altruisti
siamo noi dentro a una guerra
per cui fare i pacifisti.
Siamo noi
gli straccioni muti e tristi
e voi, la Storia lo dirà,
VOI
i negazionisti.
“Non mi interessa sapere che cosa fai per vivere.
E non mi interessa sapere quanti anni hai.
Io voglio sapere se rischieresti di renderti ridicolo per l’avventura di esistere.
Voglio sapere se puoi sedere col dolore, mio o tuo, senza muoverti per nasconderlo, o logorarlo, o ripararlo.
Non mi importa sapere dove vivi e quanti soldi hai.
Voglio sapere se riesci ad alzarti dopo una notte di dolore e di disperazione, consumata fino all’osso, e fare ciò che deve essere fatto con i ragazzi.
Non mi importa dove o cosa o con chi hai studiato.
Io voglio sapere cosa ti sostiene quando tutto casca”
Un giorno per la fretta s’è inceppata
la cerniera di uno scarponcino appena comperato.
“Lo butto… ” dissi dispiaciuta,
ma poi ci ho ripensato.
E sono andata da quel ciabattino
che ha la bottega proprio sulla strada
e non ha l’aria di servire Prada.
“Lo butto?” chiedo al calzolaio.
“Buttare? Io non ne ho mai buttate un paio.
Buttare è una parola che non ho mai detto:
perché io guardo, aggiusto e poi rimetto”.
Ha preso la mia scarpa l’artigiano
e sulla Necchi primi Novecento l’ha poggiata.
Con una subbia poi, a dente a dente,
in quindici minuti l’ha aggiustata.
Ho applaudito come una bambina
non per la scarpa, ma per tutta quella scena.
E nell’andare ho stretto la sua mano,
ruvida, consunta, da artigiano.
Sarei rimasta a lungo in quella stretta
ma l’imbarazzo ha vinto, e anche la fretta.
E sono uscita di nuovo sulla strada
dove viaggiano tutte le formiche
che hanno una sola legge da osservare:
essere stupidi, comprare, consumare,
andare sempre nuovi,
essere il proprio abito con tutta la stampella,
profumare di scemo
e non capire un mulatto un albino una zanzara una libidine un rifiuto.
Avranno sei, o forse sette anni.
Uno dei tre, quello terribile
– è sempre il più sensibile,
ha le unghie tutte rosicchiate –
mi vede e dice ad alta voce, che io senta:
“A ME LA SCUOLA MI FA SCHIFO!”.
Io rido, mi avvicino, sospiro piano e dico:
“Uh, non dirlo a me, è una vita che ci vado…”
Lui soffia, e resta con la testa bassa.
“Ci vado da quasi cinquant’anni, io, alla scuola” – dico
“però ho trovato un trucco un sacco fico”
“E quale? bugiarda, non esiste nessun trucco!”
“Oh sì che c’è:
devi vedere dentro al libro quel che piace a te:
vedrai gazzelle, astronavi, e a volte gli scorpioni.
Vedrai le stelle, le api, gli sci con gli scarponi”
“Seeeee…. e poi la mia maestra…”
“La tua maestra vedrà che sei attento
e apprezzerà che leggi e sei contento”.
Poi mi allontano, facendogli ciao-ciao con una mano.
Allora grida alle mie spalle uno dei tre:
“Signora, domani posso venire a scuola con te?”
Caro Gesù Bambino,
vola da chi sai tu,
sussurragli all’orecchio,
digli che non ne possiamo più
dei loro alberi di natale,
di quelle belle foto messe sui profili,
dei loro panettoni e dei fuochi nei camini.
Riportagli alla mente
trecentonove morti e le macerie,
e noi sfollati,
e tutte le cose serie.
Benedici questi muri di cartongesso,
fa’ che reggano finché ci stiamo appresso.
Benedici i nostri piccolissimi addobbi di Natale,
e dacci oggi la nostra lotta quotidiana
per una vita normale.
Benedici la nostra vita sacrificata,
e la nostra bella casa rovinata.
Donaci della paglia profumata,
che sia da letto per la mangiatoia.
E donaci il calore dell’asinello,
che rende il mondo tanto più dolce e bello.
E mantienici in questa verità.
Perché noi non ci cambieremmo mai,
con quelli di là.
Ti amo, Sant’Elia,
ameno colle,
ricco di signore tonde
che sciorinano felici sui balconi
ora marrocchie, ora castagne,
ora le scerte d’aglio e i fagiolini.
Bello il mio colle sopra Sant’Elia
albero d’abbondanza e d’allegria
innestato
dala nostra
malinconia.
Uriah Heep – July morning
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