E NON LO RIVIDERO PIU’…

E dire che era nato con la camicia. Ottima famiglia, buona condizione economica, laurea, dottorato, buon impiego, vita discreta, famigliola, giardino, cani, gatto, pesci e tartaruga. Ogni cosa era al suo posto quando L’Aquila, la sua città, andò in mille pezzi come il vetro di una finestra sfasciato da un pallone. Ed eccolo lì, con una borsa di stracci raccogliticci, in mezzo a una strada.
Che fare? La polvere dei crolli non si posava ancora, tutti erano attoniti e frastornati dalla tragedia, ma lui non ebbe alcun dubbio: l’unica soluzione era andarsene. “Non passerò neanche una notte in una tenda della Protezione Civile. Mai, neanche per idea”. Piuttosto avrebbe riesumato in qualche angolo del garage l’attrezzatura da montagna di quando era giovane. Sarebbe entrato di straforo in quel dannato garage, nonostante l’assoluto divieto di avvicinarsi agli edifici inagibili e avrebbe recuperato la sua vecchia tenda. Magari, se gli veniva a tiro, avrebbe portato via anche l’armonica e avrebbe iniziato una vita on the road come Jack Kerouack. O avrebbe dato fondo alle sue memorie di birdwatcher, con la sua Vera Tolfa a tracolla avrebbe camminato in montagna, costruito un capanno, si sarebbe nascosto lì… Ma la tenda da otto, da sedici, la tenda con la gente mischiata, la tenda con le mutande degli altri appese in giro, no. Fu tuttavia ragionevole, le prime notti le passò in macchina. Poi si decise e parlò fuori dai denti alla sua famiglia: “Io me ne vado”. “E dove vai?” “In campagna, lontano da qui”. Carlo, come tanti altri, in quel momento vide solo questo. “Allora buon viaggio”, gli disse laconica Alberta, con la quale aveva mantenuto ottimi rapporti e che pure era stata invitata alla fuga. Se mai ci fosse stata qualche speranza di riconciliazione, quella fu l’ennesima e definitiva cesura, con annessa ripetizione di ciò che le mogli dicono sempre ai mariti: “Tu non crescerai mai”.

E così Carlo se ne andò a 50 chilometri dalla città.

Il suo sogno di libertà si infranse poco dopo, quando fu precettato: gli aquilani dovevano tornare a lavorare, non dovevano lasciare le sedi, gli uffici, e dopo una breve pausa di compensazione, tutti ripresero i loro posti di combattimento per impedire la morte della città. Carlo avrebbe avuto pur sempre un’alternativa: farsi distaccare in altra sede, tipo Pescara, Teramo, Avezzano, cosa che fecero in molti, in verità: ma era un po’ difficile, per il nostro, perché il posto più vicino a quello in cui aveva scelto di abitare restava pur sempre L’Aquila. La condanna ricominciava, una condanna senza fine, poiché tutto era stato spazzato via, tranne quel maledetto foglio delle firme di presenza. Non restava che adeguarsi. “Qualcosa succederà”.

E accadde che una strana smania iniziò ad impossessarsi di lui. Senza casa, senza nessun oggetto del suo passato tranne la sparuta attrezzatura da campeggiatore, i libri di Castaneda e Tarantula, Carlo fu assalito prima dal timore, poi dalla certezza, di essere irrimediabilmente cambiato. Le “cose” non avevano più alcun valore per lui: ne aveva perse troppe. Iniziò a vestirsi senza più la cura di una volta, sentiva un piacevole senso di liberazione da tutte quelle trappole sociali che sempre –diciamolo – gli erano state strette. Il terremoto giustificò con gioia l’assenza di cravatte di ogni tipo, e non solo per lui, anche per tanti altri che con ostinazione continuavano ad autodefinirsi orgogliosamente “terremotati”. Solo chi era rimasto in casa propria continuò a fare le gare di habillés tipicamente aquilane. D’altra parte, si dice che “J’Aquilanu non magna pe’ vvestissi”. Non c’è da stupirsi, dunque, se fu una vera liberazione uscire dallo squallore della competizione quotidiana, dell’ostentazione della stupidità delle maglie griffate. Un ritorno all’essenziale. La ridicola corsa al capo firmato, la caccia alle scarpe di Casette d’Ete e alle maglie di Valmontone, apparivano ora ai suoi occhi comportamenti ancora più idioti che nella vita precedente, insulsi, come la riportata dei capelli sulla testa di un calvo. Uno i capelli o ce li ha, o non ce li ha: ogni finzione è assolutamente ridicola.

