L’AQUILA CHIAMA MIRANDOLA

Questo articolo nasce su richiesta di una pagina web, “Città della Gioia ONLUS”, che ne fece espressa richiesta per celebrare l’anniversario del 6 aprile. Risale al 2012 e fotografa un momento delicatissimo delle nostre memorie dal sottosuolo: quello del recente terremoto in Emilia. Mirandola, il paese più colpito, diventa per me l’emblema dell’eterno conflitto tra Sud e Nord. Conflitto qui risolto e pacificato dal comune buon senso civico.

Gli amici di Napoli mi chiedono una riflessione dall’Aquila sulla tragedia dell’Emilia. E’ scontato ribadire, a nome degli aquilani tutti, il dramma raccapricciante di rivedere le tende blu, la disperazione, i telecronisti in cerca di lacrime, i talk-show in cerca di colpevoli, i sismologi con la faccia da “non c’è da stupirsi l’Italia è sismica”, la Protezione Civile che sembra composta da volontari, e i volontari che sembrano invece professionisti. Perfino i monumenti-simbolo si assomigliano: per noi fu la Prefettura spezzata, per Mirandola è la torre dell’orologio spaccato. E’ normale e sacrosanto cercare istintivamente le somiglianze tra due drammi, è però doveroso riflettere poi sulle differenze, non certo per fare delle stupide classifiche, biecamente obbedienti al cliché del Nord lavoratore e del Sud piagnone, ma per capire meglio quello che ci è successo in questi tre anni. Si disse degli aquilani, i primi giorni dopo il sisma, che erano dignitosi e forti, combattivi e reattivi. Anche degli aquilani si disse che erano pronti a rialzarsi. Poi fummo trasformati in ingrati meridionali, per non aver accettato di vendere la città vecchia in cambio di pseudo-case nuove in periferia. E allora chi decide chi è “sobrio” e chi no? Vespa? Chi enfatizza il coraggio di una popolazione rispetto a quello di un’altra? Sgarbi? Discorsi beceri e grossolani, che “accomunano” e massificano dei giudizi sulle cittadinanze, per non dire sulle etnie, discorsi che si allineano su direttrici di gestione del potere, ideologie ben separate da quello che è, invece, il reale vissuto delle popolazioni. Non so se esiste ancora la Piramide di Maslow o se sia considerata ormai roba vecchia, ma ai miei tempi non potevi definirti istruito se non eri consapevole di ciò che Maslow aveva teorizzato sui bisogni primari e secondari: i bisogni di un individuo sono posti su una piramide. Alla base della piramide c’è la sicurezza, la sopravvivenza. Poi il cibo, poi la casa, poi gli affetti. Non puoi guadagnare un piano più in alto se prima non hai costruito quello più in basso. Salendo c’è il sociale, il politico, via via su fino all’arte, il massimo grado della piramide, ma anche il più lontano dalla base. Più stai in alto nella tua piramide, più ti dimentichi dei bisogni di chi è alla base. E tutto, ma proprio tutto, è determinato dalla quantità delle risorse a disposizione, diverse a seconda del livello della piramide. In questi tre anni di terremoto all’Aquila abbiamo constatato a tutti i livelli questo meccanismo, emerso in maniera limpidissima non appena le risorse a disposizione sono drasticamente diminuite. Abbiamo visto chi era al sicuro dimenticare il bisogno di sicurezza di chi non lo era, giurare il falso, approfittare, arraffare l’inutile. Persone protette, unite in clan, le abbiamo viste lucrare su altre che erano sole e si aggrappavano al poco rimasto.

