L’ACQUA DELLE PALLE DI NEVE

 La grande nevicata del febbraio 2012, chi se la scorda? Fu una storia dentro la storia. E dentro queste due storie, ce ne fu un’altra, che ho voluto raccontare qui, romanzandola parecchio, ma riportandola “nel succo”. Alba, la protagonista, potrebbe essere una mia alunna. E quello che racconto potrebbe essere vero. Almeno in parte… Ciao Sara 😉

 

“Ma come devo fare co’ ‘sta figlia mia? A me una figlia facile, una di quelle normali, una di quelle che vogliono i massaggi e la manicure no, eh? A me sempre la strada in salita!<”. Lo pensava, ma si guardava bene dal dirlo, Giuseppina. Tanto lo dicevano gli altri, lo dicevano tutti, alle spalle, col risolino all’angolo della bocca o l’aria di compatimento: “Poveretta, quanti guai le dà quella figlia, povera donna!”. Allora lei alzava il mento e camminava fiera, impettita. Al diavolo loro e le loro belle figlie con le unghie laccate: non ce l’avrebbe cambiata mai, la sua Alba, con quelle lì. Però ogni tanto lo pensava: “Come devo fare co’ ‘sta figlia mia?come devo fare dio mio? come devo fare?…”.  Difficile dalla nascita, Alba: chi l’aveva vista bambina, quando sembrava Heidi, felice per ogni piccola cosa, poteva anche capire. Poteva capirla sua madre, forse, o forse sua zia, che se l’era portata sempre dietro ovunque, o la sua maestra delle elementari, che era rimasta per lei come una zia saggia e prudente, una buona consigliera. “Bisogna prendere un avvocato” disse la zia Laura, preoccupata ma decisa. “Un avvocato? E chi lo paga un avvocato? E per due cause?”. “Non esagerare, dai, la prima è caduta” “E allora aspetteremo che cada anche la seconda. Di più non posso fare” “Certo che pure lei però… Per forza in prima linea deve stare? Un po’ da parte no, eh, mandare avanti gli altri… stare un po’ attenta… no eh?”
“La conosci… L’hai cresciuta insieme a me”
“E la conosco sì. Però qui mica si tratta più del gatto randagio e del cane ferito… qui andiamo sulle cose serie” “Alba è cresciuta, Laura. Prima erano ginocchia sbucciate per arrampicarsi sugli alberi, occhi neri quando si picchiava con i grandi. Ora è questo. Dovevamo aspettarcelo, su…”
“Non abbiamo fatto niente per evitarlo. Quando è andata all’università a Roma avevo pensato… avevo creduto… speravo che…”
“Non è colpa di nessuno: il terremoto c’è ogni tre secoli… E’ capitato a noi. Era destino”
“Lascia stare il destino… Piuttosto: lei lo sa? A che ora rientra?”.
Proprio in quel momento la chiave girò nella toppa, e la porta si aprì. “Accidenti….. quanta neve!….”.
La faccia di Alba, ben chiusa in un cappuccio stretto stretto e con le gote tutte rosse per il freddo, si rabbuiò appena vide dalla porta la madre e la zia sedute in cucina, davanti al tavolo. “Oddio, e mo’ che altro è successo?” ,ormorò tra i denti. “Niente, solo un’altra denuncia per occupazione di suolo pubblico, che sommata a quella dell’anno scorso per il blocco della A24 fanno due denunce. Che sommate all’abbandono dell’università, del lavoro part-time che avevi trovato, dell’affitto della casa di Roma dove però non stai, fa un sacco, ma proprio un sacco di guai”….
Alba restò ferma, in piedi ancora fuori dalla porta, rigida come un merluzzo secco. La gioia della nevicata le si era mozzata nella gola come un boccone buttato giù per lo spavento. “Come… un’altra denuncia?” “Eh sì”. “Ma solo a me?” “A te e a pochi altri”. La faccia prese un’espressione di tale rammarico che zia Laura non riuscì a non intervenire. “Dai Alba, non è la fine del mondo, risolviamo pure questa, dai, non fare così”.
