MILLE VOCI DALLE CASE

….. Stanotte sono stata malissimo, forse mancava l’aria in “casetta” e così mi sono svegliata che mi girava la testa. Ho aperto la finestra e dopo un po’ sono stata meglio. Ho pensato tante volte a una casa in affitto, non credere che io sia una sprovveduta. Ma bisogna aspettare che le “B” rientrino nelle loro case; al momento non c’è scelta, qualsiasi cosa io abbia trovato era roba in muratura (che fa rima con paura) o fatiscente o sporca o troppo, troppo lontana.
Il film dell’ “intellettuale in campagna” con i cani e i gatti non è certo neorealismo italiano, lo inserirei più nella fantascienza. Le mie condizioni psicologiche non mi consentono l’autonomia necessaria a quel copione. Qui c’è una muta condivisione della sofferenza. Ti affacci e sai che questi disgraziati stanno come te e se hai bisogno e suoni un campanello qualcuno ti apre e ti porta in ospedale. Non esiste vicinato, ma c’è la solidarietà dei prigionieri di guerra. Neanche ti saluti al mattino, ma se senti un pianto subito ti affacci a vedere se qualcuno ha bisogno di aiuto. La notte è muta. I lampioncini disegnano luci disneyane sui prati appena seminati, sui cercys appena fioriti, e sembrano i colori con cui le pompe funebri dipingono i morti. Ma se esce il sole al primo pomeriggio, escono tanti bambini, così tanti che ti chiedi dove li abbiano nascosti per tutto l’inverno, come li abbiano fatti tacere per tutti questi mesi. Pensi a ‘Useppe della Storia di Elsa Morante, o al piccolo di Benigni nel “La vita è bella”. Li guardi dalla finestra, e preghi dio, se esiste, che non si abituino a questo nulla, che si rialzino. Li guardi, guardi nel quadrato militare del cortile chi torna con le buste della spesa, nessuno ride, vanno sempre con un incedere che non ha più guizzi di entusiasmo. Guardi tutto questo e dici “questa è la mia gente”.

E non vuoi andartene, non vuoi preservarti da tutto questo, qualcosa te lo impedisce. Certo, potrei giocare a fare la ricca donna di campagna con i suoi libri, i cani stesi sul tappeto davanti al camino acceso. Potrei anche permettermelo. Ma antiche romaNticherie o chissà cosa mi portano ad affondare con la nave. Piuttosto valuterei l’ipotesi di trasferirmi altrove, il che non è escluso. Ma se sto qui, se resto qui, devo dividere la sorte degli altri.  Sai, noi della scuola viviamo in questo piccolo mondo antico fatto di piccole vedette lombarde e tamburini sardi. Romanticherie ottocentesche in cui crediamo fortemente ci portano a credere che proprio chi ha delle responsabilità deve farsi servo dei meno fortunati.
Ieri ho accarezzato mentalmente i miei libri con le poesie di Edoardo Sanguineti. Sembra un’eresia, con quello che succede, dire che soffro fisicamente la mancanza di quelle pagine, ma ieri è stato così. Perché Sanguineti è morto e leggere qualche verso per me significava farlo vivere ancora. Avidamente ho cercato su Internet, ma nessuna di quelle mie amatissime. Solo pochi frammenti sparsi.
Tu hai ragione su tutta la linea, tutti i carriolanti hanno ragione, ma io non ho torto. Da dove prendono tutta quella forza? Sempre di più assimilo inconsciamente la situazione a quella degli ebrei. Io sarei certo morta in un campo di sterminio, troppa pietas rende fragili, vulnerabili. E non riesco a farmi crescere il pelo sullo stomaco, non ce la faccio.

Quanto a me, l’esercizio convinto della non-violenza mi porta a tenermi lontana dalle manifestazioni di protagonismo di alcuni.
Credimi, ho provato di tutto, ho provato tante volte a formare un “movimento di massa” di protesta non-violenta basata sulla non-collaborazione. L’obiettivo era fare ostruzionismo passivo. Non gesti plateali, ma resistenza muta e compatta: non comprare certe cose, non andare in certi posti, definire strategie collettive.
Ti sei mai chiesto perché è bello il flash-mob? Perché tutto si ferma, e tutti sono uguali nella loro immobilità. E tutti appartengono a una setta segreta, solo chi fa il gioco capisce, gli altri no. Ecco.
Ormai mi guardano come si guarda una pazza. E forse lo sono.

