DIECI PROPOSTE PER GLI ADOLESCENTI AQUILANI

“…Certo, magari a diciassette anni
speri che le tue domande siano qualcosa del tipo
‘Che università prenderò? Che combinerò nella mia vita?’
Se sei, poi, in vena di filosofie, ci metti anche qualcosa tipo:
‘Che ci sarà dopo la morte?’ Oppure, che ne so,
‘Come posso dare un senso alla mia esistenza?’
Poi, in un istante, cambia qualcosa.
… è l’urlo della terra”.
(da: “Centesimo giorno”, di Filippo Iapadre)*

Come vivono gli adolescenti tra i 14 e i 19 anni, in una città senza i vecchi punti di riferimento?

I ragazzi di quest’età sono cresciuti all’Aquila com’era, e avevano appena consolidato le proprie conquiste, quando all’improvviso è venuto meno il textus, il tessuto relazionale. Come tutti noi, questi ragazzi avevano acquisito prevalentemente in centro storico le coordinate essenziali della loro identità collettiva ed etnologica, quella parte del sé che scherza, parla in dialetto, si schernisce, si relaziona per strada, va al cinema, fa musica, saggia i propri limiti e quelli sociali. Come vivono ora?

Possiamo dire con assoluta certezza che quel tessuto appena conquistato è stato sostituito. Ovviamente quello nuovo non ha lo stesso spessore culturale del precedente e non garantisce gli stessi risultati, ma tutto ciò ai ragazzi non interessa. Loro vanno avanti: il loro istinto diciamo così primitivo li spinge a sopravvivere. Davanti a un problema troppo più grande di loro, a meno che non siano espressamente incitati e stimolati, o vivano un ambiente familiare engagé, sopravvivono.

Bisogna riflettere su alcuni dati di fatto: gli adolescenti non godono dei trattamenti di favore riservati agli studenti universitari (sconti, tesseramenti gratuiti), non sono autonomi negli spostamenti, non votano, con tutto ciò che questo comporta, e pagano caro, con i soldi di papà, tutto quello che vivono e che a loro interessa. Insomma, un diciassettenne, che “non è più” qualcosa e “non è ancora” qualcos’altro, non si sente proprio bene quando, uscendo, si chiude alle spalle la porta di casa. Ovvio che, nel migliore dei casi, si metta le cuffie dell’I-Pod e inizi il trip verso lidi lontani.

Dunque, la maggioranza degli ingrati adolescenti, figli degli ingrati aquilani, summa delle ingratitudini, ha imparato da Internet un messaggio elementare: “Ignora”. Si condividono tra loro e ignorano tutti gli altri e i nostri non sappiamo. Quanto di quell’ ”ignora” riesca a non ferirli, non è dato sapere, ma, come si dice, ci si abitua a tutto, e loro ci si sono abituati. Ben pochi trovano la forza e la capacità di raccontare i loro pensieri.

Guardate insieme a me la meravigliosa fotografia di Denis Suvorov (17 anni), che allego a questo scritto: non vi dice niente? L’ombra di sé va “Oltre” il disagio sociale, salta la staccionata, vola oltre le C.A.S.E., le braccia protese, nera, notturna, un sogno intoccabile di fuga, un superamento proiettato in un’immagine. Ragazzi vuoti? Non sembra proprio. Perdiamo il tempo a volerli diversi da come sono, li vorremmo più grintosi, e vediamo la loro non-partecipazione alla NOSTRA ricostruzione come imbecillità, sciocchezza, pochezza culturale. Poi, quando scrivono, ci lasciano senza parole. “…Ti chiederai quanti anni dovranno passare prima che, di quelle mura, scompaiano anche i ricordi. Quanto, prima che non riuscirai a ricordare come erano in origine, come erano esattamente, il loro colore, l’edera che le scalava… anche, semplicemente, la loro forma. Ti chiederai se sarai in grado di descriverle ai tuoi figli”….

Dovremmo riflettere sul fatto che i nostri ragazzi non sono come tutti gli altri del resto del mondo, perché oltre alle solite domande e alle solite paure dell’ età, loro hanno anche QUESTE domande e QUESTE paure, chiuse nella loro testa: cercano risposte, cercano qualcosa che li tranquillizzi.

Al momento, non sempre si attinge ai professionisti della materia per parlare loro di legalità, e l’unica cosa che alla fine risulta chiarissima è che di legalità “si parla”. Altro errore diffuso e incomprensibile è che non ci stiamo affidando ad esperti, non consentiamo che i fatti sociali vengano letti da un sociologo o da un antropologo, lo lasciamo fare a chi non è del mestiere, sicuramente illuminato dal buon senso comune, ma non esperto al punto da trovare soluzioni che non siano sbrigative. L’uomo della strada cerca analisi che “chiudano” il problema in termini comprensibili e dunque non ansiogeni. Purtroppo non è la pratica genitoriale che garantisce la competenza in tema di problemi educativi o formativi. Ne derivano letture approssimative, grossolane, con soluzioni altrettanto approssimative e grossolane. Sarà per questo che i ragazzi più attivi, quelli che hanno gli strumenti intellettuali per farlo, stanno cercando aiuto fuori dall’Aquila, addirittura fuori dall’Abruzzo, per “sensibilizzare a quella che è la reale condizione della gioventù aquilana” (cito dalla dichiarazione di uno studente). La nostra collettività si è accorta che i ragazzi dopo due anni si sono “stancati di tavoli tecnici e di promesse mai mantenute” (stessa fonte)? Non dovremmo limitarci a delegare la scuola e scrollare le spalle, perché la scuola attraverso i progetti li impegna e li fa esprimere, indica, segnala i loro bisogni, ma non può gestire il loro tempo libero, è la comunità che deve farlo, avendo a cuore la loro sicurezza. “Pensare a studiare” non può essere considerato una forma di prevenzione, perché studiare è un punto di arrivo, non un punto di partenza. Se non ci sforziamo di indirizzare la loro esuberanze, curando il senso di appartenenza, creando luoghi adatti a loro, e soprattutto coltivando un’idea di città in cui possano riconoscersi e in nome della quale possano impegnare il loro futuro, presto andranno a cercarsi un altro contesto, perché senza il senso di appartenenza alla civitas l’Uomo che è in loro vivrà una vita minore.

