DE SENECTUTE – sulla costa

Eravamo ancora sulla costa quando è emerso, chiaro ed immediato, il criterio di selezione adottato per restare in città: solo la fascia “produttiva” aveva questo diritto. I vecchi, improduttivi e passivi, in albergo, al mare. Non c’è polemica in quello che dico: non avrei saputo proporre un’alternativa. Ma, come Maria, fui immediatamente vinta e quasi schiacciata dall’evidenza dell’esilio dei “grandi vecchi”. E la prima reazione fu di incredulità. Solo nei libri di fantascienza una società non concede ai suoi vecchi e di morire nella loro terra. La memoria (io che non ne ho mai avuta granché) mi recitava interi passi del “De senectute”. Ce n’era uno bello, quello in cui Cicerone crea la metafora della nave: la vita sociale è come un viaggio in una nave, vedi alcuni salire sugli alberi, altri andare correndo per le corsie, altri vuotare la sentina. Chi afferma che la vecchiaia deve essere esclusa dalla vita pubblica, è come se dicesse che nella navigazione il pilota non fa nulla. E invece, la barra in mano, seduto quieto a poppa, tiene la rotta. La città distrutta brulica di formiche impazzite, senza la testa dei “grandi vecchi”, che con il solo loro essere presenti, con il semplice stare, fanno il loro lavoro. In tanti hanno scelto di non lasciarsi portare via. “La baracca nell’orto, io da qui non mi muovo”. In tanti, più fragili, più sconvolti dal boato, si sono fatti deportare, rassegnati. Alberghi come ospizi. Passeggiano al mare, e i loro occhi cercano i monti. Quel sole e quell’umido, poi, i nostri vecchi non lo sopportano. So di alcuni che hanno chiesto di avere una stella alpina sul comodino. Come raggiungere questi nostri anziani in esilio? Come far arrivare da qui forte e chiaro che non li abbandoniamo? Dobbiamo dire che resistano, dobbiamo dire di tenere duro. Dire di aspettare, di essere forti… E che cosa aggiungere per quelli che non ce l’hanno fatta, che hanno ceduto prima, in preda al dolore della lontananza e alla paura dell’abbandono. Si sono ammalati, e in tanti, tantissimi, da un giorno all’altro hanno smesso di mangiare, hanno chiuso la bocca. Sono da annoverare tra le vittime del sisma, che invece, ufficialmente, resteranno sempre 300.