__________________________________________

John Lee Hooker – This Land is Nobody’s Land

DE INDIGNATIONE COLLETTIVA

Nei miei lunghi trascorsi scolastici è sempre stato fulgido il ricordo di un mio alunno molto particolare, Lorenzo, uno di quelli che ti rendono la vita impossibile, quelli che sono sempre “contro”, sorriso sarcastico, iperprotetti da più parti, scrittura volutamente incomprensibile… avete presente?.. quei figli che pretendono sempre “un po’ di più” della tua attenzione. Lo ricordo in una foto di classe dietro, in alto, mise le braccia a croce come Gesù Cristo. Ebbene, Lorenzo – o come dicevan tutti, Renzo – un giorno si alzò in piedi all’improvviso durante la lezione e disse con voce ferma: “Sono indignato!”. Stranezza interessante, tanto più che, passati un paio di giorni, il fatto iniziò a ripetersi in modo inquietante. All’improvviso lui si alzava e diceva: “Sono indignato!”. Capite bene che dopo una, due, tre volte, il ragazzo venne richiamato dagli insegnanti per l’interruzione arbitraria, e il comportamento fu stroncato in modo abbastanza energico. Stette buono per un po’, poi ricominciò, in modo furbescamente camuffato da opportune variabili: non si alzava più in piedi ma all’improvviso, comunque, dall’ultima fila, emetteva un sommesso…. “sì sì sono indignato….”… e dopo un paio d’ore una specie di singulto…“sono proprio proprio indignato….”. La situazione si faceva imbarazzante. Un giorno, esasperata, lo presi da parte, e alzandomi sulle punte dei piedi fino al suo naso, con efficacissima calata napoletana, gli dissi: “Loré, ma tu che vuò ‘a me?”. E lui, con espressione stupita, precisò che non c’era niente di personale, semplicemente…lui… era indignato! Lorenzo non sapeva bene “di cosa” o “per cosa” era indignato, troppo complessi e confusi i motivi che dettavano quel turbolento stato d’animo, ma sentiva di esserlo profondamente, e lo diceva a modo suo. Il Consiglio di classe, dopo una frettolosa riunione improvvisata per i corridoi, gli notificò che basta, doveva farla finita. E così Lorenzo – o, come dicevan tutti, Renzo – non potendo più né alzarsi, né bofonchiare, per non esplodere, se ne inventò un’altra: ogni tanto tirava fuori da sotto il banco un cartello formato A3 con su scritto “SONO INDIGNATO!” e lo ruotava a destra e a sinistra! Dopo tanti anni devo confessare che la cosa mi divertì parecchio, e che ne ero anche piuttosto orgogliosa. Ve lo dico all’orecchio e senza farmi sentire, ma altro è quello che il docente fa, altro è quello che ha nel cuore. E nel cuore io ero contenta che gli fosse scattata la molla dell’indignazione. Dopo tre anni di studi su Catone e sulla virtus latina, cavolo, Lorenzo era l’unico che aveva ben capito la lezione, ben interpretato lo spirito pratico della urbanitas, della civitas, delle arringhe ciceroniane e delle filippiche. Non sapeva bene “di cosa”, non era compito suo capire perché, lo provava e lo diceva. E basta. La nemesi storica vuole che ora io mi trovi nella sua stessa situazione: sono indignata, e i motivi sono così tanti e confusi che potrei fare una lista, ma non ci riesco, riesco solo a vivere infelicemente e confusamente questo sentimento. Giustamente la reazione è la stessa dei docenti contro Lorenzo: “Ma tu che vuò ‘a me?”