Gente che non ha perso nulla, dare dello stracciavesti a chi aveva perso tutto e lo gridava, e non lasciargli neanche la dignità del lamento imbronciato, non concedergli neppure il beneficio del grido o del pianto, salvo poi rubarglielo dalla bocca, quel grido, imitarlo, quando è stato il momento di venderselo, anzi di rivenderselo come proprio. Abbiamo visto ravanare nei mucchi dei panni donati anche quando di panni ce n’erano fin troppi, solo per il gusto di farlo. Stornare denari dai bisognosi del necessario, per darli a chi li ha usati per il superfluo. Abbiamo visto un sacco di gente dare il peggio di sé. Il darwinismo sociale premia chi ha bei gomiti, grossi e muscolosi. Mi ricordo che una delle prime cose che ho capito in tendopoli è stata che non sarei sopravvissuta facilmente restando una personcina “bene educata”. Una sera avevo bisogno di un pigiama pulito e nella tenda-vestiario ne avevo trovato uno, bello felpato, adatto alle notti già fredde di ottobre, e ce l’avevo in mano, quel pigiama, come un regalo di Natale. L’ho appoggiato un attimo su un cesto e qualcuno me l’ha portato via sotto il naso. Non ho saputo dirgli niente e ho dormito vestita, quella notte, prendendomela con me stessa per aver dimenticato da qualche parte la mia borsa con il cambio abiti. Mai però, neanche per un momento, ho pensato che avrei dovuto diventare anch’io un animale e contendermi un pigiama a gomitate. I tanti individui che non si animalizzano quando le risorse diminuiscono, vivono con orgoglio. E stanno in Abruzzo, in Emilia, nel Belice, in Irpinia, nelle Marche, in Umbria, e dove che sia. Sono quasi invisibili, hanno braccia senza gomiti, sono caparbi, hanno un brutto carattere, il profilo basso, induriti dalle difficoltà, diventano schivi. Qualcuno li chiama fessi, qualcuno sognatori. Molti di loro se ne vanno dalla loro terra, alla fine, a cercare contesti nei quali non siano costretti ad una animalizzazione obbligata. Quando c’è un dramma, insomma, amici miei di Napoli, la gente si divide in chi diventa animale e chi no, a tutti i livelli. E non è un fatto di istruzione o di cultura, di Nord o di Sud, di Emilia o di Abruzzo. Per chi non si animalizza non esiste terra o campanile, non esiste sangue o antenato che valgano la pena di perdere la propria dignità calpestando quella degli altri.

Tuttavia c’è qualcosa in Emilia di profondamente diverso rispetto all’Aquila. Si tratta di una sensazione tangibile, una sorta di maggiore preoccupazione collettiva, di tutela, quella che in Latino si chiama “cura”. In Emilia il territorio consiste in una rete industriale tessuta intorno alla zona colpita: c’è la consapevolezza sociale che se si ferma quel nodo, ne risentirà l’intera zona intorno, l’intera regione. Ecco perché il terremoto di Mirandola e dintorni è il terremoto di tutta l’Emilia. Da noi il terremoto dell’Aquila è divenuto quello di tutto l’Abruzzo per arraffare la carne buttata nella gabbia, per ravanare nel cesto degli aiuti, chi ne aveva bisogno e chi no. L’Abruzzo è una terra dura, divisa da montagne, niente rete per la terra dei cinghiali. E L’Aquila è ancora più dura, montanara e isolata com’è, con quell’alterigia di blasone antico che ha sempre infastidito le città limitrofe. Ma senza rete i disastri sono affar tuo. E’ evidente che la democrazia è il contrario dell’autarchia, ecco perché l’umanizzazione si ottiene attraverso una rete di relazioni che rendono la tua porzione di esistenza necessaria perché sussista anche quella degli altri. Le città, come gli individui,  dovrebbero trovarsi dentro una rete economica, e la rete economica dovrebbe diventare poi rete industriale, produttiva, finanziaria, fino ad arrivare a quella culturale, umana e di solidarietà tra le comunità urbane e rurali. Non vedetela come una riduzione, amici, dico solo che forse dovremmo ribaltare il tavolo: non essere solidali perché siamo bravi, ma perché siamo comunque “legati” in rete, e un tuo crollo è anche un mio crollo. Ormai l’abbiamo sperimentato di persona: non può essere l’ideologia, non può essere la religione né i buoni sentimenti a costringerci a farci carico del prossimo colpito da una calamità, e a farcene carico con una carità statale pelosa che poi ti ricatta. Oggi, con un terremoto alle spalle, con una vita monca di tutto, io credo profondamente e crudamente che l’unica molla che consente di rialzarsi in questi casi è l’interesse e la convenienza comune affinché questo accada. I principi umanitari parlano un linguaggio diverso, certo superiore: in questo caso, amici di Napoli, l’aiuto si dà “amando”, addirittura. Ebbene, io credo che l’espressione “sussistenza in rete” possa bene costituire un terreno di dialogo comune tra laici e credenti, tecnici e politici, colti e incolti, per la costruzione di una società migliore. Ci sarà sempre un fortissimo gap, certamente, tra chi crede in un valore e chi spera in un guadagno: ma potrebbe essere un buon inizio per avviare una cultura della condivisione, una cultura della sicurezza, una scalata collettiva della piramide. Per non diventare animali. Per “restare umani”.

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LA GATTARA

Giuseppina è veramente esistita.
Così si chiamava, la “gattara” della Villa Comunale, negli anni Sessanta. Quando le gattare non avevano i gruppi sui Facebook e la gente le considerava delle mezze matte, e forse lo erano davvero.
Il testo, scritto a ridosso del 6 aprile, nasce da una passeggiata sui luoghi della mia infanzia. Cammino, rivivo quello che succedeva. E a un certo punto…..