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ADOTTA UN BUZZICO

Tempo fa me ne stavo nella c.a.s.a. cercando di far quadrare il cerchio, quando si presentano due giovani sorridenti che gentilmente mi consegnano un bel buzzico color marrone, mi dicono che si tratta della raccolta differenziata dell’organico, mi consegnano un calendario tipo Frate Indovino e mi fanno firmare un documento.
Quando timidamente ho chiesto ai ragazzi: “Scusate, ma ora io questo dove lo metto?” mi hanno guardata stupiti. “Come? Sul balcone!”. “Quale balcone?” dico io. “Ah lei non ha un balcone?” “No! Esattamente come un sacco di gente che abita nelle c.a.s.e.”, mi sento di precisare. “Allora lo metta sotto al lavandino!”. “Ma sotto al lavandino c’è il fantastico secchio della spazzatura miracolo della tecnologia, che quando apri lo sportello si apre anche il coperchio! Lì ci va la spazzatura normale, mica il buzzico dell’organico!”, dico io. “Lo metta a fianco al secchio”. “Ma lì c’è posto solo per un paio di detersivi, non ci entra!”.
I due ragazzi iniziano a indietreggiare, azzardando, poverini, qualche altro tentativo: “… Al bagno?”. “Ma se al bagno non c’è nemmeno posto per il cesto dei panni sporchi, e devo tenerli in lavatrice!”. Improvvisamente grondanti di sudore, i due battono in ritirata, sparando le ultime cartucce: “…. Sul pianerottolo?”… “Sul pianerottolo ci sono gli stendini con i panni, vi ho detto che non c’è il balcone, no? e ci sono anche le dispense con i detersivi, mica vorrete che ce li teniamo dentro, i vapori ci avvelenano! Se ci mettiamo anche il buzzico non si passa piùùùùùùùùùùùùù!…”.
La mia voce accompagna i ragazzi alle spalle, lungo tutte le scale. Resto come una scema là in cima, finché non scompaiono all’orizzonte, come nei finali di Charlie Chaplin.
E così restiamo da soli. Io e il buzzico. Lo hanno lasciato in mezzo alla stanza soggiorno-cucina-camera da letto. La prima cosa che mi viene in mente è di agganciarlo a una corda e calarlo giù dalla finestra e tenerlo appeso lì. Mi rendo conto che non sarà un bello spettacolo per quelli che abitano sotto, ma che ci posso fare… anche io mi godo la vista dell’antenna parabolica del vicino che troneggia davanti alla mia finestra… No.. meglio evitare dai. Siamo fin troppo bravi a non prenderci a coltellate per i posti auto, dobbiamo avere pazienza. Evitiamo ok? C’è stato un terremoto no? Già, penso guardando il buzzico: c’è stato un terremoto e questi mi portano il buzzico. Mi viene in mente un flash: DOV’E’ LA TELECAMERA? Ma sì, ci sarà una telecamera nascosta! Dev’essere così! Hanno pensato di filmare le reazioni dei terremotati, per vedere fin dove arriva la pazienza!! Rido soddisfatta, mi aggiusto i capelli e mi guardo intorno, sentendomi improvvisamente osservata… “Dai, esci, lo so che ci sei!”.
No. Non è una candid. Mi sento tristemente sola. Guardo il calendario di fantastico Frate Indovino che mi hanno lasciato, per vedere se ci sono indicazioni su come gestire il buzzico. Scopro che devo buttare la spazzatura in certi giorni a certe ore. Mi colpisce il fatto che si parla di orari per me impraticabili, tipo dalle 22,00. Quando sono già a letto.
Arriva un altro flash: io che, in pigiama, vestaglia e pantofole scendo giù col buzzico in mano. Scordatevelo. Non se ne parla. Ho una dignità, io. Continuo a leggere, c’è scritto qualcosa sul compostaggio. Il compostaggio? Ma veramente? La pressione mi sale e avrei voglia di farlo a qualcuno, il compostaggio. Scopro con uno sguardo disperato che se butto la spazzatura fuori orario verrò multata. E che, se non conservo bene il buzzico e non lo restituisco a fine comodato, verrò multata ugualmente. Lo metto sul tavolo, siamo già amici, mi guarda con aria soddisfatta. Lo odio. Poi mi faccio coraggio: “Forza, siamo molto fortunati ad avere la c.a.s.a,. In Irpinia stanno ancora nei container, mentre noi riusciamo a pensare alla raccolta differenziata! Forza Luisa, fai un piccolo sforzo di buona volontà!”.
Io lo sforzo lo faccio pure, ma il problema è proprio di natura fisica, è un problema materiale e concreto, cioè DOVE PIFFERO LO METTO IL BUZZICO? DOVE? DOVE? DOVE?

