IL PRATO

Questi fatti sono tutti realmente accaduti.
Anche i personaggi (quasi tutti) nascondono persone vere.
Con un po’ di arguzia, si riconoscono 🙂
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“Dio ci ha creato la memoria per farci avere le rose anche a dicembre”

(James Matthew Barrie)

Sant’Elia s’era ingoiato il progetto C.A.S.E. con tutti gli sfollati come un boccone amaro. La ridente frazione alle spalle di Collemaggio, famosa per le fave saporite, aveva visto tutt’a un tratto piombare, dopo il sisma, ruspe, betoniere e cingolati pronti a ritagliarsi due fette belle grosse di montagna.

Un colpo di tosse, una smorfia di disgusto, e Sant’Elia se l’era ingollato tutt’intero, quel boccone, turandosi il naso. Ma quello le si era piazzato in mezzo allo stomaco, e ora lei lo digeriva con un senso di pace rassegnata, aspettando qualcosa che, prima o poi, lo assimilasse o lo espellesse pian piano, per altra via da quella da cui era entrato…

Tre anni erano passati, e il grazioso paesetto, distrutto anch’esso nella parte più vecchia, non s’era tuttavia mai fuso con le nuove case. La tenuta del Barone De Curti, antico signorotto del paese, dominava dalla collina la piana rigata dal fiume. La casa nobiliare, memore di antichi splendori, era adesso poco più che un cascinale di campagna, danneggiato qua e là dal tempo e dal sisma. Pietro faceva il possibile per mantenerne l’aspetto decoroso, ma quel cascinale era ormai solo l’ombra degli antichi fasti, troppo grande da gestire, costoso e impegnativo. La macchina di Pietro, la bella moto, l’intera tenuta, erano ormai votate a un utilizzo pressoché campagnolo, ma lui viveva tutto questo in allegria, con la rudezza del vecchio giocatore di rugby e una gentilezza quasi orientale verso le persone e verso gli animali. Mai mancava, davanti al grosso portone di legno con i battenti d’ottone del cascinale, un piatto di cibo per i gatti randagi, né l’offerta di un caffè a chi si fosse trovato a passare lì davanti.

Ma gli sfollati erano ospiti scorbutici, per quanto discreti e silenziosi. Catapultati dalla città in aperta campagna, non avevano cercato di adattarsi, e non s’abbrancavano né tra di loro, né con i santeliesi. Non mollavano le vecchie abitudini, s’affannavano a ritrovare a tutti i costi i vecchi negozi, i vecchi punti di riferimento. Testardi e ostinati come tutti gli aquilani, non volevano rinunciare ai brandelli di vita precedente, e neanche guardavano la meraviglia che li circondava. Quello splendido colle si stava offrendo generoso alla ricostruzione della loro vita, prima ancora che della loro casa, ma i più uscivano al mattino e tornavano la sera, considerando quegli alloggi niente più che un dormitorio. Se solo si fossero affacciati di notte alla finestra, avrebbero potuto conoscere i versi dei rapaci notturni, o visto brillare gli occhi delle volpi, o intravisto le grosse ali dei gufi. Ma il cuore non cancella ciò che ama, e per nulla al mondo essi avrebbero sostituito, con questi, i rumori del vento nei vicoli stretti, o gli odori umidi dei muri antichi, o i luccichii dei lastricati delle piazze cittadine.