Alba iniziò lentamente, come un automa, a togliersi il cappotto, scrollando la neve sullo zerbino, con cura, per non bagnare il pavimento. Dopo una lunghissima pausa disse solo: “Ma perché sempre a me?”. “Oh, figlia mia, sapessi quante volte lo dico io”. Di nuovo zia Laura decise di interrompere la pesantezza: “Perché hai sette palmi di corata, Alba, ecco perché! Perché sei generosa, perché non ti risparmi e proteggi gli altri, come hai sempre fatto”. “Zia, spiegami che male ho fatto…”. Ma la madre era fuori di sé. “Siete una manica di matti. E’ per questo che avete scelto quel posto lì, vero? Perché sapete che siete matti! Gli avete pure cambiato nome, a quel posto, Casematte lo chiamate, che io per capirlo ci ho messo un anno e mezzo. Lo sapete che siete matti, perché invece di studiare e pensare al futuro, che non c’è lavoro, che non c’è più la casa, che non c’è più la città, voi state a perde’ tempo lì… Ma lo sai che la gente c’ha paura di passare lì? Lo sai che a vedervi vestiti come i fricchettoni dei tempi miei, la gente pensa alla droga? Lo sai che tutti quei cani che girano lì intorno perché li andate raccogliendo in giro, quelle persone strane con le chitarre.. ma che è… Woodstock? Lo volete capire che non è più quell’aria? Che la gente adesso ha paura? Che i tempi sono cambiati? Alba! Ma perché non fate i ragazzi normali? Lo studio, i fidanzatini, l’aperitivo, il cinemino.. dai su… ma che è?”. Alba era sempre più affranta a sentire la madre parlare così. Si lasciò cadere sulla sedia, come un vestito tolto dalla gruccia. Zia Laura le versò un po’ di caffè ancora caldo e glielo porse, girando lo zucchero nella tazzina finché lei non allungò la mano per prenderla. Giuseppina, a vederla così, si fece forza. E’ che non era colpa sua, povera figlia… Magari chissà che cosa le avevano messo in testa… Doveva esserci un piano dietro, qualcun altro che sobillava. “Ma chi ve l’ha messa in testa ‘sta cosa, insomma? Chi ci sta dietro, povera figlia mia, dillo a mamma, è andata così, vero che è andata così? è così vero Alba? E’ vero che c’è qualcun altro a monte? Però adesso la denuncia ce l’hai tu, eh, invece loro stanno a casa con i figli che vanno all’Università, eh, magari fanno la Bocconi, eh? Loro la Bocconi e voi i boccaloni, eh? Dai dimmelo! Chi è? Eh, chi è?”.
Per fortuna suonarono alla porta. Madre e figlia erano appoggiate con i gomiti sul tavolo e la testa tra le mani, sembravano corpi vuoti, solo zia Laura scattò in piedi per andare ad aprire. “Oh, guarda chi c’è! La maestra Giovanna non manca mai quando Alba si mette nei guai!”. Si salutarono, si abbracciarono, non appena Giovanna ebbe finito di sistemare fuori dalla porta l’ombrello pieno di neve. “Hai saputo della denuncia eh? Vedi che casino, cara la mia maestra comunista?”. Risero, tutte e due. La maestra Giovanna era una donna minuta, all’antica, gonna sotto il ginocchio pure quando nevicava, miope come una talpa. Zia Laura la chiamava sempre maestra comunista per via delle idee di Alba, per prenderla in giro. “Ecco qua la tua pupilla! E noi che abbiamo fatto tanto per farla studiare!” ridevano. “Eh, non è la maestra comunista! – rideva Giovanna – è che tua nipote è una ribelle!… E poi ha una vera passione per le cause perse!”. Una bella risata ci voleva proprio. Dalla cucina, però, non riuscirono a condividere il buon umore. Alba fissava la tazzina di caffè. Il setaccio ancora una volta aveva separato la farina dalla crusca. E lei era la crusca. “Muor giovane colui che al cielo è caro!” recitò la maestra Giovanna “e vaglielo a spiegare, Alba, a chi prende i libri come cose che devono fare solo gli altri!”. “Oh, qui non muore nessuno!” si svegliò all’improvviso la madre. “Ma è una metafora, Giuseppì, muore inteso come si sacrifica, si immola per la causa!” “Ma quale causa?” “L’Aquila, la civitas” “E chi vi paga? Perché non lasciate decidere ai preposti, professionisti, tecnici, gente pagata per questo?” “Eh, Giuseppì… Mica tutti so’ capaci! Se tutti gli uccelletti conoscessero il grano, povero contadino!”. “E solo la figlia mia il grano lo deve conoscere? E solo lei viene beccata dal contadino, che se la cucina poi bene bene dentro al sugo per la polenta?”.