Passano i giorni. Il buzzico troneggia, lucido e pulito, in mezzo al stanza, sul tappeto, davanti al divano-letto. La testa non si rassegna: mi succede come a gatto Silvestro quando a destra compare un angelo e a sinistra un diavolo. L’angioletto dice: forse questi del buzzico non sanno che le c.a.s.e. hanno tutte una camera-soggiorno-cucina! Forse questi del buzzico non sanno che moltissime non hanno neanche un balcone! Il diavoletto gli dà una martellata in testa e dice: “COME POSSONO NON SAPERLO? Saperlo è il loro lavoro, sono PAGATI PER SAPERLO!”.
Dopo qualche giorno il buzzico è diventato il mio interlocutore preferito. Lui è piccolino, ma a me sembra enorme, gigantesco, spropositato! Un buzzico ideato per una villa con piscina, mi sembra. Faccio un tentativo: lo metto sulla cappa della cucina. Sporge un po’, poverino…. Non mi sembra un buon posto, il calore è troppo vicino… E il buzzico torna sul tappeto.
Provo a leggere di nuovo il calendario di Frate Indovino con le istruzioni. Che bella cosa, la raccolta differenziata, che grande civiltà, che grande progresso, che grande ecologia! …..MA PROPRIO DAI TERREMOTATI DOVEVA COMINCIARE TUTTO ‘STO SENSO CIVICO?
…..
Altro flash filmico.
Atmosfera dorata, tipo Mulino bianco.
Gli abitanti delle c.a.s.e che si incontrano giù al parcheggio felici, ben vestiti, in una mano la ventiquattrore, nell’altra il sacchetto della raccolta differenziata. Vicino a loro camminano compunti due bambini con i capelli a caschetto, biondi, naturalmente. Reciproci saluti calorosi: “Buongiorno!!!!”… “Buongiorno a lei!!!“…. “Buon lavoro!!!!”….. “Altrettanto!!!”….. “I miei rispetti alla signora!!!”… Sorridono soddisfatti, esibendo il loro sacchetto dell’organico con la faccia di un boy scout dopo la buona azione quotidiana. Sotto alla scena filmica, una scritta scorrevole azzurra: “PERFINO I TERREMOTATI DELL’AQUILA FANNO LA RACCOLTA DIFFERENZIATA! FALLA ANCHE TU!”….
Puff… Il flash scompare in una bolla di sapone.
E vedo noi. Noi delle c.a.s.e.
NOI VERI.
Che la mattina ci salutiamo con un grugnito.
Incazzati.
Che abbiamo le facce da terremotati.
Che dormiamo ammucchiati, senza più privacy.
Che usciamo trasandati, con gli occhi abbottatti.
Anche noi col sacchetto della spazzatura in mano.
INDIFFERENZIATA, naturalmente.
Ognuno se lo carica in macchina, parte, e va a buttarla lontano, nei secchi che incontra sulla strada.
E quello che ti fa incazzare è che vorresti andare a buttarla sotto la casa di qualcuno.
QUI NON E’ ESATTAMENTE UN VILLAGGIO VALTOUR.
Fatelo voi il riciclaggio, FATELA VOI LA DIFFERENZIATA.
E mentre guido, col mio bravo sacchetto di spazzatura indifferenziata nel bagagliaio, mi domando: “Amici miei, fratelli di sventura…… voi dove avete messo il buzzico?”.
Leggende metropolitane dicono che molti lo hanno riposto, ben coperto, in qualche garage delle case rotte.
Altri lo hanno nascosto presso qualche amico fortunato che ha una casa. Qualcuno, purtroppo, lo ha dato in affidamento a parenti lontani, e ogni tanto telefona e chiede come sta.
Ma tanti, tantissimi, lo tengono in macchina, e la domenica lo usano per andare a togliere le macerie in piazza, in alternativa alla carriola. Li chiamano i “buzzicanti”, oppure per prenderli in giro “chi bazzica col buzzico”.
Vaglielo a spiegare, come vivono.