. E io rispondo come lui: “Non lo so.” Sfogo il mio bisogno di ricostruire lavorando come una matta fino a spaccarmi la schiena, e se è vero – come è vero – come dicono gli psicologi, che la parola è salvifica, allora bisogna DIRE. Ma ha un senso dire sul blog e dire sul web? Ha un senso rispetto a Lorenzo che si alzava in piedi e lo diceva e lo scriveva? Ha un senso iscriversi a un gruppo “quelli che si indignano” e sublimare così il bisogno di additare le cose che non vanno? E’ un modo poi davvero così efficace l’indignazione on-line? Il top sono quelli che si indignano col nik-name! Almeno chi si indigna firmandosi mantiene la sua corporeità, ma chi si firma “Fantomas”? Ah, certo, sa di svilire l’indignazione autografa. Colpire alla schiena, vigliaccamente, nell’anonimato. Questa indignazione da blogger in più sfumature è certamente eredità catoniana adattata alle mutate condizioni. Mi ricordo che negli anni 80 su un muro di Ingegneria un genio graffitaro evidentemente prossimo all’esame di fisica scrisse: “Tatone il Tensore”. E d’accordo, va così, mutatis mutandis, giuste evoluzioni di antichi metodi, ma cavolo IO SONO INDIGNATA! Mi indigna la città abbandonata, mi indignano i furti legalizzati dei finanziamenti per i terremotati, mi indigna l’arraffa-arraffa, mi indigna il puntellamento, mi indignano le pietre antiche buttate per terra, mi indigna l’inerzia. Mi indignano i ritardi ingegneristici che ancora mandano in giro le A e le B, mi indigna che lavori di tamponature ci mettano un anno (e allora il centro storico?) mi indigna che ci siamo messi a discute su Bertolaso e Guzzanti, mi indigna che abbiamo fatto passare il giuro d’Italia come se niente fosse e infatti s’è visto che grandi risultati, mi indigna che i miei concittadini ancora mi dicono “Beh t’hanno data la casetta che vuoi di più!”, mi indigna che vogliono che mi sistemo così mi sto zitta, mi indignano le lapidi spezzate al cimitero, mi indigna che non si sia messo su un servizio uffici dov’era-dov’è (bastava un impiegato) e mi indigna che all’Aquila non andiamo col tom-tom come la gente normale, ma col tam tam come i villaggi dell’Africa, mi indigna che i vecchi moriranno al mare, mi indigna che i single non possono tornare (e che invece di dire poracci so’ soli, si dice meno male che so‘ soli), mi indigna che i padri separati devono dormire nelle roulotte da soli e non possono ospitare i figli senza doversi vergognare, mi indigna che continuiamo a parlare di miracolo come i ciechi a cui danno da bere e intanto gli fregano le elemosine, mi indigna che non riusciamo a venirne a capo, mi indigna che ognuno si indigna per conto suo per le cose sue e non c’è un’indignatio collettiva, mi indigna che anche quando i fatti sono lampanti comunque gli uomini di parte insistono a difendere l’indifendibile, mi indigna che mi considerano una miracolata perché ho la casetta, mi indigna dover parlare a nome di tanti che ridono sotto i baffi leggendo e poi non fanno niente, mi indigna che ci sono quelli che si indignano della mia indignazione. Ecco. Lorenzo, Barabba, ladrone in croce, me l’hai tirata e sto come te. E come te io dico “non è compito mio risolvere piccole e grandi cose, c’è gente pagata per farlo, votata per farlo, FARLO E’ IL LORO LAVORO e non sono io”. Io non posso che occuparmi di ragazzi e far sì che crescano con un sano e consapevole pensiero critico. Criticamente ho cresciuto generazioni di vostri figli, che come Lorenzo si indignano insieme a me. Ma porca miseria, amici, colleghi, persone, gente dell’Aquila, ci vogliamo mettere insieme? Non basta cliccare “condividi”.