C’erano, però, due categorie di persone che erano riuscite ad integrarsi meravigliosamente nel paesaggio: i bambini e i padroni di cani. I primi giocavano scatenati e un po’ inselvatichiti, come mai era stato possibile negli antichi quartieri urbani, i secondi godevano di altrettante libertà, prima inimmaginabili: uscire senza paletta, usare il guinzaglio lungo, non dover prendere la macchina per andare a cercare un parco. Non s’erano mai visti così tanti bambini e così tanti cani tutti insieme nello stesso posto. E quando calava la notte, e tutti rientravano, c’era da chiedersi dove si infilassero, per tanti che ne erano. S’era poi stranamente creata tra queste due categorie, non sempre affini, una bella armonia. Quando Teo, il mio cane, usciva a fare la passeggiata, i bambini gli si riversavano addosso come una nidiata di anatrelle. Lui si faceva strapazzare un po’, per niente dispiaciuto, poi proseguiva. Certo, c’erano anche cani che non ispiravano alcun tipo di effusione: un grosso alano nero, per esempio, che i bambini chiamavano “Attila”, camminava impettito ed arrogante, tal quale il suo padrone, fieri entrambi di essere guardati con paura. Allo stesso modo si comportavano i tre terribili dobermann di Gino, nati subito dopo il terremoto. Gino se li era portati dietro ovunque, li aveva nutriti e cresciuti dentro quella piccola casa. Poi, al momento di separarsene, non era stato più capace: e se li era tenuti tutti e tre, con i loro occhi infuocati e i loro denti affilati. Era certo di poter tornare presto nella sua bella casa e di poterli tenere in giardino come cani da guardia. Erano due maschi e una femmina, e Gino aveva dato loro dei nomi bizzarri: “Fintecna” la femmina, “Cineas” e “Reluis” i due maschi. Era uno spasso sentirlo urlare in modo marziale: “FINTECNA!….. SITZ! CINEAS, RELUIS!…. RRRRAUS!PLATZ!!!”. Quando li portava a spasso, pareva governare un cocchio tirato da tre cavalli. Tutti i cani della zona portavano i padroni un po’ dove il naso li guidava, ma c’era ben poco da scegliere: facevano per lo più il tondino intorno alle C.A.S.E.

Con non poco dispiacere, cani e padroni camminavano lasciandosi sulla destra o sulla sinistra del loro percorso abituale splendidi prati verdi interdetti dal filo spinato. Il più bello di questi prati si stendeva proprio davanti alla cascina De Curti: era verde d’erba medica e puntinato di fiori colorati. I cani ci infilavano il muso con insistenza vogliosa, attratti da colori e odori straordinari. Bisognava tirarli via con la forza! La tappa davanti alla cascina De Curti era obbligatoria, e non solo per quel magnifico prato profumato, anche per le irresistibili tentazioni che provenivano dalle ciotole che Pietro riempiva per i gatti. Dovevi tirar via il tuo cane di lì e promettergli di portarlo nella piazza vicina, dove una brutta chiesona post-moderna demolita dal sisma implorava pietà. Quel ripido tratto di strada, dalle C.A.S.E. alla chiesa, specie in inverno, era assai pericoloso. Il buio, due curve strette, i muri delle case addossate, le macchine che sfrecciavano frettolose, costringevano cani e padroni alla massima prudenza.

La primavera del terzo inverno iniziò col disgelo delle abbondanti nevicate di quell’anno. Oltre ai normali disagi della strada c’era anche lo sciogliersi della neve: i rigagnoli di acqua imboccavano vorticosi la discesa. Ma un bel mattino di quella primavera, un bel mattino tiepido in cui l’erba era già verde e profumata, accadde una cosa straordinaria: proprio davanti alla cascina i paletti di quel bellissimo prato di erba medica erano stati abbattuti, e il filo spinato era stato reciso per consentire il passaggio. Al nuovo varco c’era un cartello con una scritta fatta a mano che diceva: “INGRESSO LIBERO AI CANI E AI PADRONI”. Dentro al prato, felici come tre mustang, correvano Fintecna, Cineas e Reluis. Il padrone, Gino, li sorvegliava soddisfatto, agitando il guinzaglio come un lazo, con gli occhi luccicanti di soddisfazione. Al sopraggiungere di Lilli, la cagnetta di Sabrina, Gino richiamò i tre mustang e li portò via, lasciando campo libero alle due nuove arrivate. Decisi di fermarmi anch’io, e mentre toglievo il guinzaglio dal collare di Teo, sentii alle mie spalle la voce di Pietro che mi chiamava dalla macchina: ”Buongiorno! Hai visto la novità? Entra, entra! Godetevi il prato! E guarda un po’ che passeggeri porto a bordo oggi!”. Affacciato al finestrino posteriore della macchina di Pietro, con un sorriso a 72 denti, Attila sporgeva la testa fino al collo, felice, con le orecchie come due bandiere al vento. Dietro di lui spuntava la faccia del suo padrone, con un sorriso imbarazzato per la  condizione poco marziale del suo terribile cane. E anche sua.

Da quel giorno capimmo che non esistono cani buoni e cani cattivi, uomini buoni e uomini cattivi; ma solo uomini e cani felici o infelici. La differenza la fa un prato. Un prato sul quale correre liberi.

 

prato-fiorito


High Hopes-Pink Floyd