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IL TERREMOTO DEGLI ADOLESCENTI E LA LOGICA DEGLI AIUTI

Il Liceo Bafile, quest’anno, è stato aperto tutti i pomeriggi per consentire ai ragazzi di avere un punto di studio e di recupero permanente. Ma i ragazzi, a “Scuolaperta”, non ci sono venuti, le aule erano pressoché deserte. Le aspettative su questo progetto erano tante, tante le risorse impegnate: abbiamo pensato che i ragazzi avrebbero cercato nella scuola un punto di riferimento per creare gruppi di studio e di interesse. E invece niente. “Tu come passi il tempo libero?” è stata la domanda che ho posto più frequentemente durante l’inverno. “Quando è possibile andiamo nelle case di chi ce l’ha. Chi ha una casa vera, senza puntini, invita qualche amico, un po’ per volta, si fa a turno”. E già, il tempo libero è libero. E a scuola non ci vengono proprio perché deve essere libero. Liberamente si associano in piccoli gruppi spontanei. “Ma gli scambi, gli interessi, fare musica, passeggiare, incontrare?” chiedevo preoccupata. “C’è il cinema, ogni tanto. E ci sono i locali sul Viale della Croce Rossa, di sera, in genere il sabato. “D’accordo, questo lo sappiamo, ma come può essere che non vi organizzate, che non vi inventate qualcosa di diverso da proporci, per aiutarvi a realizzarlo?”. “Non siamo abituati” mi ha risposto Giacomo. C’era un tono di dispiaciuto rimprovero, in quel “non siamo abituati”. E mi sono chiesta quanta responsabilità abbiamo noi adulti in questa incapacità. Mi è tornato in mente quel consiglio comunale che avrebbe dovuto deliberare la sistemazione del porticato sotto la nostra scuola per uno spazio polifunzionale, consiglio mai concluso per abbandono dell’aula dei consiglieri e conseguente mancanza del numero legale. E mi viene in mente non per fare polemica spicciola, ma solo perché in quella occasione la reazione dei ragazzi attraversò tre stadi: prima si infuriarono e chiesero spiegazioni; poi ascoltarono le spiegazioni in silenzio; infine mugugnarono feriti e non fecero più nulla. Ragionevoli e composti, come abbiamo sempre chiesto loro di essere. “Non avete provato  a proporre qualcosa attraverso i vostri rappresentanti?” indagavo, per pura curiosità. ”Sì sì, certo, eccome! Abbiamo ottenuto un grande successo!” “Bene, questo mi fa molto piacere! Quale?”. “Il sabato sera verrà chiuso al traffico il Viale della Croce Rossa!”. Resto di sasso. Ma come? All’inizio dell’anno il loro obiettivo era smantellare Viale della Croce Rossa! (prima fase). Poi hanno accettato l’ineluttabile condizione di andarci (seconda fase); infine hanno smesso di chiedere alternative, facendoselo pure piacere! (terza fase). Si sono adattati. Perché l’unica cosa a cui li abbiamo davvero abituati, è ad abituarsi. Ad accettare le situazioni, a colorarle con la loro straordinaria fantasia, fino a farsele piacere. “Flessibilità! Flessibilità! Il mercato del lavoro richiede flessibilità!” Li abbiamo cresciuti a gran voce così, per capire poi, in queste situazioni di emergenza, che non funziona, che non è giusto, che non sempre è giusto adattarsi, se ci si adatta al peggio. Ho capito che nonostante tutti gli sforzi fatti dalla scuola, gli adolescenti aquilani sono pressoché costretti a crearsi delle vie di fuga mentali. La scuola non può essere tutto e non va delegata di tutto: ai ragazzi dobbiamo lasciare il sommerso, quello che si fa “sottobanco”: chiacchierare, passeggiare, e perché no anche un po’ bighellonare. Ecco perché guardano con sospetto l’extracurriculare che a scuola gli mettiamo sul banco, come fanno con quello che a tavola gli mettiamo nel piatto. E non lo mangiano. Fanno meno fatica in questo modo, che a cercare di chiedere parola presso gli adulti, troppo “occupati” per ascoltare questi piccoli cittadini. Gli adulti, gli “occupati” di Seneca. Siate seri ragazzi, c’è stato un terremoto, i grandi hanno da fare. Vai ragazzo, lasciami lavorare. In tanti piccoli si sono chiusi in camera, passano il loro tempo a navigare in un mondo virtuale, incontrando i lupi cattivi e girando dentro i vortici di misere trappole mentali. Un mancato invito a una festa diventa un affronto insuperabile che scatena rancori orribili, perché a quella festa non c’è un’alternativa da contrapporre per consolarsi. E noi abbiamo troppo da fare per capirli. Ci siamo illusi che concedere la “normalità” scolastica bastasse a dar loro un equilibrio. A scuola abbiamo dato un esempio di grande serietà, continuando a lavorare “come se”, e fornendo psicologi di sostegno. Bello, quel “come se”. Come se non ci riguardasse, dico io. Come se inchiodarli al libro fosse una soluzione. Ci siamo girati da un’altra parte per non vedere tanta sofferenza. Anche dopo un terremoto, noi continuiamo a considerare gli adolescenti dai 14 ai 17 anni come dei cretinetti che non si vogliono impegnare e cercano divertimento facile, pub e discoteche. Fastidiosi che sono, a quest’età, vero? Né grandi, né piccoli. Come Alice, ora si sentono giganti, ora nani. Perciò, non avendo loro stessi una reale percezione di sé, non li vediamo “seri” e degni di essere ascoltati. Da una prima, semplice ricognizione dei lavori presentati dai ragazzi per il Progetto “L’Aquila 2019”, ideato e bandito dai docenti del Bafile, (l’unica cosa che la scuola possa fare, come sempre, è “impegnarli” in positivo) è emersa tanta sofferenza, specie nei piccoli di 14-15 anni. Tanta nostalgia e anche tanta voglia di fare. I lavori, per ora solo raccolti e numerati per la imminente consegna alla giuria, presentano un’immagine del passato della città prepotentemente superiore all’immagine del futuro. Perché questi adolescenti la città l’hanno vissuta, se la ricordano bene. Tra le righe si legge solo un doloroso vorrei che non fosse mai successo. Troppo grande per loro. Non riescono a gestirlo. Nei progetti architettonici, invece, tante proposte costruttive: vogliono spazi di cultura, spazi per leggere, guardare DVD, discutere, trovare angoli di ristorazione con cucina straniera, ricostruire una piazza, un passeggio… Un passeggio. Che ne sarà di questi loro bisogni? Accadrà che “caleremo sopra” ai ragazzi le nostre scelte adulte e serie? Mi viene in mente la storia di certi interventi umanitari in Africa: gli evoluti paesi ricchi videro che in un villaggio africano le donne dovevano percorrere 10 km di strada, alla sera, per andare a prendere l’acqua in un pozzo. Gli aiuti misero su una task force e in breve costruirono un avveniristico e costosissimo acquedotto. Ma le donne continuarono, alla sera, a prendere le giare, a mettersele sulla testa e farsi i loro 10 km a piedi per prendere l’acqua dal pozzo. Furono mandati degli antropologi, per cercare di capire il perché. E si scoprì che quei dieci chilometri, per le donne del villaggio, costituivano l’unico momento di riposo, di chiacchiera, di passeggio. E’ quello che faremo? Costruiremo anche noi acquedotti inutili per i nostri ragazzi, dove loro si rifiuteranno di andare? Apriremo le scuole tutto il giorno per vederle poi deserte? Li abitueremo ad abituarsi? Suggerisco da sola i commenti, li so già. “Eh, questi ragazzi, vogliono sempre la pappa pronta! Non è vero niente, per loro abbiamo fatto questo e quello, gli abbiamo dato questo e quello…” Certo, anche noi li abbiamo scarrozzati e impegnati. Ma è sufficiente? E poi, la madre di tutte le repliche: “Che educatori sono quelli che incoraggiano al passeggio invece che a studiare!”. E io allora dico che noi adulti, il nostro passeggio, a quell’età, lo abbiamo avuto. I portici, la colonna, lo “struscio”, la piazza, li abbiamo avuti. Siamo onesti, avete già dimenticato? la giornata non era passata, se prima non s’era fatto “un giro”. E conoscevi le persone per caso, non perché ci andavi a sbattere col carrello della spesa. Le incontravi e basta. Ora
che cosa succederà? Gli costruiremo nuovi posti per spendere meglio la loro paghetta? Costruiremo per loro tanti begli acquedotti costosi? Non so che cosa augurarmi: che si adattino a girare il rubinetto che gli metteremo davanti, o che trovino un modo per andare a prendere l’acqua dove gli pare. A piedi.