Alba non diceva una parola. La mente viaggiava verso il ricordo di quel “no” forte e imperioso che aveva sentito a Roma, dopo il sisma, e a quei pensieri che l’avevano riportata qui. “La mia città è distrutta, i miei amici, i miei parenti, tutti quelli che ci stanno dentro. Io non posso stare in nessun altro posto che questo, tutto mi chiama. Anni passeranno, e passeranno decenni. Questo sarà il baluardo, il fronte. Qui la vita ha il suo significato. Qui si può pensare alla terra, curarla. Qui si può ritagliare un angolo. So che non dovrei lasciare gli studi, il lavoro, la grande città, tutto quello per cui ho faticato finora… E’ che non riesco a non farlo. La mia città è ferita a morte, ha bisogno di cure. Qui… io… sono… io sono… felice!”.
Il telefono interruppe il flusso dei pensieri: Alba rispose subito, disse qualche monosillabo, poi riappese. “Inizia il torneo, vi saluto, devo andare” disse, come se si fosse riaccesa all’improvviso.
“Ma che torneo?”
“Battaglia a palle di neve”.
“Che? Battaglia a palle di neve?”
“Sì, facciamo una festa alla neve”
“Una festa alla neve? Ma se questa nevicata ha messo in ginocchio tutta la città!”
“Non tutta”
“Ma che dici Alba? … A che ora torni?”
“Quando finisce la festa alla neve. La neve che pulisce, purifica, nutre la terra”
“Ma figlia mia, tu te ne stai a uscì, te stai a impazzì! La neve impedisce il passaggio, le cure, rovina i pochi palazzi rimasti… la neve è una disgrazia!”
“Per voi è sempre una disgrazia: sia che nevica, sia che non nevica. Perché neanche la guardate, la neve. Guardate solo la strada asfaltata che vi deve portare dove non serve andare. E tutto quello che vi limita in questo trasporto, il sole, il vento, l’afa, l’acqua, la sabbia e la neve, tutto quello che vi sciupa il vestito è solo… è solo… qualcosa che vi sciupa il vestito”.
“Ma quale vestito? Ma che stai a ddì, figlia mia, vieni qua, tu stai male!”.
La maestra Giovanna prese Giuseppina per il braccio e la tirò a sé. “Lasciala stare, Giuseppì. E’ sconvolta dalla notizia, su… E poi è l’età, deve passare”. “Ah! – esclamò la povera madre – e quando sarà passata, che cosa si ritroverà in mano, Alba? Te lo dico io! Solo acqua! L’acqua delle palle di neve!”…

Ma Alba in quel momento era lontana, camminava e vedeva il futuro: sé stessa, il suo ragazzo, i suoi figli, quei figli nati dal terremoto del 2009, e dalla nevicata del 2012.

I figli, quelli che l’estate era estate, l’inverno era inverno.

Quelli che avrebbero ricostruito L’Aquila.