 

Arrivava con un’automobile scassata, una Giulietta color sabbia.
Rallentava, accostava al muretto della casa di cortina rossa di Via Filippo Corridoni, spegneva il motore, armeggiava ancora un po’ in macchina. Infine scendeva, maneggiando una rumorosa busta di plastica ricolma di spaghetti al pomodoro. “Miiiicio miciomiciomicio! Miscccch… Nz-nz-nz-nz-nz… Miciomiciomicioooo!”. Iniziava a chiamare con una voce ferma, forte, imponente. Era proprio quello il momento in cui tutti i bambini scappavano a nascondersi dietro agli alberi, o dietro ai pilastri del portico della casa di Serena, un portico ampio, libero, spazioso, pavimentato a mattonelline rosse, ottime per pattinarci sopra. “Schhhhh!!!! Zitti! non facciamoci vedere!” bisbigliava Serena, capo carismatico della banda. Ma lei, la Gattara, sapeva bene che i bambini erano nascosti lì intorno.
Dietro ai vetri delle finestre, nelle case, dietro alle tende, c’erano sempre persone a spiare la Gattara come fosse un alieno. E Lei, che lo sapeva, li controllava feroce, con la coda dell’occhio. Per dispetto alzava la voce: “Miiiiiiiiicio miciomicio! Miscccch… Nz-nz-nz-nz-nz! Venite qui, piccoliniiii! Non abbiate paura di quei brutti spioni… Ci sono io a proteggervi… Venite ciccini… C’è la mamma…”.
Una bimba più di tutti gli altri restava impietrita. Il respiro corto, il cuore che batteva così forte da temere che la Gattara in persona lo sentisse. Potevi addirittura immaginare il modo in cui la piccola cercasse di tacitarlo (“Placati, placati cuore mio, lei non ti può vedere, fatti coraggio, resisti!”). Se faceva quell’effetto sul cuore dei bambini doveva essere proprio vero che la Gattara era un strega. Lo dicevano tutti, perfino il parroco, Don Pasquale. Pare che l’avesse detto in gran segreto alla mamma di Serena. Pure il tabaccaio di Porta Napoli, che aveva il bancone così alto che i bambini non potevano sentire quello che diceva alle loro mamme, pure lui, chiamava la Gattara proprio così, “la strega”. Tutte le autorità del quartiere, parlando di lei, facevano facce strane, o due occhi che pareva dicessero “quella lì”. Dicevano che era pazza, che non aveva nessuno al mondo, solo i gatti della Villa Comunale. Che cosa mai l’avesse trasformata in una gattara, senza neanche più un nome, senza una storia, nessuno lo sapeva, o voleva dirlo.
Vediamo chi vuole venire a casa mia, stasera… “ minacciava ogni volta la Gattara a voce altissima, per tenere lontani i bambini mentre i gatti mangiavano. E muoveva qualche passo, un po’ di qua, un po’ di là, sbirciando con gli occhi nervosi e cattivi. Quando lei si avvicinava, tutti i bambini scappavano dai loro nascondigli, come stormi di tortore che si alzano in volo dopo uno sparo. Scalpiccio di piedi sul selciato, ali sotto le suole delle scarpe.
Un giorno, per puro caso, proprio la bimba più paurosa riuscì a guardare la Gattara dritta in faccia. Involontariamente, certo, perché fu la Gattara a venire a tiro del suo occhio destro, nascosto perfettamente dietro al tronco dell’albero che la proteggeva. “Vediamo chi vuole venire a casa mia, staseeeera!” aveva detto la Gattara, calcando i passi verso i nascondigli dei bambini. Scalpiccio… voli di tortore… Ma la piccola non era riuscita a muoversi. Era rimasta lì impietrita dalla paura, i piedi cementati a terra e le braccia paralizzate, strette alla corteccia dell’albero, corteccia lei stessa. L’occhio destro, appena sporgente dal tronco dell’albero, era così immobile che riuscì a vederla, solo perché fu lei stessa ad entrare nel suo campo visivo, ed eccola lì davanti, la Gattara: capelli scuri, lunghi appena fin sopra le spalle, frangetta squadrata, occhi truccati pesantemente ma grossolanamente, rossetto acceso, un po’ screpolato, cappotto dal collo sciallato, che di certo ricordava tempi migliori. Gli occhi, marcati di nero, spuntavano fuori nervosi dalla frangia compatta. “Miiicio miciomiciomicio! Miscccch!… Nz-nz-nz-nz-nz…”. Sistemò il sacchetto a terra, lasciando fuoriuscire gli spaghetti e continuando a chiamare i gatti, che iniziarono ad arrivare miagolando di riconoscenza. La Gattara si accorse della bambina dietro all’albero. Oh… Di sicuro l’avrebbe presa e portata via come recita la filastrocca dell’Uomo Nero! L’avrebbe presa e chiusa in una gabbia dentro alla sua Giulietta scassata, per poi cucinarla nel sugo degli spaghetti per i gatti! La bimba serrava le palpebre sugli occhi, sentiva la saliva riempirle la bocca, non aveva neanche il coraggio di inghiottire.
Questi bambini sono molto maleducati” disse invece la Gattara ad alta voce, camminando solennemente verso di lei. “C’è solo una bambina coraggiosa, in questo quartiere…”. Stava parlando di lei? Il cuore della piccola voleva scoppiare, oppure fermarsi, fatto sta che quelle parole ebbero lo strano effetto di convertire la paura in una strana emozione, forte e bella quanto prima la paura era stata terribile e distruttiva. “Solo una bambina non è scappata via…” gridò la Gattara, per farsi sentire dagli altri bambini. “…L’unica bambina in gamba in questo posto pieno di sbruffoni!”.
La bimba ricominciò a respirare, sentì il sangue scorrere di nuovo, i muscoli delle gambette secche rilassarsi. Poi la Gattara aggiunse, a voce così bassa che solo la bimba poté sentirla, e non lo raccontò mai a nessuno al mondo: “… Quei mentecatti dietro ai vetri mi danno della pazza… mentecatti… Piccoli topi miserabili… state alla larga dalla Gattara, state alla larga, miserabili topi…sciò!”. E raccolse il sacchetto ormai quasi vuoto, rovesciando gli ultimi spaghetti per terra. “Miiiicio miciomiciomicio! Miscccch… Nz-nz-nz-nz-nz… Andate a nanna gattini, su, fate i bravi… E state lontani dai cani… i cani ah!”.
A questo punto, la Gattara si girò verso la bimba nascosta. L’occhio destro della piccola non osò neppure sbattere la palpebra, così la fissò dritta in quegli occhi felini, neri come due olive nere. E la trovò bellissima. E pensò che era una fata.