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DOMANI VIENE MICHELE

“Domani mattina viene Michele”.
Non mi ricordo che effetto mi fece questa frase detta al telefono dalla voce emozionata di Giuseppe. Di sicuro mi ha gettato nel panico. “Sì… Michele viene domani mattina, viene a scuola a trovarci”.
Oddio. Che gli dico. Come mi comporto. Non ci so fare, non sono la persona giusta, Giuseppe ha sbagliato…
Cosa gli dico io a Michele Gazich?
Faccio un po’ di prove tecniche di trasmissione tipo: “Buongiorno Maestro, Lei non può immaginare che cosa sia la Sua musica per me” oppure: “Buongiorno Michele, è un onore averLa qui, venga, Le mostro i corridoi e la palestra”.
Eccerto. I corridoi e la palestra.
A Michele Gazich.
“Ma dai – mi dico – in fondo sarà lui a parlare. Gli artisti son così, un po’ matti, un po’ narcisisti. Mi parlerà dell’ultimo disco e andrà tutto bene. Anzi, speriamo che arrivi quando sto facendo lezione, almeno lo presento ai ragazzi. Non mi è mai capitata una cosa del genere. Un cantautore in classe”.
Mi figuro la scena.
Lui e Giuseppe entrano proprio quando sto finendo di leggere il “Cinque maggio”. Non so se avete presente: lettura enfatica dell’ode in climax fino alla pausa teatrale d’obbligo, prima della parola “posò”. In genere pochi secondi prima suona il campanello e mi rovina. Quest’anno invece busseranno alla porta e sarà Michele Gazich. Ok. Può andare.
Mi sfugge il seguito della scena. Che faccio dopo? Mi preparo le fotocopie di qualche suo testo? Mi vedo: distribuisco le fotocopie di “Poeta in gabbia” e poi… “Analisi del testo!”. Sacrosanta rivolta di massa della classe.
Cambio film.
Ascoltiamo un brano di Michele, poi intavoliamo una discussione. Sento la voce di Nanni Moretti dall’ultima fila che grida: “Noooo … il dibattito nooooooooo!!”. Parole sante.
Reset.
Altra scena.
Provo a immaginere i dettagli. Com’è fatto, dove lo faccio sedere, come si svolge la scena.
“Dovresti vederlo” mi ha detto un giorno Giuseppe, ben sapendo che non mi sono mai preoccupata di dargli una faccia. “E’ un personaggio, io l’ho conosciuto a Subiaco che girava da solo per le montagne, col suo cappello in testa”.
Quando Giuseppe ha detto “col suo cappello in testa”, ha fatto un gesto come per alzare la mano in aria, così: “CAPPELLO!” E non un gestuccio piccolo, tipo a schiacciarsi la mano in testa, come a dire la coppola di Lucio Dalla, no no, proprio con la mano per aria, alta, con gli occhi in un piccolo guizzo all’insù. Come a dire il cilindro di Zucchero Fornaciari. Vedo un corvaccio nero col pastrano lungo e gli occhialetti da cieco senza cane, salire le scale della scuola.
Brutto effetto.
“Un cilindro. Lo vedi?” mi dico “Dev’essere un tipo strano, e io coi tipi strani mi impappino come con i bambini, perché sono imprevedibili, ti spiazzano con una battuta che per loro è niente, e invece a me mi stende”.