LA PAROLA E’ DONNA

INTERVISTA DI ROBERTO CIUFFINI A LUISA NARDECCHIA

Questa intervista è stata realizzata dal giornalista Roberto Ciuffini in Piazza Duomo all’Aquila, in occasione della presentazione al pubblico del numero di Leggendaria dedicato alle donne-scrittrici aquilane, dal titolo “TERRE MUTATE”, nel maggio 2010. L’intervista fu realizzata da Roberto Ciuffini per incarico di un giornale on-line sul quale non è più ora reperibile. Viene riportata qui fedelmente.

ROBERTO: Come ha scritto il direttore di Leggendaria Anna Maria Crispino, le donne sono state protagoniste quotidiane della ripresa della vita dopo il terremoto. E anche ora, a distanza di un anno, continuano ad esserlo (basti pensare all’alto numero di donne presenti nei comitati). Parafrasando Nuto Revelli, sono state e continuano ad essere “l’anello forte”. Perché, secondo te? E’ una questione biologica, di genere o cosa?
LUISA: La ripresa della vita “normale” è stata prevalentemente realizzata dalle donne, è vero. Ma non insisterei troppo su questo aspetto, anche se a lui ho dedicato uno dei brani più amati del dopo-terremoto. Si corre infatti il rischio di generalizzare e di relegare le donne ai lati spiccioli dell’esistenza, alla quotidianità. Il grande valore che io intravedo nel mondo femminile è l’energia, la vitalità. Il vero “anello forte” è la parola, che è anche coscienza. E la parola è donna: spesso davanti al disastro gli uomini hanno bisogno di silenzio, di raccogliersi e di guardarsi intorno. Le donne invece devono immediatamente dare un nome alle cose per capirle, e lo fanno parlandone, confrontandosi. Ma è chiaro che si va incontro a grossolane generalizzazioni.
ROBERTO: Tu personalmente dove e quando hai trovato la forza e il senso per scrivere?
LUISA: La scrittura è sempre stata, per me, un momento importante di coscienza e di realizzazione personale. Ho sempre scritto nella mia vita, anche se soprattutto pubblicazioni scientifiche e saggi. La scrittura narrativa mi deriva dal mio essere stata una grande lettrice: e spesso a un grande lettore succede che vivere una situazione si traduca in un dejà-vu di immagini lette in mille altre forme, su mille altri libri. Quello che si scrive rimanda sempre a cose che già risuonano dentro di noi, cose assimilate nel tempo, che riemergono in altre forme, in altri contesti. Dopo il terremoto la scrittura si è posta come “medicina doloris”, per me e per chi mi leggeva. Riuscivo a dare voce a tanto magma emotivo collettivo. Poi sono passata alla scrittura come documentazione e impegno civile. Sicuramente la scrittura narrativa è la forma di espressione più affine al mio modo di essere: la forza e il senso derivano dal bisogno impellente di farlo.
ROBERTO: Le testimonianze raccolte in questo numero di Leggendarie vogliono essere anche una risposta a tanta cattiva letteratura e a tanta disinformazione prodotte in questi mesi sull’Aquila?
LUISA: La scrittura letteraria è un modo di informare diverso da quello giornalistico: viaggia su onde anomale, e non ha lo stesso pubblico. I lettori di giornali spesso snobbano questo modo di raccontare le cose, lo considerano romanzato, infarcito di roba inutile. E invece un racconto letterario “taglia” le cose nella loro essenza, ha un modo diverso di dirle, ha ritmo, ha musica, veicola il messaggio attraverso altri recettori che il puro raziocinio. Il grande miracolo della scrittura letteraria è di non proporsi mai nulla: non convince, non scandalizza, non spiega, non documenta. Ma al tempo fa molto di più: ti cambia prospettiva, ti fa diventare “altro” da te. Quella di Leggendaria perciò è una scelta precisa, capace di coprire un aspetto dell’informazione sul terremoto certamente diverso da quelli finora usati. Tra i due estremi del documentario di parte e del personalismo autoreferenziale dei blog, la scrittura narrativa scelta da Leggendaria può fornire la tessera decisiva del puzzle.
ROBERTO: Secondo te non c’è l rischio che, come abitanti di questa città, finiremo per percepirci come comunità solo in nome della tragedia che ci ha colpiti?
LUISA: Magari fosse. Magari ci potessimo sentire”comunità” in nome della tragedia. E invece corriamo il grande rischio della dissoluzione: lo spopolamento da un lato, la lotta intestina per la gestione della ricostruzione dall’altro. In buona sostanza, c’è chi se ne va, e c’è chi resta a litigare sul come restare. Se riusciremo a superare questi due grandi pericoli, la nostra comunità si salverà e avrà un futuro. Ma per farlo è necessario un grande senso civico, una grande umiltà, una grande praticità, e secondo me c’è bisogno anche di grandi leader delle parti, leader che si pongano come punti di riferimento e che siano capaci di anteporre a tutto il bene della comunità.

_____________________________________________________________________________