Passò un anno. Il cambiamento sociale fu sconvolgente. In una città fatta solo di periferie, le uniche coordinate possibili erano quelle di attività commerciali. Tutti i giorni, quando Carlo arrivava davanti al negozio di generi alimentari rumeno, accendeva il navigatore della Volvo. “PERCORRENDO VICOLO”, diceva quasi sempre la mappa. Erano strade senza nome, strappate alla campagna. Vendette il navigatore per cinquanta euro a Zoran, un ragazzo macedone della ditta delle pulizie del San Salvatore, che glielo aveva chiesto tempo prima e che iniziò a sistemarlo entusiasta sul cruscotto, mentre lui se ne andava incurante. “Percorrendo vicolo”. La giornata non gli bastava mai, le distanze erano incolmabili. Doveva tagliare ancora, tagliare, tagliare, tagliare!

Passò un altro anno. Dopo aver preso parte a quarantadue inutili assemblee di condominio, Carlo decise di svendere il suo appartamento alla Società F.o.t.t.e.c.a. Comprò una casetta di legno a 15 chilometri dall’Aquila, tra Pizzoli e Marruci, in aperta campagna, che Alberta amabilmente battezzò “la rimessa degli attrezzi”. Non c’era neanche la linea telefonica. La chiavetta Internet prendeva poco e male, e così Carlo finì per rinunciare anche a quell’unico, ultimo baluardo della sua socialità. Fu fare di necessità virtù, ma apparì a molti come un lottatore, uno che resiste alla sorte a testa alta, uno che “regge i colpi”. “Che mi perdo stasera? – pensava dalla casetta di legno – Minzolini? Saviano? Ah!… Mmmmhh…E ieri? Che mi sono perso ieri? La cantatrice calva? Gli speciali di Quark? Ah!… Mmmmmhhh…”. Mentre i più vivevano studiando le Ordinanze quotidiane e vendendosi per una casa-pollaio, lui, il Tiziano Terzani de noantri, il Mauro Corona de Madonna Fore, voleva solo sparire da lì. Tutto questo lo rese assolutamente trandy. All’Aquila, come si dice, ti invidiano pure la sfiga.

Un giorno Alberta lo incontrò al Cermone, si vedevano sempre più di rado, così lei suonò ripetutamente il clacson e gli fece cenno dal finestrino di fermarsi.
“Come stai?” gli chiese, preoccupata dal suo aspetto inselvatichito. Lo trovò tuttavia in buona salute, abbronzato e tonico, certamente per la nuova vita all’aria aperta. Notò non senza stupore un piccolo tatuaggio che spuntava dalla manica della maglia, ma resistette alla tentazione di guardare che cosa raffigurasse, per non metterlo in imbarazzo.
“Sto benone! E tu?”
“Mi difendo” rispose lei, con malcelata curiosità. Certo lui le sembrò più felice.
“Come mai non passi a trovarmi?”
“Eh… Sai.. Quindici chilometri… il traffico… Tu mi conosci”.
“Hai bisogno di niente?” gli chiese lei, più per forma che per convinzione.
“No, grazie… Tu se hai bisogno chiamami, che arrivo” disse lui a sua volta, più per forma che per convinzione.
“Ma dov’è la Volvo?” chiese lei stupita, conoscendo l’attaccamento del marito a quella macchina.
“Venduta. Si rovinava su queste strade”.
“Ah.. Capisco…”.
Carlo risalì sulla sua Skoda cassonata simil-pickup, e prese a tutta birra per una strada bianca, alzando dietro di sé una nuvola di polvere.

E non lo rividero più.


B B King – You ‘re going to miss me