Le proposte che vado a formulare per una città che abbia a cuore i propri ragazzi sono queste:

1) Concedere loro alcuni spazi di aggregazione libera e gratuita, ora, prima dell’estate, subito, e in questo senso mi riaggancio a quanto ebbi a dire lo scorso anno con l’articolo Il
terremoto degli adolescenti: dopo un anno le condizioni sono rimaste le stesse. Questa richiesta emerge forte e chiara da tutte le attività condotte nelle scuole superiori, dal Progetto del Bafile, L’Aquila 2019 a quello Regionale, Partecipi-AMO. In fondo non è una grande spesa pensare a un maquillage per zone raggiungibili e familiari, tipo Piazza d’Armi, tipo Parco del Sole, con qualche stand, qualche zona musica, zone di cucina etnica, zone wifi, magari con la ronda del poliziotto di quartiere, che consenta a tutti di sentirsi tranquilli, oppure ronde di volontari anziani, pensionati, per abbinare il discorso “anziani inutili” e avvicinare generazioni diverse.

2) Potenziare i collegamenti, creare o valorizzare l’esistente: i ragazzi non vogliono dipendere dai genitori per raggiungere posti di svago, chiedono di pagare i biglietti dei trasporti, pur di avere un servizio funzionale ai loro orari e ai loro bisogni di relazione.

3) Favorire centri dove andare a chiacchierare, a leggere fumetti, a fare musica e cineforum. Migliorare la qualità della vita di chi è destinato a restare nei nuclei abitativi chissà per quanti anni. Modificare l’esistente, come un albero che, per quanto brutto, ci sia cresciuto nel giardino, continuando tuttavia a curare “la casa” dove dovremo tornare, il centro storico.

4) Costituire presso ogni scuola superiore delle associazioni di ex-alunni: ingegneri, economisti, bancari, agenti di commercio, avvocati, costruttori, medici, docenti universitari potrebbero avvicinare i ragazzi, raccontare le loro esperienze, com’era L’Aquila ai loro tempi. Insomma, investire di più su di loro (in tempo e denaro) e lamentarsi di meno.

5) Le stesse associazioni di ex-alunni potrebbero promuovere borse di studio per il migliore studente in specifiche discipline, perché non sempre chi ha la media più alta è il migliore in una materia. I premi attuali puntano su un merito scolastico che alla fine coincide con una buona condizione familiare di partenza, e non va a incentivare le attitudini.

6) Inventarci stage di formazione, magari solo per i neo-maggiorenni, che diano qualifiche specifiche in ambito del commercio e del turismo. I ragazzi sono pieni di idee, riuscirebbero a vendere perfino le macerie.

7) Tentare l’esperimento, già ben avviato in realtà urbane del paese, dello Junior-Sindaco, eletto dagli studenti delle Scuole Superiori, che si faccia portavoce delle idee e delle istanze giovanili per la città futura.

8) Creare istituti specifici all’interno degli enti locali, che entrino nelle scuole durante le assemblee di classe e di istituto e valorizzino i Decreti Delegati, che ormai sono ritenuti da
tutti gli operatori una “perdita di tempo” e che invece costituiscono sempre il migliore esercizio di democrazia e di partecipazione attiva degli adolescenti alla cosa pubblica.

9) Dare un esempio di dibattito serio: invitare sociologi, antropologi, esperti che li aiutino a razionalizzare i fatti che accadono e a seguirli. Gridare di meno, usare meno reticenze, essere chiari, diretti: “Questo si può realizzare, questo non si può realizzare”. E poi farlo. Non promettere se non si potrà mantenere.

10) Umilmente, ogni tanto, interpellare anche gli insegnanti, che – è vero – non sono sociologi, non sono psicologi, non sono pedagogisti, non sono neanche assistenti geometri, però non hanno pretese, non sporcano, e hanno su tutti un grosso vantaggio: conoscono gli studenti uno per uno, e non li vivono come un’unica faccia da schiaffi.

E lascio a Filippo l’ultima parola:

“… Tutto è esattamente il quantitativo di cose che puoi perdere.
E può succedere da un momento all’altro, letteralmente, in pochi secondi.
… Sono passati cento giorni da quando le mie domande si sono moltiplicate…
Cento giorni che vivo facendo finta di niente, in loro inevitabile compagnia.
E, dopo cento giorni, ancora non ho sentito né letto nessuno
che, davvero, potesse convincermi”.

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NB: le citazioni del racconto di Filippo Iapadre sono tratte dal libro “Immota Manet”, Iapadre Editore, L’Aquila, 2009. La foto di Denis Suvorov, “Oltre”, ha vinto il Premio della Critica al concorso fotografico “A.Bafile” (maggio 2011).