Che poi i miti non si dovrebbero mai conoscere.
E che cavolo, Michele era un mito per me, come gli salta in mente a Giuseppe di trasformarlo in carne e ossa? se ne stava bello bello nella mia teca mentale, mi parlava con le sue canzoni, da lontano, etereo e incorporeo… Come Orazio, Baudelaire, Oscar Wilde, Pirandello. E chi li conosce? Che è ‘sta cosa che si deve per forza impattare col corpo? Sono aquilana verace, porca miseria. Gli aquilani non si smuovono mai per i miti. Una volta mi trovavo a Roma in un bar e mentre telefonavo a casa vidi passare un politico importante, così mi scappò di gridare con entusiasmo a mio padre, che era all’altro capo del telefono: “Non ci crederai, ma è appena passato Tizio!” E mio padre, laconico, da buon aquilano, rispose: “Salutamelo…”
Oh sanguis meus! C’aveva ragione!
I personaggi sono fatti per stare nelle teche.
E invece, domani Michele viene qui.
Esce dalla teca dove l’ho tenuto per tutto il terremoto.
Ma andrà tutto bene: faremo un giro, io, Giuseppe, lui, il suo pastrano nero e il suo cilindro.
Farò gli onori di casa e tutto andrà come deve andare.

Ci siamo, è il momento, sono abbastanza calma.
Sto per terminare la lezione sul “Cinque maggio” come da copione.
Faccio la pausa teatrale, dico ” posò “. Silenzio.
La classe, muta, assapora il momento catartico.
Subito dopo sento bussare, e schizzo in piedi.
La porta si apre di una spanna appena.
Intravedo Giuseppe, che resta fuori: con lo sguardo fa un gesto come per dire “puoi uscire un attimo?”.
Mi precipito, preoccupata. “Sarà successo qualcosa”.
E invece Michele è lì.
Vicino a Giuseppe.

Il cappello è sotto il braccio.

Il cappello è sotto il braccio.

E’ un cappello normale, ed è sotto il braccio.
Niente cilindro, niente pastrano nero, niente occhialetti da cieco.
Dalle finestre del corridoio, una luce morbida.
Pochi secondi. Capisco tutto.
La Endemol Deformation mi ha fatto aspettare un uomo di spettacolo.
E invece Michele è un Uomo. Come quello di Oriana Fallaci.

Lui è ciò che scrive.

Mi saluta affabile, dolce.
La mano è leggera.
La voce è leggera.
Gli occhi chiedono.

Tutto in lui è partecipazione.
Mi chiede del terremoto, vuole sapere.
Mi chiede del campo di Collemaggio.
Io ero al campo a Collemaggio.
Mi chiede di Santa Maria degli Angeli.
Io abitavo vicino a Santa Maria degli Angeli.
Pensavo che venisse per parlare.
Invece è qui che mi ascolta.
Ho davanti a me una persona gentile.
GENTILE.
Avevo dimenticato che esistono persone GENTILI.

Lui è ciò che scrive.

Resta cinque, dieci minuti, poi dice che non vuole disturbare e se ne va.
Nell’alone di luce delle finestre del corridoio.
Resto lì.
Con l’anima piena.

Io non so perché certe cose succedono.
Non so perché certe persone mandano così tanta energia da sembrare angeli. E non so perché tutto questo sia successo a me.

Ho conosciuto un poeta.
O forse un angelo.
Pensandoci bene, non c’è differenza.

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Michele Gazich e la Nave Dei Folli – Collemaggio