Quel giorno la Gattara aveva detto a tutti che quella bambina era la più coraggiosa del quartiere, e da allora in effetti la bambina iniziò a diventarlo, ogni giorno di più. Si diventa sempre quello che una fata dice agli altri che tu sia.

Miiicio micio micioooooooo! Mischhhh… Nz nz nznznz…

Non c’è più nulla, in via Filippo Corridoni, ora.

Arrivo, spengo la macchina, e chiamo.

Miiicio miciomiciomicio! Mischhh!…

Rovescio la mia busta di spaghetti a terra, loro arrivano, sono pochi, tre o quattro, i pochi rimasti qui dopo il 6 aprile di tre anni fa. Sono riusciti a salvarsi dal crollo della casa con la cortina rossa, la casa di Serena, che si è seduta sul suo porticato, sbriciolata, sprofondata, ingoiata dalla terra, lei, il suo portico con il pavimento di mattonelle rosse su cui noi bambini si pattinava.

Venite, piccini… nznznznz… Venite, su!

Non c’è più nessuno che guarda da dietro le tende. Sono morti, ingoiati dalla terra. Oppure scappati via. Posso sentire lo scalpiccio dei piedi che corrono, volo di tortore dopo lo schioppo, ali sotto le suole delle scarpe… I gatti, però, sono rimasti. Sporchi, smagriti, selvatici, piccole linci selvagge, arruffati, soli.

Miciomiciomiciomicio!… Nznznznznz… Mischhhh!”.

Venite qui, piccini, la Gattara vi nutre, vi porta acqua da bere. Siete stati bravi, siete stati coraggiosi a restare in questo posto.. Venite, la Gattara vi protegge, perché siete rimasti qui senza casa, senza cibo.

I gatti mangiano avidamente, io riempio di acqua una grossa ciotola di plastica.

La polvere delle macerie mi secca la bocca, la sento nella gola. Sono passati tre anni.
E non c’è neanche una bimba, dietro un tronco d’albero, a guardarmi con il suo occhio destro sbarrato. Neanche una bimba, in via Filippo Corridoni, a vedere la Gattara come una bellissima fata senza storia.

 

gatti
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Buddy Guy – Black Cat Blues